Cosa significa raccontare una storia di cui si conosce soltanto l’inizio? Significa forse esaltare la potenza immaginifica della fantasia umana, lasciando campo libero alle infinite possibilità di cui essa è capace? Oppure rappresenta una forma di violenza psicologica, nel momento in cui si interrompe bruscamente quell’emozione e quel brivido che il racconto, qualsiasi racconto, porta con sé? O ancora, più plausibilmente, è uno schiaffo in faccia alle convenzioni, ai pensieri e alle idee di chi vuole che tutto segua un percorso prestabilito, additando violentemente chiunque non si dimostri intenzionato a seguirne le orme?
Kaspar Hauser additato lo è stato davvero, per tutta la sua breve esistenza. Almeno, dal fatidico istante del suo ritrovamento (anzi, della sua apparizione) in poi, perchè in precedenza la sua vita si era svolta unicamente entro le mura di una prigione forzata e immotivata. Kaspar è la follia allo stadio primordiale, la cellula impazzita, la scheggia senza controllo; la cartina tornasole di un mondo dove tutto deve essere etichettato, definito, controllato, e dove – cosa ancora più grande, grave, spaventosa – si deve sempre e necessariamente trovare una giustificazione al diverso. Per rafforzare un credo, per difendere le fondamenta di un’istituzione (qualsiasi essa sia, non importa), per placare gli animi di un focolare domestico.
L’enigma di Kaspar Hauser è il sesto lungometraggio di Werner Herzog, il primo dopo il seminale Aguirre, furore di Dio, che ne segnò indelebilmente lo stile e la poetica: se il capolavoro con Klaus Kinski è la summa filosofica ed espressiva del suo cinema, Kaspar Hauser è di certo il suo titolo più rarefatto, ellittico, essenziale. Il più spietato, almeno in termini di pessimismo nei confronti dell’Uomo e della Storia. Partendo da un fatto realmente accaduto (il vero Kaspar Hauser comparve all’improvviso in una piazza di Norimberga nel 1828, e la sua successiva rieducazione avvenne in maniera piuttosto simile a quella mostrata nel film), Herzog mette in secondo piano il titanismo dell’opera precedente, soffermandosi sul rapporto tra il suo protagonista e il mondo che lo circonda, in maniera splendidamente lucida e tagliente.
Attraverso questa figura misteriosa ma dotata di una genuina spontaneità (appunto perché estranea alla società degli uomini), emerge una visione cristallina del Male all’opera sull’individuo, il quale si riduce a cavia da laboratorio inerme e passiva. Kaspar, che non reagisce alle insidie come gli altri si aspettano che faccia (non ha paura del fuoco, né dell’affondo di una spada), e che rifugge la logica deduttiva in favore di una strettamente pragmatica, basata sui fatti che può vedere e toccare (bellissima, seppur struggente, la sequenza con il maestro di matematica), diventa ovviamente un’attrazione da circo ambulante, nel quale la dignità e il rispetto della persona vengono costantemente calpestati in nome del profitto (deve contribuire al proprio sostentamento) e del cinismo umano. Adottato da un dottore intenzionato ad istruirlo, finirà solamente per essere rinchiuso in una prigione più grande: quella del mondo moderno, con le sue convenzioni e le sue regole da rispettare.
L’enigma a cui fa riferimento il titolo è la sua vita prima del ritrovamento in piazza, ma anche e soprattutto lo specchio posto dinanzi a un universo di uomini e donne, nel quale tutto ciò che non è rappresentabile in maniera compiuta deve assolutamente essere controllato con la forza (non necessariamente fisica, anzi); ciò che vi viene riflesso è la verità della Storia, scritta con il sangue non solamente dei deboli, ma anche dei ribelli e dei sognatori (la dimensione onirica è l’unica nella quale Kaspar sembra riuscire ad esprimersi davvero). Su tutto regna una natura incredula ed estranea, testimone silenziosa degli orrori perpetuati dall’uomo in nome del mantenimento e della conservazione delle proprie certezze; la stessa natura sulla quale Kaspar vorrebbe lasciare il segno del suo passaggio, scrivendo il proprio nome attraverso alcune piante coltivate sul terreno, ma senza che queste riescano a sopravvivere perché verranno calpestate e distrutte.
Non ci deve essere nessun enigma, né ora né mai: non è un caso infatti che, dopo l’autopsia effettuata sul suo cadavere, la malformazione del cervelletto e di alcuni organi interni venga identificata come la causa naturale della sua diversità. L’ordine viene così ricostituito, e tra i vicoli e le case dei cittadini bavaresi tutto può tornare come prima. “Ognun per sé, e Dio per tutti”: hanno vinto loro.
