Là, nel deserto australiano, esiste un posto dove gli aborigeni pregano, all'interno di un supermercato, davanti a vernici e detersivi, perché una volta in quel punto sorgeva un albero sacro. In quella terra lontana dagli occhi del mondo i nativi rischiano la morte per difendere la loro terra, restando ancorati ai principi universali che ne governano le azioni e i pensieri.
Eppure la civiltà occidentale avanza, inesorabile, con le sue ferraglie, l'arroganza, il potere infido di una presunta supremazia conquistata con la forza: bisogna spianare, setacciare, abbattere, dominare, poiché sotto, nel buio, potrebbero esserci ricchezze golose e imperdibili. Le giornate talvolta trascorrono lente, ferme, immobili: il geologo responsabile dei lavori può occupare il tempo soltanto ascoltando alla radio le registrazioni di telecronache di partite di calcio, o visionando cassette porno con cui immaginare donne molto, troppo distanti. Ma non c'è pace in quella Terra: gli aborigeni ne esigono la proprietà, e sono disposti a tutto per mantenere inalterato l'habitat in cui sognano le formiche verdi; svegliarle significherebbe, secondo il loro Credo, distruggere l'intera umanità.
Werner Herzog dentro e oltre i confini, ancora una volta, con un'opera indispensabile nell'eccezionale quadro stilistico e ideologico della sua filmografia; un lavoro che rifugge qualsiasi oratoria a tesi, dedicandosi invece a sottolineare sfumature, contrasti, contraddizioni tatuate sulla pelle dei bianchi e anche degli aborigeni. Da una parte l'uomo evoluto, o presunto tale, con i suoi abiti eleganti, gli avvocati, la burocrazia, i ristoranti di lusso e gli ascensori che peraltro si bloccano in continuazione, con vivo imbarazzo dei magnati dell'industria mineraria; dall'altro gli aborigeni, totemici simboli delle tradizioni remote disintegrate dalla modernità, immobili come statue davanti alle gru, cantori della Fede ed eterni guardiani del segreto che si nasconde nelle viscere feconde della Natura, eppure non insensibili alle lusinghe della tecnologia (gli orologi, gli aerei).
Nessuno è privo di colpa, nell'opera herzoghiana, nessuno è intoccabile: resta però impresso a fuoco il senso atavico del rispetto, dell'essenza di realtà che andrebbero lasciate così come sono, cullate nella loro eternità. Ma l'esigenza dell'uomo è arare le distanze, cercare la vita annullando la vita stessa, urlare il proprio diritto allo sfruttamento e alla smitizzazione. Lì, nel deserto australiano, la Leggenda delle formiche verdi ha forse esaurito il proprio tempo, ed è destinata a estinguersi, come l'ultimo sopravvissuto di una tribù del quale più nessuno comprende e può tradurre la lingua.
A un certo punto, verso la fine, c'è una scena che può riassumere l'intero film, nonché porsi come atto simbolico di una larga parte della poetica del maestro che tanto amiamo: durante il processo che coinvolge la compagnia e gli aborigeni, questi ultimi chiedono il permesso di mostrare al giudice un oggetto sacro, il più importante della loro religione, rimasto sottoterra per oltre 200 anni. Tuttavia pretendono che l'aula per qualche minuto si svuoti, affinché il potere universale dell'icona non sia inquinato e disperso da troppi occhi. Il giudice acconsente, quasi tutti escono. Gli aborigeni portano l'oggetto, avvolto da un panno. Lo scoprono. L'inquadratura invece di studiarne i dettagli si sofferma sui volti stanchi, segnati dalla battaglia ma ancora fieri e lucidi, poi stacca alla sequenza successiva. È come se avessimo abbandonato l'aula anche noi. Non vediamo l'oggetto. Non ce lo possiamo permettere. Non ne abbiamo il diritto, così come nessuno avrebbe il diritto di stuprare e ammazzare le radici dell'umanità.
Il cinema di Herzog, a metà anni Ottanta, dopo aver disegnato la morte nel concepimento dell'Arte stessa in pellicole memorabili come Aguirre e Fitzcarraldo, si prepara alla svolta documentaristica con la quale, attraverso lavori come L'ignoto spazio profondo e Grizzly Man, le barriere del mostrabile saranno una volta per sempre divelte e vaporizzate. Dove sognano le formiche verdi naviga tra le rapide di un cinema in divenire, affianca fiction e realtà cullandole entrambe con parsimonia, e ci dice, con fare perentorio e straordinario, che esistono luoghi in cui la magia del creato ancora tenta di sopravvivere, fino allo stremo, cantando un requiem intriso di coraggio e malinconia.
