Il film risulta diviso in cinque capitoli, ciascuno corrispondente all’arco di un giorno diverso e casuale, in un periodo che va dal 12 ottobre 1993 al 23 dicembre dello stesso anno, all’interno di una struttura perfettamente geometrica. I primi due, descrittivi, durano ciascuno 30’ circa e sviluppano la presentazione dei personaggi, alcune dinamiche dei loro rapporti interpersonali, alcuni tratti del loro carattere. I due segmenti successivi, tendenti invece all’argomentazione, della durata di 6’ circa ciascuno, approfondiscono alcuni dei temi portanti del film. L’ultimo capitolo, una ventina di minuti, vede il procedere dell’azione farsi più stringente fino all’epilogo.
Ogni giornata viene introdotta dalle immagini di un telegiornale, le quali, a differenza dei due lavori precedenti del regista austriaco, in cui le notizie e le trasmissioni televisive costituivano solo un sottofondo audiovisuale alle attività dei personaggi, balzano in primo piano, occupando tutto lo schermo. Si susseguono bollettini e cronache di guerra (Medio Oriente, ex Jugoslavia, Kurdistan turco, Somalia, Ulster) o si dà spazio a notizie più prosaiche, come le bizzarre preferenze sessuali di Michael Jackson. Il tutto è reso attraverso il tono asettico e impersonale tipico dei notiziari televisivi, che crea un cortocircuito col tono altrettanto asettico e impersonale della maggior parte delle conversazioni private e pubbliche a cui si assiste nel corso del film, in quanto tonalità espressive appartenenti a fenomeni dialogici, socio-antropologici, esistenziali affatto diversi, eppure perversamente equivalenti, causticamente tratteggiati dall’autore come aderenti a un unico orizzonte di esperienze prive di ogni emotività. Si tratta anche dell’unica equivalenza, dell’unica corrispondenza piena in un’opera marcata invece da continui scarti, impossibili conformità nonché da una palese assenza di comunicazione affettiva fra i personaggi.
La vita di coppia è un inferno per Hans e Maria: lui, guardia di un furgone portavalori, lei, malvissuta casalinga con figlia piccola a cui badare, la cui vita risulta confinata alle mura domestiche. Hans, goffo e impacciato come uomo e come marito, sembra invece ritrovare il proprio equilibrio nella dimensione lavorativa, ripetendo quotidianamente sempre i medesimi gesti meccanici: acquisizione delle valigette metalliche col denaro, viaggio nel furgone blindato, consegna del denaro alla banca. Da vero e proprio uomo monodimensionale, la sua essenza di vivente si esaurisce nella funzione espletata all’interno della società.
Non se la passano molto meglio Paul e Inge, che, pur sembrando affiatati, riversano nella ricerca di un bimbo da adottare l’affetto che, evidentemente, non riescono più a esprimere come coppia. Per tutto il tempo in cui occupano lo schermo non riescono a comunicare in altro modo se non attraverso l’argomento dell’adozione o la scelta fattuale del bambino da tenere con sé.
Ancor più desolante risulta il rapporto fra l’anziano Tomek e la figlia, cassiera nella banca che costituisce lo spazio-perno del film. Il vecchio è costretto a fare la fila allo sportello per poter parlare per pochi istanti con lei, che gli risponde freddamente, o attendere di sfogare al telefono le proprie frustrazioni. Pur essendo un personaggio malinconico, anche Tomek risulta risucchiato nei perversi meccanismi dell’egoismo diffuso, allorché lo sentiamo esclamare (durante la lunga telefonata alla figlia, un piano-sequenza fisso di 9’): “Certo che parlo solo di me stesso! Non vi è altro di cui una persona decente potrebbe parlare”. La donna risulta invece, come svariati altri personaggi, una mera funzione attiva, legata esclusivamente al proprio robotico lavoro.
