Pensare anche solo lontanamente a un rifacimento del classico di Murnau, di per sé, era un’impresa da far tremare i polsi a chiunque; rifarlo per mano di un regista tedesco, poi, era pura e semplice follia. Ma la pazzia è sempre stata cifra stilistica di Werner Herzog, nel senso migliore del termine: un sentimento talmente forte e penetrante in grado di accompagnare la mano/macchina da presa del suo autore nella realizzazione di alcune delle più belle pagine della storia del cinema.
Non è mai bello né giusto parlare in termini così assolutistici, perché il rischio di lasciarsi sopraffare da facili atteggiamenti fanzinari rimane sempre dietro l’angolo, e di queste derive qualunquiste ne è pieno il mondo (soprattutto quello intangibile di internet). Ma qui si parla di un regista e di un uomo che ha sempre visto e vissuto il cinema come sfida nei confronti dell’ignoto, come superamento dei propri limiti fisici e psicologici, ma anche come raggiungimento fatale di una Bellezza ottenuta a carissimo prezzo. Non è mai stato tipo da dirigere film indossando comodamente sciarpa e cappotto, Herzog; piuttosto, si è sempre immerso nel fango e nella melma fino alle ginocchia, impressionando su pellicola quello stesso gigantismo che nella finzione tanto ossessionava i suoi personaggi più celebri.
Tutto questo per sottolineare come, in ultima analisi, non ci sia molta differenza tra ripensare l’opera di Murnau e trasportare a spalla una barca lungo il fianco di una collina, come in Fitzcarraldo: non per un cineasta nato e cresciuto in Germania, almeno. Pensate solamente all’eredità di un Rossellini nei confronti di un regista italiano, e forse ci si potrà davvero rendere conto delle dimensioni morali dell’impresa: per l’esponente di una generazione senza padri, quale si è egli stesso definito, tornare sul cinema espressionista significava costruire un ponte con il passato, venire a patti con la propria Storia e cercare, finalmente, una chiusura del cerchio in grado di placare le turbolenze del presente, quelle stesse sulle quali si poggiava e rifletteva il nuovo cinema tedesco degli anni Settanta.
Sostanzialmente fedele al capostipite del 1922, ma con il vantaggio di non dover più venire a patti con i diritti d’autore verso Dracula di Bram Stoker (al punto che i nomi dei personaggi sono in pratica gli stessi), Nosferatu, il principe della notte è innanzitutto il racconto di un progressivo e inesorabile avvicinamento verso la morte: se a Murnau premeva sottolineare l’impatto rivoluzionario di un elemento soprannaturale – il mostro, il vampiro – all’interno di una società borghese ormai prossima al collasso (metafora cristallina della Repubblica di Weimar), Herzog qui sembra meno interessato a collocare il suo racconto all’interno di un contesto ben riconoscibile. Al contrario, enfatizza la componente puramente onirica della pellicola: dall’incubo iniziale di Lucy/Isabelle Adjani fino al castello del Conte (visibile “solamente in sogno”, secondo le credenze gitane), tutto il film è sospeso in un’atmosfera totalmente magica e irreale, frutto dell’inarrivabile talento visivo del suo autore, che sostituisce l’espressionismo di Murnau con uno stile pittorico fortemente debitore nei confronti della pittura fiamminga.
Non è (più) importante celare uno sguardo, un’idea o un ritratto della contemporaneità attraverso lo spioncino sporco del fantastico: Herzog ha la possibilità di rendere universale la decadenza, e lo fa fino in fondo. Il suo film è una rappresentazione della fine del mondo come mai si è vista in siffatta maniera: il dilagare della peste attraverso le strade di Wismar, preceduta da una nave vuota e silenziosa attraverso le acque del canale, è una delle immagini più potenti mai raggiunte dal grande regista tedesco, il quale sembra poco interessato alla specificità storica o geografica della classe borghese che manda a morire. Piuttosto, fa della figura del vampiro il perno intorno al quale ruota tutta la sua visione di romanticismo; ed è un romanticismo freddo e cimiteriale, pallido come le gote di Isabelle Adjani e lo sguardo di Klaus Kinski, quest’ultimo semplicemente perfetto nei panni di una creatura che si porta addosso il peso di un’eternità senza amore. Il suo dolore, la sua consapevolezza è l’unico agente possibile in grado di porre fine a un mondo dove la morte fisica è solamente il capitolo conclusivo di una dipartita cominciata già molto tempo prima, senza che nessuno se ne sia reso conto in tempo: come nella stupenda sequenza del banchetto in piazza, in cui i convitati continuano a mangiare aspettando l’arrivo della fine.
Se mai c’e stata una rappresentazione filmica dell’Apocalisse, generata da un Male oscuro e impenetrabile la cui fascinazione diventa immaginificamente Cinema, Nosferatu, il principe della notte ne è l’essenza imprescindibile e necessaria.
