La cultura tedesca è probabilmente quella che più di ogni altra ha saputo cogliere il nocciolo duro, l’essenza stessa del pensiero greco presocratico, vale a dire del sostrato conoscitivo e concettuale che costituisce il fondamento dell’Occidente. Hölderlin, Nietzsche, Heidegger sono alcune fra le figure più rilevanti ad avere evidenziato la decisiva importanza del pensiero cosmologico greco – sia come produzione poetica che filosofica – nella formazione linguistica, speculativa, politica ed etica dei popoli della compagine occidentale.
Anche nel cinema, non a caso, emerge con assoluta decisione il nome di un tedesco, Werner Herzog, come ultimo ed estremo nume tutelare di quella che fu la matrice originaria del nostro mondo. In tutti i suoi lavori documentari e in alcuni dei suoi più memorabili film narrativi – perlomeno quelli che, come Aguirre, Fitzcarraldo, Cobra Verde, Nosferatu (e in parte anche, sia pure con esiti alterni, Grido di pietra, Invincibile, Il cattivo tenente, Queen of the Desert), mettono in scena l’ambizione smisurata di un singolo – emerge inequivocabilmente il continuo riferimento ai valori, alla complessità e ai dilemmi della grecità antica.
Apolide per natura, più che per semplice vocazione, ricercatore instancabile dei confini estremi e inaccessibili della verità e dell’essere, Herzog sembra riecheggiare nella sua figura, al pari dei suoi personaggi visionari, emarginati e maledetti, il primo coro dell’Antigone di Sofocle, allorché viene descritta l’essenza dell’umano:
Di molte specie è l’inquietante, nulla tuttavia di più inquietante dell’uomo s’aderge. / Questi balza sul flutto schiumante / pel vento del sud invernale /e incrocia sulle creste / delle onde furiosamente spalancantisi. / Anche la più sublime divinità, la terra, / l’indistruttibile infaticabile, egli l’estenua […]. / Anche nel risuonar della parola / e nel tutto comprendere leggero come il vento / si ritrova, ed altresì nell’animo di dominar città. / E anche come sfuggire, ha pensato, l’esposizione ai dardi / dell’intemperie e degli spiacevoli geli. / Dappertutto aggirandosi, tutto esperendo per via, senza scampo, inesperto / perviene al nulla. / Dall’incombere, solo, della morte / con nessuna fuga può giammai difendersi, / pur se ad un male tenace gli sia riuscito abilmente di sfuggire. / Ottimamente esperto, il saper-fare / possedendo al di là della speranza, / cade talvolta in condizione vile / del tutto, altra ad eccelsa riesce. / Tra lo statuto fisso della terra / e il diritto giurato degli dei prosegue la sua via. / Dall’alto il luogo dominando, dal luogo escluso, / tale egli è, a cui sempre essente è il non-essente, / per amore del rischio. / Non divenga egli intimo del mio focolare, / né delle sue illusioni il mio sapere partecipe sia […]. (1)
Come sostiene Martin Heidegger riguardo ai versi riportati “L’uomo è, in una parola, tò deinótaton: ciò che vi è di più inquietante. Un modo siffatto di parlare dell’uomo lo coglie nei suoi estremi limiti e nelle scoscese profondità del suo essere. Questo aspetto scosceso ed estremo non è mai visibile agli occhi di chi si appaga della semplice descrizione e della mera constatazione dei fatti […].” (2)
1) Il testo dell’Antigone qui riportato fa riferimento alla traduzione/interpretazione che ne dà Martin Heidegger in Introduzione alla metafisica, tr. it., Mursia, Milano 1968, ed. economica Mursia, 1990, pp. 154-156.
2) M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 157.
Dal coro dell’Antigone non emerge però soltanto la dimensione primordiale dell’uomo, colta nel suo costitutivo antagonismo rispetto alla natura, la phýsis greca – un antagonismo che non implica una negazione della natura stessa, bensì la massima adesione alle sue intrinseche dinamiche conflittuali, a quell’orizzonte di cui la nascita e la morte sono gli estremi confini che si co-appartengono, all’assolutezza e profondità problematica dei suoi oscuri meccanismi vitali, allo squilibrio della dismisura, alla lotta perenne per la sopravvivenza in condizioni estreme – ma anche la possibilità che l’uomo stesso, all’opposto, abbracci la condizione addomesticata e pacifica della civiltà e della Legge, a partire dalla quale colui che ne rifiuti gli assunti e le responsabilità verrà respinto: “Non divenga egli intimo del mio focolare.”