Figura centrale per lo sviluppo della narrazione, ancorché ennesimo personaggio-funzione, è Bernie, militare che ruba armi dalla propria caserma per rivenderle, mosso solo dall’arrivismo e dalla cupidigia. Una delle sue pistole verrà però acquistata da Max, portando la storia al suo epilogo sanguinoso. Bernie risulta quindi la mano armata del caso, tanto più che il suo furto sarà scoperto e la sua abitazione perquisita, quando ormai l’arma è già nelle mani di Max.
Tutto il film è percorso trasversalmente dal disagio dell’uomo contemporaneo nei confronti di un ambiente e di una società, in cui regnano la distanza, l’isolamento, l’impossibilità comunicativa o, per dirla con Deleuze, lo scambio ineguale (1): parole vuote (che vorrebbero essere piene di significato) in cambio di comprensione; affetto in cambio di riempimento del vuoto esistenziale; curiosità, rabbia, astio, notizie tragiche in cambio di indifferenza. E poi, su tutto, lo scambio ineguale per eccellenza: denaro in cambio di tutto, dove questo tutto è rappresentato da ciò che il denaro può comprare, cioè il bene di consumo, non sineddoche ma ossimoro del Bene. E anche, infine, denaro in cambio di armi, perfetta metafora/sineddoche del rapporto fra il microcosmo (il comodo ambiente borghese che osserva il resto del mondo alla tv) e il macrocosmo complessivo. La perfetta geometria/simmetria del film, apparentemente lineare e trasparente, confligge dialetticamente col contesto rappresentato, dove nessun conto torna e dove la natura umana – così complessa, oscura, molteplice, sfaccettata, ancorché penosamente prona ai perversi meccanismi dell’istituzionalizzazione – non riesce mai a piegarsi del tutto, finendo, talora, con lo spezzarsi rovinosamente.
Un discorso a parte meritano Max, il personaggio principale per lo sviluppo della narrazione, più che vero protagonista (2), Hanno, l’altro studente che divide con lui l’appartamento, e Marian, il ragazzino che arriva dalla Romania. Marian viene non solo da un altro paese, ma da un’altra dimensione sociale ed esistenziale. Straniero in terra straniera, il suo approccio al nuovo mondo non risulta mediato dalle sovrastrutture comportamentali che imbrigliano gli altri personaggi, ma esprime una notevole, semplice e cristallina curiosità per le luci e i colori rutilanti di una ricca capitale europea prossima al Natale. Immerso in una iper-percettività originaria, egli tace e guarda tutto non solo come un ragazzino, ma, appunto, come un essere di un altro pianeta, che vede per la prima volta un mondo del quale gli altri, gli autoctoni, a malapena sembrano accorgersi.
1) Cfr. G. Deleuze, Cinema 2 – L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989, 4^ ed. 2001, in particolare le pp. 92-93.
2) In questo film, Haneke non accorda particolari privilegi di ruolo a nessuna figura. Tutti i personaggi risultano osservati con equidistanza (a parte forse la simpatia del regista per il ragazzino rumeno), portando a termine il compito connesso al proprio ruolo, per tornare poi al fuoricampo, come marionette mosse da un filo invisibile.
Max, così come Marian, è un estraneo rispetto al quadro socio-ambientale in cui si trova a operare, visto che viene dalla provincia e, come Marian, è uno dei rari personaggi a mostrare dei barlumi di autentica umanità, sia pur deviata. Apparentemente integrato nel contesto umano della grande città, il suo ruolo pubblico è scandito da due attività: giocatore di ping-pong e studente universitario. È soprattutto nella prima che gli è richiesta una notevole e meccanica performatività. Due sequenze emblematiche al riguardo: la prima, un esasperante piano-sequenza fisso di alcuni minuti, in cui lo si vede allenarsi da solo con una macchina lancia-palle; la seconda, un altro piano-sequenza fisso (5), in cui viene mostrato lo schermo di un televisore, su cui scorrono le immagini di una sua partita videoregistrata, che viene commentata dalle voci off di Max e del suo allenatore, il quale gli richiede, con sarcasmo, una maggior funzionalità e correttezza nella postura corporea.
3) Da noi più noto come Shangai.
