“Possession e La Sciamana (1996) rappresentano gli esiti più distonici, fantasmagorici ed erotici del suo cinema” (1). Da lì è iniziato il mio viaggio alla scoperta del cinema zulawskiano, attraverso le sue ossessioni immortalate su pellicola, le corse sfrenate della mdp, ora attraverso corridoi stretti e cupi, ora attraverso le radure fredde della sua Polonia.
I semi del suo cinema si palesano da subito, sin dalle prime opere polacche, La terza parte della notte (1971), abbacinante esordio alla regia, dopo le collaborazioni giovanili con Andrzej Wajda, e Diabel (1972), opera “fisica” fortemente osteggiata in Polonia, al punto che la prima proiezione pubblica in patria avverrà solo nel 1987. Un film fortemente storico e politico che parla, tra l’altro, del declino della Polonia nel settecento con riferimenti all’attualità del Paese. La domanda, il leit-motiv, di questa sua seconda regia, è quella filosofica posta dal diavolo: “Il male vi presenta il mondo, le cose, come lui vuole o come esse sono?” (2).
Il cinema di Zulawski, così anarchico e feroce, nella sua amata terra d’origine ha sempre destato scalpore, vuoi per il suo essere così libero, vuoi per i contenuti politici presenti in ogni sua pellicola. Il blocco del film Il Diavolo determinò la scelta di trasferirsi in Francia. Libero di esprimersi, il regista polacco, nel periodo francese, realizza quelle che sono le sue opere più note, L’importante è amare (1975), Possession, La femme publique (1984), L’amore balordo (1985). Graffi sulla pellicola, ora sanguinante ora danzante, in quel caos folle e geniale che nietzschianamente genera stelle; il caos zulawskiano, ribelle, psicotico e squisitamente perverso. Una danza condotta da quella camera a mano che ruota in modo ossessivo intorno al corpo, che accompagna lo sguardo in corse sfrenate, fino al completo smarrimento dei sensi, in un deragliamento di emozioni coinvolgenti e sconvolgenti.
1) Fabrizio Fogliato, Trascendere la trascendenza, Nocturno dossier La fossa dei Serpenti, dicembre 2008.
2) Michele Salimbeni, Il cinema di Andrzej Zulawski, Possessione, fedeltà e amour fou, tra arte e vita, RESedizioni, 2002.
Ho sempre provato un piacere sottile ma profondo nel lasciarmi travolgere dalla regia zulawskiana, così legata alle ossessioni del suo autore, tra i rimandi dostoevskijani, i voli della mdp che scivolava vorticosamente tra gli spazi architettonici, che si insinuava tra i protagonisti, in un ballo su note sincopate, aprendosi su urla munchiane. Un grido muto, stampato sui visi delle sue protagoniste, straziante e feroce, sulla difficoltà di amare e l’impossibilità di comunicare. Uomini e donne sono distanti, pianeti su orbite diverse, un urlo che libera la ferinità femminile, una delle costanti nelle opere di Zulawski, che le donne le ha amate profondamente e che come pochi le ha sapute raccontare, mettendo in luce le ombre più cupe di una femminilità primordiale.
Lo sguardo allucinato di Anna (Isabelle Adjani), la danza selvaggia di Ethel (Valérie Kaprisky), le lacrime di Nadine (Romy Schneider), la follia irriverente e conturbante di Wloszka (Iwona Petri): le donne del cinema del regista polacco, vivono, soffrono, piangono, ridono e si perdono, in un cinema declinato quasi totalmente al femminile, dedicato ad un femmineo euripideo, passionale e appassionato, selvaggio e notturno.
La sua cinematografia ha stregato il mio sguardo; ogni singola opera, dalle più note a quelle considerate ingiustamente minori, come Le mie notti sono più belle dei vostri giorni (1989), La note bleue (1991) o La fidélité (2000), riservano il fascino di un cinema unico nel suo genere, prezioso e raro, in cui il regista si dimostra sempre un esperto conoscitore della tecnica e un innovatore del linguaggio cinematografico.
Un autore scomodo, censurato nel suo Paese e considerato blasfemo dalla Chiesa, narratore di un mondo malato, in decomposizione, dove tutto è una continua lotta tra il bene e il male; “tutto il male viene dalla Terra e lei è una stella ribelle e maledetta che i nostri occhi non dovrebbero guardare” (3), come riportato dallo zio Jerzy Zulawski, in La trilogia della luna, da cui fu tratto il film più travagliato del regista, Sul globo d’argento (1977-‘89), un lavoro visionario, surreale e sperimentale, nell’uso della tecnica e del linguaggio. Il Ministro della Cultura del regime polacco interruppe le riprese prima che fossero concluse e fece bruciare i costumi di scena e le scenografie; solo dopo la caduta della dittatura Andrzej Zulawski poté terminare il film, nel 1989, riprendendo il girato del 1977.