Il focolare, la pólis, il vivere sociale e collettivo, l’equilibrio garantito dalla norma e dal divieto conducono l’umanità all’aggregazione regolata e coatta, priva di pericoli, ma sovente anche vuota di senso: il familiare in quanto differente per natura rispetto all’inquietante. Colui che respingerà la Legge, che non riconoscerà il diritto positivo del consorzio civile perderà il privilegio della cittadinanza, verrà bandito dalla comunità – rifiuto non di rado reciproco – e tornerà a errare nel mondo, privo di rifugio e conforto, come alle origini, ma animato dal bisogno primigenio di confrontarsi daccapo, perennemente, con la ricerca incessante della verità, che trova la propria ragion d’essere non tanto nell’irraggiungibile obiettivo, bensì nella propria attitudine etica, che nasce proprio dalla consapevolezza dell’inanità dello sforzo e della sua immensa bellezza fine a se stessa. Una verità che, partendo dal vocabolo greco che la designa, à-létheia (non-nascondimento, s-velamento), allontana la cristallinità della certezza piena, la luminosità dell’evidenza al di là di ogni possibile dubbio ed evoca, invece, la tensione problematica dell’essere delle cose e la sua complessità permeata dello scambio fra visibile e invisibile, della co-appartenenza reciproca di luce e zone d’ombra.
Gli smisurati e folli personaggi di Herzog, così come il regista stesso in prima persona, non hanno mai smesso questa ricerca, non sono mai venuti meno alla loro missione di “conquistatori dell’inutile”, di ricercatori di una verità “estatica” – come la definisce Herzog stesso – capace di trascendere i meri confini del fatto, del dato oggettivo, per raggiungere il sublime e terribile prodigio della rivelazione dell’essere. Per ciò stesso è inscritta nel loro destino la sconfitta, che, solo in quanto tale, riesce a far risplendere questi eroi indomabili quali tragici e sublimi titani perduti, gloriosi esseri senza pace né catarsi, sacrificati all’altare del loro terribile e personalissimo dáimon.
Anche nel cinema, non a caso, emerge con assoluta decisione il nome di un tedesco, Werner Herzog, come ultimo ed estremo nume tutelare di quella che fu la matrice originaria del nostro mondo. In tutti i suoi lavori documentari e in alcuni dei suoi più memorabili film narrativi – perlomeno quelli che, come Aguirre, Fitzcarraldo, Cobra Verde, Nosferatu (e in parte anche, sia pure con esiti alterni, Grido di pietra, Invincibile, Il cattivo tenente, Queen of the Desert), mettono in scena l’ambizione smisurata di un singolo – emerge inequivocabilmente il continuo riferimento ai valori, alla complessità e ai dilemmi della grecità antica.
Apolide per natura, più che per semplice vocazione, ricercatore instancabile dei confini estremi e inaccessibili della verità e dell’essere, Herzog sembra riecheggiare nella sua figura, al pari dei suoi personaggi visionari, emarginati e maledetti, il primo coro dell’Antigone di Sofocle, allorché viene descritta l’essenza dell’umano:
Di molte specie è l’inquietante, nulla tuttavia di più inquietante dell’uomo s’aderge. / Questi balza sul flutto schiumante / pel vento del sud invernale /e incrocia sulle creste / delle onde furiosamente spalancantisi. / Anche la più sublime divinità, la terra, / l’indistruttibile infaticabile, egli l’estenua […]. / Anche nel risuonar della parola / e nel tutto comprendere leggero come il vento / si ritrova, ed altresì nell’animo di dominar città. / E anche come sfuggire, ha pensato, l’esposizione ai dardi / dell’intemperie e degli spiacevoli geli. / Dappertutto aggirandosi, tutto esperendo per via, senza scampo, inesperto / perviene al nulla. / Dall’incombere, solo, della morte / con nessuna fuga può giammai difendersi, / pur se ad un male tenace gli sia riuscito abilmente di sfuggire. / Ottimamente esperto, il saper-fare / possedendo al di là della speranza, / cade talvolta in condizione vile / del tutto, altra ad eccelsa riesce. / Tra lo statuto fisso della terra / e il diritto giurato degli dei prosegue la sua via. / Dall’alto il luogo dominando, dal luogo escluso, / tale egli è, a cui sempre essente è il non-essente, / per amore del rischio. / Non divenga egli intimo del mio focolare, / né delle sue illusioni il mio sapere partecipe sia […]. (1)
Come sostiene Martin Heidegger riguardo ai versi riportati “L’uomo è, in una parola, tò deinótaton: ciò che vi è di più inquietante. Un modo siffatto di parlare dell’uomo lo coglie nei suoi estremi limiti e nelle scoscese profondità del suo essere. Questo aspetto scosceso ed estremo non è mai visibile agli occhi di chi si appaga della semplice descrizione e della mera constatazione dei fatti […].” (2)
1) Il testo dell’Antigone qui riportato fa riferimento alla traduzione/interpretazione che ne dà Martin Heidegger in Introduzione alla metafisica, tr. it., Mursia, Milano 1968, ed. economica Mursia, 1990, pp. 154-156.