Giacomo Calzoni
Sezione di riferimento: Special Werner Herzog
Scheda tecnica
Titolo originale: Nosferatu: Phantom der Nacht
Anno: 1979
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner herzog
Fotografia: Jörg Schmidt-Reitwein
Musiche: Charles Gounod, Popol Vuh
Durata: 107’
Interpreti principali: Klaus Kinski, Isabelle Adjani, Bruno Ganz, Roland Topor, Walter Ladengast
Non è mai bello né giusto parlare in termini così assolutistici, perché il rischio di lasciarsi sopraffare da facili atteggiamenti fanzinari rimane sempre dietro l’angolo, e di queste derive qualunquiste ne è pieno il mondo (soprattutto quello intangibile di internet). Ma qui si parla di un regista e di un uomo che ha sempre visto e vissuto il cinema come sfida nei confronti dell’ignoto, come superamento dei propri limiti fisici e psicologici, ma anche come raggiungimento fatale di una Bellezza ottenuta a carissimo prezzo. Non è mai stato tipo da dirigere film indossando comodamente sciarpa e cappotto, Herzog; piuttosto, si è sempre immerso nel fango e nella melma fino alle ginocchia, impressionando su pellicola quello stesso gigantismo che nella finzione tanto ossessionava i suoi personaggi più celebri.
Tutto questo per sottolineare come, in ultima analisi, non ci sia molta differenza tra ripensare l’opera di Murnau e trasportare a spalla una barca lungo il fianco di una collina, come in Fitzcarraldo: non per un cineasta nato e cresciuto in Germania, almeno. Pensate solamente all’eredità di un Rossellini nei confronti di un regista italiano, e forse ci si potrà davvero rendere conto delle dimensioni morali dell’impresa: per l’esponente di una generazione senza padri, quale si è egli stesso definito, tornare sul cinema espressionista significava costruire un ponte con il passato, venire a patti con la propria Storia e cercare, finalmente, una chiusura del cerchio in grado di placare le turbolenze del presente, quelle stesse sulle quali si poggiava e rifletteva il nuovo cinema tedesco degli anni Settanta.
Sostanzialmente fedele al capostipite del 1922, ma con il vantaggio di non dover più venire a patti con i diritti d’autore verso Dracula di Bram Stoker (al punto che i nomi dei personaggi sono in pratica gli stessi), Nosferatu, il principe della notte è innanzitutto il racconto di un progressivo e inesorabile avvicinamento verso la morte: se a Murnau premeva sottolineare l’impatto rivoluzionario di un elemento soprannaturale – il mostro, il vampiro – all’interno di una società borghese ormai prossima al collasso (metafora cristallina della Repubblica di Weimar), Herzog qui sembra meno interessato a collocare il suo racconto all’interno di un contesto ben riconoscibile. Al contrario, enfatizza la componente puramente onirica della pellicola: dall’incubo iniziale di Lucy/Isabelle Adjani fino al castello del Conte (visibile “solamente in sogno”, secondo le credenze gitane), tutto il film è sospeso in un’atmosfera totalmente magica e irreale, frutto dell’inarrivabile talento visivo del suo autore, che sostituisce l’espressionismo di Murnau con uno stile pittorico fortemente debitore nei confronti della pittura fiamminga.
Non è (più) importante celare uno sguardo, un’idea o un ritratto della contemporaneità attraverso lo spioncino sporco del fantastico: Herzog ha la possibilità di rendere universale la decadenza, e lo fa fino in fondo. Il suo film è una rappresentazione della fine del mondo come mai si è vista in siffatta maniera: il dilagare della peste attraverso le strade di Wismar, preceduta da una nave vuota e silenziosa attraverso le acque del canale, è una delle immagini più potenti mai raggiunte dal grande regista tedesco, il quale sembra poco interessato alla specificità storica o geografica della classe borghese che manda a morire. Piuttosto, fa della figura del vampiro il perno intorno al quale ruota tutta la sua visione di romanticismo; ed è un romanticismo freddo e cimiteriale, pallido come le gote di Isabelle Adjani e lo sguardo di Klaus Kinski, quest’ultimo semplicemente perfetto nei panni di una creatura che si porta addosso il peso di un’eternità senza amore. Il suo dolore, la sua consapevolezza è l’unico agente possibile in grado di porre fine a un mondo dove la morte fisica è solamente il capitolo conclusivo di una dipartita cominciata già molto tempo prima, senza che nessuno se ne sia reso conto in tempo: come nella stupenda sequenza del banchetto in piazza, in cui i convitati continuano a mangiare aspettando l’arrivo della fine.
Se mai c’e stata una rappresentazione filmica dell’Apocalisse, generata da un Male oscuro e impenetrabile la cui fascinazione diventa immaginificamente Cinema, Nosferatu, il principe della notte ne è l’essenza imprescindibile e necessaria.
Giacomo Calzoni
Sezione di riferimento: Special Werner Herzog
Scheda tecnica
Titolo originale: Nosferatu: Phantom der Nacht
Anno: 1979
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner herzog
Fotografia: Jörg Schmidt-Reitwein
Musiche: Charles Gounod, Popol Vuh
Durata: 107’
Interpreti principali: Klaus Kinski, Isabelle Adjani, Bruno Ganz, Roland Topor, Walter Ladengast