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PHILIP SEYMOUR HOFFMAN - Il Maestro

3/2/2014

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Ci sono notizie che proprio non vorresti scrivere, né commentare. La morte di Philip Seymour Hoffman coglie il mondo del cinema impreparato e scioccato, ma colpisce e lascia sgomenti anche cinefili e semplici amanti dei film. Non è questa la sede per riflettere sulla caducità della vita, o sulle cause che hanno condotto Hoffman al termine della propria esistenza ad appena 46 anni, con una moglie e tre figli che gli sopravvivono. Lo vogliamo invece ricordare come il grande attore che è stato e che, almeno nell’immaginario, e per gli anni a venire, continuerà a essere.
Conosce la gavetta, quella vera: partecipazioni a qualche serie tv di successo come Law & Order, piccoli ruoli secondari o da comparsa (Vendesi miracolo, Getaway!, Amarsi) fino all’incontro del destino, quello con Paul Thomas Anderson, con cui gira l’indipendente Sydney (1996). È l’inizio di una carriera cinematografica straordinaria che lo porterà, col tempo, a ritagliarsi un posto privilegiato nel cinema fuori dal mainstream. Hollywood lo apprezza, ma non lo riconosce come una star, non ha il physique du rôle. Si capisce dalla particina cui viene relegato nell’action movie Twister. Non sarà mai quella la sua strada.
Philip Seymour Hoffman è forse l’attore che meglio rappresenta il cinema di P.T. Anderson. Il successo di Boogie Nights (1997) lancia verso la notorietà l’intero cast. Se il 1998 è l’anno della svolta - con due pellicole rigorosamente indie (Happiness di Todd Solondz e Il grande Lebowski dei fratelli Coen) è Magnolia a consacrare il suo talento. Tom Cruise ottiene la candidatura agli Oscar per quel film, ma Hoffman rimane impresso a tutti per il ruolo del sensibile e devoto infermiere al capezzale dell’anziano Jason Robards. L'uomo nato a Fairport nel 1967 sa giocare con i suoi personaggi e con la propria versatilità di interprete, ha la presenza scenica e la capacità di immedesimazione che fa grandi gli attori, non solo i caratteristi. Eppure inizia per lui una lunga, per quanto eccellente, serie di ruoli di secondo piano. Se è vero che a Hollywood i caratteristi di una volta non esistono più, Philip Seymour Hoffman sembra destinato a smentire tale diceria. È ben diverso l’approccio scanzonato dell’attore in opere come Ubriaco d’amore (sempre di Anderson) nei panni di un improponibile boss del porno, rispetto al personaggio del giornalista al massacro di Red dragon, dove la sua bravura sembra addirittura eccessiva per il compito richiesto.
Hoffman è un attore drammatico, ha la caratura e lo stile del peso massimo, ed è nel dramma che davvero eccelle. In un film corale come La 25ma ora si cala con tormento e disperazione nei panni del debole Jacob, insegnante invaghito di una sua studentessa. La 25ma ora appartiene a Edward Norton, ma, come per Magnolia, questo è un altro caso di coralità e interdipendenza degli attori, ognuno baciato dalla luce dell’altro.
Non sarà mai il primo attore, sembra sussurrare Hollywood, nonostante l’impegno profuso anche nel teatro, come interprete e regista di piccole pièce che gli fanno guadagnare anche due prestigiose nomination ai Drama Desk Awards nel 2001 e nel 2003. Poi però arriva Bennett Miller. Lo script di Dan Futterman sulla stesura del romanzo A sangue freddo è l’occasione della vita per Hoffman, l’opportunità unica per un caratterista di mettere se stesso al servizio di un personaggio realmente esistito, Truman Capote, e di immedesimarsi in quella fetta di storia americana, per emergere come il Capote che la cultura contemporanea ci ha tramandato. Philip Seymour Hoffman compie un imponente lavoro su se stesso, plasmandosi nella forma del grande scrittore non solo con il corpo, la mimica o la voce, ma nella motivazione. Stilisticamente impeccabile, riscrive in un sol colpo tutte le convenzioni sul caratterista di classe, elabora le eccentricità della recitazione e centra la sua originalità specchiandosi nella figura contraddittoria, indomabile, complessa del vero Truman Capote.
L’Oscar come migliore attore lo lancia finalmente nel gotha hollywoodiano a pieno titolo. Da quel momento è un inanellarsi di performance sempre altissime, in pellicole di assoluto rilievo. L’Oscar è un passaggio nella sua carriera, e il successo non sembra influenzare le sue scelte. Superata la vacanza di Mission Impossible III, arriva La famiglia Savage, in cui duetta splendidamente con Laura Linney. Poi Onora il padre e la madre di Lumet, tragico affresco di una famiglia in rovina, per una delle sue prove più toccanti e disperate. Ottiene ancora due candidature, per La guerra di Charlie Wilson e Il dubbio. È l’incontenibile guru delle radio rivoluzionarie in I love Radio Rock, in cui con assoluta fierezza affonda con le proprie idee. Debutta dietro la macchina da presa con Jack Goes Boating, ritagliandosi la doppia veste di attore e regista per un lavoro imperfetto ma tenero, sincero e non privo di sprazzi di notevole fattura.
Al culmine del successo cinematografico si concede ancora la sfida di Broadway, con Mike Nichols nel revival di Morte di un commesso viaggiatore, per cui sfiora (per la terza volta) il Tony Award, unico premio mancante nella sua nutrita bacheca. Ma lui è anche (o soprattutto) The Master, l’ipnotico capo di una setta nel discusso e complicato dramma di P.T. Anderson. Sempre lui. Un binomio inscindibile, il loro. Hoffman il maestro. Un pifferaio magico che ti incanta con le parole, o anche solo guardandoti. Questo ruolo, speculare allo Willy Loman di Arthur Miller, rappresenta forse l’apice della sua maturità artistica, qualcosa che sintetizza perfettamente la sua poliedricità, dentro e fuori dal palco, con e senza macchina da presa. Un attore al servizio dei suoi personaggi.
Entra in scena la commozione pensando che tutto debba esaurirsi così. Che questa lettura parziale e personale dei lavori di Philip Seymour Hoffman rimanga mozza, tronca, incompleta. Come ogni vita che si spezza e uscendo di scena ti strappi via qualcosa. Egoisticamente sale anche la rabbia e un certo senso di spaesamento, pensando a quanto ancora avrebbe potuto regalarci un attore così sensibile, potente, carismatico. Ci ha tolto il privilegio di vederlo, applaudirlo, di amarlo ancora.
Ma poi c’è sempre il cinema, indelebile, a renderlo immortale.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Extra

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