Giacomo Calzoni
Sezione di riferimento: Special Werner Herzog
Scheda tecnica
Titolo originale: Jeder für sich und Gott gegen alle
Anno: 1974
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Fotografia: Jörg Schmidt-Reitwein
Musiche: Popol Vuh
Durata: 106’
Interpreti principali: Bruno S., Walter Ladengast, Willy Semmelrogge, Brigitte Mira
Kaspar Hauser additato lo è stato davvero, per tutta la sua breve esistenza. Almeno, dal fatidico istante del suo ritrovamento (anzi, della sua apparizione) in poi, perchè in precedenza la sua vita si era svolta unicamente entro le mura di una prigione forzata e immotivata. Kaspar è la follia allo stadio primordiale, la cellula impazzita, la scheggia senza controllo; la cartina tornasole di un mondo dove tutto deve essere etichettato, definito, controllato, e dove – cosa ancora più grande, grave, spaventosa – si deve sempre e necessariamente trovare una giustificazione al diverso. Per rafforzare un credo, per difendere le fondamenta di un’istituzione (qualsiasi essa sia, non importa), per placare gli animi di un focolare domestico.
L’enigma di Kaspar Hauser è il sesto lungometraggio di Werner Herzog, il primo dopo il seminale Aguirre, furore di Dio, che ne segnò indelebilmente lo stile e la poetica: se il capolavoro con Klaus Kinski è la summa filosofica ed espressiva del suo cinema, Kaspar Hauser è di certo il suo titolo più rarefatto, ellittico, essenziale. Il più spietato, almeno in termini di pessimismo nei confronti dell’Uomo e della Storia. Partendo da un fatto realmente accaduto (il vero Kaspar Hauser comparve all’improvviso in una piazza di Norimberga nel 1828, e la sua successiva rieducazione avvenne in maniera piuttosto simile a quella mostrata nel film), Herzog mette in secondo piano il titanismo dell’opera precedente, soffermandosi sul rapporto tra il suo protagonista e il mondo che lo circonda, in maniera splendidamente lucida e tagliente.
Attraverso questa figura misteriosa ma dotata di una genuina spontaneità (appunto perché estranea alla società degli uomini), emerge una visione cristallina del Male all’opera sull’individuo, il quale si riduce a cavia da laboratorio inerme e passiva. Kaspar, che non reagisce alle insidie come gli altri si aspettano che faccia (non ha paura del fuoco, né dell’affondo di una spada), e che rifugge la logica deduttiva in favore di una strettamente pragmatica, basata sui fatti che può vedere e toccare (bellissima, seppur struggente, la sequenza con il maestro di matematica), diventa ovviamente un’attrazione da circo ambulante, nel quale la dignità e il rispetto della persona vengono costantemente calpestati in nome del profitto (deve contribuire al proprio sostentamento) e del cinismo umano. Adottato da un dottore intenzionato ad istruirlo, finirà solamente per essere rinchiuso in una prigione più grande: quella del mondo moderno, con le sue convenzioni e le sue regole da rispettare.
L’enigma a cui fa riferimento il titolo è la sua vita prima del ritrovamento in piazza, ma anche e soprattutto lo specchio posto dinanzi a un universo di uomini e donne, nel quale tutto ciò che non è rappresentabile in maniera compiuta deve assolutamente essere controllato con la forza (non necessariamente fisica, anzi); ciò che vi viene riflesso è la verità della Storia, scritta con il sangue non solamente dei deboli, ma anche dei ribelli e dei sognatori (la dimensione onirica è l’unica nella quale Kaspar sembra riuscire ad esprimersi davvero). Su tutto regna una natura incredula ed estranea, testimone silenziosa degli orrori perpetuati dall’uomo in nome del mantenimento e della conservazione delle proprie certezze; la stessa natura sulla quale Kaspar vorrebbe lasciare il segno del suo passaggio, scrivendo il proprio nome attraverso alcune piante coltivate sul terreno, ma senza che queste riescano a sopravvivere perché verranno calpestate e distrutte.
Non ci deve essere nessun enigma, né ora né mai: non è un caso infatti che, dopo l’autopsia effettuata sul suo cadavere, la malformazione del cervelletto e di alcuni organi interni venga identificata come la causa naturale della sua diversità. L’ordine viene così ricostituito, e tra i vicoli e le case dei cittadini bavaresi tutto può tornare come prima. “Ognun per sé, e Dio per tutti”: hanno vinto loro.
Giacomo Calzoni
Sezione di riferimento: Special Werner Herzog
Scheda tecnica
Titolo originale: Jeder für sich und Gott gegen alle
Anno: 1974
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Fotografia: Jörg Schmidt-Reitwein
Musiche: Popol Vuh
Durata: 106’
Interpreti principali: Bruno S., Walter Ladengast, Willy Semmelrogge, Brigitte Mira