3) Jerzy Zulawski, La trilogia della luna.
Il cinema del regista è eversivo, anarchico e visionario, in bilico tra sogno e realtà, dove la violenza è parte integrante, come lo è nella vita reale, nei rapporti umani. Campo di sperimentazione artistica, l’opera zulawskiana non si pone limiti, vive in un oltre, alla ricerca continua di uno spazio e di un tempo unico e personale. Teatro, poesia, musica e letteratura, tutto è portato in scena, da quel Dostoevskij, così amato da Andrzej, a Boris Godounov, omaggiando a suo modo l’opera di Mussorgskij, il legame con Jerzy Grotowski e il suo teatro, rimanendo particolarmente affascinato dalla recitazione dei suoi attori, fino alla letteratura di Witold Gombrowicz, su cui è basato il suo ultimo lavoro, Cosmos (premio per la migliore regia a Locarno 2015).
“Un’immersione nell’abisso dell’anima” (4), la verità cruda e violenta, contro ogni forma di menzogna politica, e la dissacrazione dei tabù per far crollare la maschera, perché “è ciò che permette di offrire il nostro essere nudo a qualcosa di indefinibile ma che contiene Eros e Charitas” (5). Forse la natura più profonda del cinema zulawskiano ha una forte matrice autobiografica: “la mia vita, il mio corpo, la mia biografia, sono il campo d’esperienza. Se devi dire qualcosa di onesto, devi pescare in questo terreno. E ciò spesso fa male: così i miei film sono lì per raccontare storie che mi toccano. Noi polacchi spesso ci diciamo che facciamo cinema come una sorta di completamento alla nostra biografia. La nostra generazione, nel periodo dell’infanzia, ha conosciuto la guerra e lutti politici. Tutta questa potenzialità di vita sepolta nel passato si risveglia a contatto con il cinema: i film sono la seconda vita” (6).
4) Andrzej Zulawski, Le roi maudit, conversazione con JéromeDouai, Starfix, n.ro79, dicembre 1989.
5) Jerzy Grotowski, Per un teatro povero, Buloni editore, Roma 1970.
6) Andrzej Zulawski in Passione e viscere. Il cinema di Andrzej Zulawski. A cura di Sergio Naitza. Catalogo per la retrospettiva dedicata ad Andrzej Zulawski. Trieste Film Festival, XIV edizione, 2003.
Zulawski era come il suo cinema, un uomo rigoroso, integerrimo, apparentemente una roccia inscalfibile, ma granitico solo in apparenza. Andrzej era infatti una persona generosa e disponibile. Quando lo incontrai la prima volta, qualche anno fa, dovevo presentare una retrospettiva a lui dedicata, in occasione della prima edizione del Festival del Cinema Polacco, al Cinema Trevi: parlammo a lungo, passammo qualche ora insieme e imparai a conoscerlo. Mi raccontò della sua famiglia, di come era stata la vita di suo padre e poi la sua, in quella Polonia così ostica, quando per le strade c’erano i cadaveri; i suoi occhi erano fieri, gli occhi di chi ha voglia di aprirsi in maniera diversa; voleva evitare, come tenne a sottolineare, “le solite banalità che si dicono su di me e sui miei film, sempre le stesse cose”.
A quel primo momento seguirono due giornate intense in sua compagnia e del suo cinema, una lezione al Centro Sperimentale di Cinematografia e il suo settantatreesimo compleanno festeggiato con gli amici del Festival. Fu proprio durante quelle giornate che maturai l’idea di scrivere qualcosa su di lui. Ne parlai con lui, e la prima cosa che mi chiese fu: “lo faresti per motivi accademici?”. Un po’ imbarazzata risposi “no, lo farei esclusivamente per passione, la passione che nutro e che riscontro nei tuoi film”. Quella era la risposta che voleva; mi disse “la passione è il motivo migliore per intraprendere qualsiasi impresa”. Da allora mi fu vicino. Ci siamo incontrati innumerevoli volte, e quando gli chiedevo di parlarmi del suo cinema, dettagli tecnici di questo o di quel film, il suo sguardo si illuminava; si accarezzava i capelli e tornava quel ragazzo anarchico e libero che girava opere feroci sulla vera natura dell’uomo.
Con Andrzej Zulawski ci abbandona l’ultimo barlume di feroce visionarietà carnale, la vertigine filmica in cui ci si smarriva abbandonandosi alla passione delle emozioni. Se ne va una parte della mia vita, una persona che mi ha insegnato molto su quella splendida follia immaginifica che è il cinema.
Mariangela Sansone
Sezione di riferimento: Extra
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