Alessio Gradogna
Sezione di riferimento: Special Werner Herzog
Scheda tecnica
Titolo originale: Wo die grünen Ameisen träumen
Anno: 1984
Durata: 100'
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Bob Ellis, Werner Herzog
Fotografia: Jörg Schmidt-Reitwein
Montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus
Attori: Bruce Spence, Wandjuk Marika, Roy Marika, Ray Barrett
Eppure la civiltà occidentale avanza, inesorabile, con le sue ferraglie, l'arroganza, il potere infido di una presunta supremazia conquistata con la forza: bisogna spianare, setacciare, abbattere, dominare, poiché sotto, nel buio, potrebbero esserci ricchezze golose e imperdibili. Le giornate talvolta trascorrono lente, ferme, immobili: il geologo responsabile dei lavori può occupare il tempo soltanto ascoltando alla radio le registrazioni di telecronache di partite di calcio, o visionando cassette porno con cui immaginare donne molto, troppo distanti. Ma non c'è pace in quella Terra: gli aborigeni ne esigono la proprietà, e sono disposti a tutto per mantenere inalterato l'habitat in cui sognano le formiche verdi; svegliarle significherebbe, secondo il loro Credo, distruggere l'intera umanità.
Werner Herzog dentro e oltre i confini, ancora una volta, con un'opera indispensabile nell'eccezionale quadro stilistico e ideologico della sua filmografia; un lavoro che rifugge qualsiasi oratoria a tesi, dedicandosi invece a sottolineare sfumature, contrasti, contraddizioni tatuate sulla pelle dei bianchi e anche degli aborigeni. Da una parte l'uomo evoluto, o presunto tale, con i suoi abiti eleganti, gli avvocati, la burocrazia, i ristoranti di lusso e gli ascensori che peraltro si bloccano in continuazione, con vivo imbarazzo dei magnati dell'industria mineraria; dall'altro gli aborigeni, totemici simboli delle tradizioni remote disintegrate dalla modernità, immobili come statue davanti alle gru, cantori della Fede ed eterni guardiani del segreto che si nasconde nelle viscere feconde della Natura, eppure non insensibili alle lusinghe della tecnologia (gli orologi, gli aerei).
Nessuno è privo di colpa, nell'opera herzoghiana, nessuno è intoccabile: resta però impresso a fuoco il senso atavico del rispetto, dell'essenza di realtà che andrebbero lasciate così come sono, cullate nella loro eternità. Ma l'esigenza dell'uomo è arare le distanze, cercare la vita annullando la vita stessa, urlare il proprio diritto allo sfruttamento e alla smitizzazione. Lì, nel deserto australiano, la Leggenda delle formiche verdi ha forse esaurito il proprio tempo, ed è destinata a estinguersi, come l'ultimo sopravvissuto di una tribù del quale più nessuno comprende e può tradurre la lingua.
A un certo punto, verso la fine, c'è una scena che può riassumere l'intero film, nonché porsi come atto simbolico di una larga parte della poetica del maestro che tanto amiamo: durante il processo che coinvolge la compagnia e gli aborigeni, questi ultimi chiedono il permesso di mostrare al giudice un oggetto sacro, il più importante della loro religione, rimasto sottoterra per oltre 200 anni. Tuttavia pretendono che l'aula per qualche minuto si svuoti, affinché il potere universale dell'icona non sia inquinato e disperso da troppi occhi. Il giudice acconsente, quasi tutti escono. Gli aborigeni portano l'oggetto, avvolto da un panno. Lo scoprono. L'inquadratura invece di studiarne i dettagli si sofferma sui volti stanchi, segnati dalla battaglia ma ancora fieri e lucidi, poi stacca alla sequenza successiva. È come se avessimo abbandonato l'aula anche noi. Non vediamo l'oggetto. Non ce lo possiamo permettere. Non ne abbiamo il diritto, così come nessuno avrebbe il diritto di stuprare e ammazzare le radici dell'umanità.
Il cinema di Herzog, a metà anni Ottanta, dopo aver disegnato la morte nel concepimento dell'Arte stessa in pellicole memorabili come Aguirre e Fitzcarraldo, si prepara alla svolta documentaristica con la quale, attraverso lavori come L'ignoto spazio profondo e Grizzly Man, le barriere del mostrabile saranno una volta per sempre divelte e vaporizzate. Dove sognano le formiche verdi naviga tra le rapide di un cinema in divenire, affianca fiction e realtà cullandole entrambe con parsimonia, e ci dice, con fare perentorio e straordinario, che esistono luoghi in cui la magia del creato ancora tenta di sopravvivere, fino allo stremo, cantando un requiem intriso di coraggio e malinconia.
Alessio Gradogna
Sezione di riferimento: Special Werner Herzog
Scheda tecnica
Titolo originale: Wo die grünen Ameisen träumen
Anno: 1984
Durata: 100'
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Bob Ellis, Werner Herzog
Fotografia: Jörg Schmidt-Reitwein
Montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus
Attori: Bruce Spence, Wandjuk Marika, Roy Marika, Ray Barrett