4) Frase questa che sintetizza perfettamente la concezione logico-matematica di Hanno nei riguardi dell’esistenza.
5) In realtà tutto il cinema di Haneke è costituito di inquadrature fisse, che spesso assumono la valenza sintattica del piano-sequenza.
Ancora una volta, all’essere umano viene imposta un’efficienza che trascende le sue naturali predisposizioni, una continuità tecnico-fisica tipica della macchina. Max, però, presenta anche delle sfasature, delle incrinature (in un comportamento altrimenti inserito pienamente nei parametri di normalità condivisi), che costituiscono dei potenziali punti di rottura della sua psiche. Lo si vede alterarsi notevolmente, in un bar, quando uno degli sfidanti di Hanno al gioco della croce distrugge le tessere di carta; poi, all’uscita da una delle lezioni all’università, lo si vede dirigersi verso una delle grandi finestre che si affacciano sull’esterno e guardare dall’alto in basso, per ritrovarlo, nell’inquadratura successiva all’uscita dall’edificio, a scrutare dal basso la finestra di prima e poi l’asfalto, dove compare l’ombra semicancellata di una sagoma umana disegnata col gesso. Ciò che passa per la sua mente non è dato saperlo, anche se risulta facilmente intuibile.
È l’acquisto della pistola a costituire, però, l’elemento decisivo per capire l’instabilità emotiva del soggetto e, soprattutto, per individuare le arcane circonvoluzioni del caso. Durante una fila alla cassa di una mensa, proprio mentre una ragazza gli sta parlando della scommessa di Pascal – paradigmatica riflessione sulla dialettica fra scelta volontaria e capricci del caso, ma anche capovolgimento grottesco del dia-logos filosofico, dell’espressione della spiritualità umana, svilita in un contesto prosaico – gli viene consegnata la pistola da uno degli intermediari della transazione. Il caso (espressione del caos che regola le sorti umane), una volta di più e una volta di troppo ha vinto. Il resto non è altro che la meccanica conseguenza dell’innesco accidentale degli avvenimenti.
Nel capitolo conclusivo Max, ancora una volta per caso, rimane bloccato con l’auto in riserva a una pompa di benzina, in quanto sprovvisto di contante e impossibilitato ad acquisirne, visto che l’unico bancomat è fuori uso. Respinto anche nella banca, che, come detto, costituisce lo spazio centrale delle vicende narrate – luogo sconsacrato eppure sacro rispetto al sommo bene terreno che contiene e quindi luogo ideale per un “sacrificio” – egli tornerà alla propria auto, prenderà la pistola e rientrerà nella banca stessa, cominciando a sparare.
Sappiamo che, all’interno dell’edificio, sempre per i capricci del caso, si trovano anche Hans, Inge, Tomek e sua figlia, ma non ci è dato sapere chi di loro rimarrà ucciso (salvo un’inquadratura ravvicinata di un corpo agonizzante, che, dal colore del maglione, sembra essere Hans), visto che l’inquadratura della strage mostra solo Max sparare verso lo schermo. I personaggi sono solo dei bersagli, ma essendo dei fantasmi, dei non-morti, risultano assenti, mancando, appunto, dall’inquadratura. Poi Max ritornerà all’auto, dove si ucciderà. I colpi esplosi nella banca sono 12, ma le vittime risulteranno essere 3. Pallottole in cambio di vite. Anche questa volta, i conti non tornano.
Gian Giacomo Petrone
Sezione di riferimento: Extra
La trilogia glaciale di Michael Haneke: Il settimo continente - Benny's Video
Scheda tecnica
Titolo originale: 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls
Anno: 1994
Durata: 95’
Regia, soggetto e sceneggiatura: Michael Haneke
Fotografia: Christian Berger
Montaggio: Marie Homolkova
Interpreti principali: Gabriel Cosmin Urdes, Lukas Miko, Otto Grünmandl, Anne Bennent, Udo Samel, Branko Samarovski, Claudia Martini, Georg Friedrich
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