2) M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 157.
Dal coro dell’Antigone non emerge però soltanto la dimensione primordiale dell’uomo, colta nel suo costitutivo antagonismo rispetto alla natura, la phýsis greca – un antagonismo che non implica una negazione della natura stessa, bensì la massima adesione alle sue intrinseche dinamiche conflittuali, a quell’orizzonte di cui la nascita e la morte sono gli estremi confini che si co-appartengono, all’assolutezza e profondità problematica dei suoi oscuri meccanismi vitali, allo squilibrio della dismisura, alla lotta perenne per la sopravvivenza in condizioni estreme – ma anche la possibilità che l’uomo stesso, all’opposto, abbracci la condizione addomesticata e pacifica della civiltà e della Legge, a partire dalla quale colui che ne rifiuti gli assunti e le responsabilità verrà respinto: “Non divenga egli intimo del mio focolare.”
Il focolare, la pólis, il vivere sociale e collettivo, l’equilibrio garantito dalla norma e dal divieto conducono l’umanità all’aggregazione regolata e coatta, priva di pericoli, ma sovente anche vuota di senso: il familiare in quanto differente per natura rispetto all’inquietante. Colui che respingerà la Legge, che non riconoscerà il diritto positivo del consorzio civile perderà il privilegio della cittadinanza, verrà bandito dalla comunità – rifiuto non di rado reciproco – e tornerà a errare nel mondo, privo di rifugio e conforto, come alle origini, ma animato dal bisogno primigenio di confrontarsi daccapo, perennemente, con la ricerca incessante della verità, che trova la propria ragion d’essere non tanto nell’irraggiungibile obiettivo, bensì nella propria attitudine etica, che nasce proprio dalla consapevolezza dell’inanità dello sforzo e della sua immensa bellezza fine a se stessa. Una verità che, partendo dal vocabolo greco che la designa, à-létheia (non-nascondimento, s-velamento), allontana la cristallinità della certezza piena, la luminosità dell’evidenza al di là di ogni possibile dubbio ed evoca, invece, la tensione problematica dell’essere delle cose e la sua complessità permeata dello scambio fra visibile e invisibile, della co-appartenenza reciproca di luce e zone d’ombra.
Gli smisurati e folli personaggi di Herzog, così come il regista stesso in prima persona, non hanno mai smesso questa ricerca, non sono mai venuti meno alla loro missione di “conquistatori dell’inutile”, di ricercatori di una verità “estatica” – come la definisce Herzog stesso – capace di trascendere i meri confini del fatto, del dato oggettivo, per raggiungere il sublime e terribile prodigio della rivelazione dell’essere. Per ciò stesso è inscritta nel loro destino la sconfitta, che, solo in quanto tale, riesce a far risplendere questi eroi indomabili quali tragici e sublimi titani perduti, gloriosi esseri senza pace né catarsi, sacrificati all’altare del loro terribile e personalissimo dáimon.
La Soufrière, documentario girato nel 1976, nell’imminenza di quella che avrebbe potuto essere una catastrofe naturale di proporzioni immani – il vulcano La Grande Soufrière, nell’isola di Guadalupa (Antille francesi), nella primavera di quello stesso anno, aveva dato allarmanti cenni di risveglio fino a portare, nei mesi successivi, le autorità a decidere di evacuare la parte meridionale dell’isola e in particolare il centro più importante, Basse Terre, nell’attesa di un’esplosione che avrebbe potuto corrispondere, secondo le stime degli scienziati, a un’intensità pari a quella di 5/6 bombe atomiche – costituisce, a un tempo, il film più estremo girato da Herzog, un lavoro che contiene in sé molti dei temi cari al regista bavarese, nonché una delle sue più notevoli riflessioni (successiva al momento della realizzazione del film e, forse, proprio per questo, ancora più riuscita, in quanto non programmatica, anche se assai di rado schematismo e rigidezza accompagnano l’idea che Herzog ha del cinema) sulle possibilità e i limiti dell’atto del riprendere la realtà nel suo farsi.
Fin dalle prime immagini, lo sguardo della mdp è dentro le cose, sull’isola, nella cittadina di Basse Terre: Herzog è attratto dall’abisso e non esita a scrutarlo. Quando l’attività del vulcano diviene intensa e l’apocalisse pare imminente, Herzog e i suoi due operatori, Lachman e Schmidt-Reitwein, perlustrano l’isola dall’alto in elicottero, ma presto vi fanno ritorno. Il cinema, per Herzog, non è mai finzione o approssimazione, ma sempre e solo impresa, titanica avventura, rischio non calcolato, sfida all’impossibile.
Mentre l’esplosione annientatrice sembra approssimarsi, la mdp rivela come una città fantasma quello che fino a poco prima era un luogo vivo, dal quale gli abitanti sembrano essere stati rapiti da una forza misteriosa e aliena: semafori ancora funzionanti, insegne e segnali stradali perfettamente posizionati, negozi svuotati ma con i cartellini dei prezzi in bella mostra, abitazioni con televisori e frigoriferi accesi; manca solo l’uomo. Le vestigia di una civiltà moderna e improvvisamente scomparsa si mostrano in un silenzio innaturale, rotto, di quando in quando, dalla voce over di Herzog che fa da guida allo spettatore, talora descrivendo ciò che si mostra alla mdp, talora pennellando le suggestioni e le impressioni intime di un uomo che ha vissuto da protagonista l’esperienza, ma che ne parla, inevitabilmente, come di qualcosa di già compiuto, di irreversibilmente concluso.
Le strade sono percorse da animali abbandonati – una scrofa coi suoi piccoli, un’asina col suo cucciolo, cani – finalmente liberi dal giogo dell’uomo, ma rimasti senza difesa rispetto all’incombere della natura: la mdp inquadra infatti anche la carcassa di un grosso cane ricoperto di mosche. La voce di Herzog informa inoltre lo spettatore che migliaia di serpenti, che vivevano nel folto della macchia sulle pendici del vulcano, spaventati dalle potenti scosse sono scesi fino al mare dove sono tutti annegati. Sull’isola non vi è più traccia di cibo né di possibilità di salvezza, eppure la vita continua, anche se circondata dalla morte e dall’abbandono, mentre la sommità del monte, coperta di spessi strati di vapore solforoso, continua imperterrita a incombere come un demone di epoche remote.
Gli animali non sono però gli unici esseri viventi rimasti sull’isola: tre uomini hanno deciso di non fuggire, per rimanere ad aspettare la fine, ed Herzog decide di incontrarli. I tre rappresentano l’altra faccia della medaglia della poetica herzoghiana, oscillante fra i poli opposti, ma complementari, di un rapporto con l’assoluto e con la totalità scandito dal superamento iperbolico del limite, dalla sfida folle e visionaria all’estremo oppure, al contrario, caratterizzato dalla quieta pacatezza e rassegnazione di chi già conosce o intuisce la propria disfatta di fronte al mistero del mondo. Si tratta delle due grandi tipologie archetipiche della poetica di Herzog: da un lato i personaggi superomistici che si confrontano con la propria sconfinata brama di potere, conquista e conoscenza di fronte all’altrettanto sconfinato enigma dell’assoluto (come Aguirre o Fitzcarraldo), dall’altro i personaggi che già hanno perso tutto, che, letteralmente, non appartengono più all’ambito dell’avere, ma a quello dell’essere, in quanto ciò che è rimasto loro non è altro che la nuda esistenza (come Kaspar Hauser, Stroszek o Woyzeck).
Fin dalle prime immagini, lo sguardo della mdp è dentro le cose, sull’isola, nella cittadina di Basse Terre: Herzog è attratto dall’abisso e non esita a scrutarlo. Quando l’attività del vulcano diviene intensa e l’apocalisse pare imminente, Herzog e i suoi due operatori, Lachman e Schmidt-Reitwein, perlustrano l’isola dall’alto in elicottero, ma presto vi fanno ritorno. Il cinema, per Herzog, non è mai finzione o approssimazione, ma sempre e solo impresa, titanica avventura, rischio non calcolato, sfida all’impossibile.
Mentre l’esplosione annientatrice sembra approssimarsi, la mdp rivela come una città fantasma quello che fino a poco prima era un luogo vivo, dal quale gli abitanti sembrano essere stati rapiti da una forza misteriosa e aliena: semafori ancora funzionanti, insegne e segnali stradali perfettamente posizionati, negozi svuotati ma con i cartellini dei prezzi in bella mostra, abitazioni con televisori e frigoriferi accesi; manca solo l’uomo. Le vestigia di una civiltà moderna e improvvisamente scomparsa si mostrano in un silenzio innaturale, rotto, di quando in quando, dalla voce over di Herzog che fa da guida allo spettatore, talora descrivendo ciò che si mostra alla mdp, talora pennellando le suggestioni e le impressioni intime di un uomo che ha vissuto da protagonista l’esperienza, ma che ne parla, inevitabilmente, come di qualcosa di già compiuto, di irreversibilmente concluso.
Le strade sono percorse da animali abbandonati – una scrofa coi suoi piccoli, un’asina col suo cucciolo, cani – finalmente liberi dal giogo dell’uomo, ma rimasti senza difesa rispetto all’incombere della natura: la mdp inquadra infatti anche la carcassa di un grosso cane ricoperto di mosche. La voce di Herzog informa inoltre lo spettatore che migliaia di serpenti, che vivevano nel folto della macchia sulle pendici del vulcano, spaventati dalle potenti scosse sono scesi fino al mare dove sono tutti annegati. Sull’isola non vi è più traccia di cibo né di possibilità di salvezza, eppure la vita continua, anche se circondata dalla morte e dall’abbandono, mentre la sommità del monte, coperta di spessi strati di vapore solforoso, continua imperterrita a incombere come un demone di epoche remote.
Gli animali non sono però gli unici esseri viventi rimasti sull’isola: tre uomini hanno deciso di non fuggire, per rimanere ad aspettare la fine, ed Herzog decide di incontrarli. I tre rappresentano l’altra faccia della medaglia della poetica herzoghiana, oscillante fra i poli opposti, ma complementari, di un rapporto con l’assoluto e con la totalità scandito dal superamento iperbolico del limite, dalla sfida folle e visionaria all’estremo oppure, al contrario, caratterizzato dalla quieta pacatezza e rassegnazione di chi già conosce o intuisce la propria disfatta di fronte al mistero del mondo. Si tratta delle due grandi tipologie archetipiche della poetica di Herzog: da un lato i personaggi superomistici che si confrontano con la propria sconfinata brama di potere, conquista e conoscenza di fronte all’altrettanto sconfinato enigma dell’assoluto (come Aguirre o Fitzcarraldo), dall’altro i personaggi che già hanno perso tutto, che, letteralmente, non appartengono più all’ambito dell’avere, ma a quello dell’essere, in quanto ciò che è rimasto loro non è altro che la nuda esistenza (come Kaspar Hauser, Stroszek o Woyzeck).
Se il regista, con la sua presenza dietro e davanti alla mdp, ricopre il ruolo eroico di colui che, assieme ai suoi compagni, sfida la natura e le sue leggi rischiando la vita, i tre autoctoni propongono una sfida differente alla medesima natura e alle medesime leggi, con un atteggiamento diverso, quello di una saggezza ancestrale marcata dal pre-possesso intuitivo dello scacco dell’uomo di fronte all’arcana potenza del cosmo: tenui e rassegnati perché lungimiranti, inattuali, emarginati e dimenticati, antieroici ma colmi della dignità degli uomini liberi, pregni di saggezza e di vita anche se prossimi alla fine, giacché sanno che l’uomo “Dall’incombere, solo, della morte, con nessuna fuga può giammai difendersi.”
La Soufrière esprime, a tal proposito, un gustoso e a tratti grottesco paradosso, giacché l’apocalisse annunciata e attesa non vi sarà. Il vulcano, inspiegabilmente dal punto di vista scientifico, non esploderà – lo farà, senza vittime, tre anni più tardi – e questo rende il film un curioso e straniante lavoro di sapore beckettiano, valore aggiunto di un’opera magnifica ed estrema, non solo perché il pericolo incombente è comunque quanto mai prossimo e reale, ma soprattutto perché l’attesa della fine diventa occasione per lo sguardo di posarsi sull’incantata bellezza e la sovrumana potenza della natura, per sancire la vittoria del significante sul significato.
Herzog inserisce nel film alcune immagini fotografiche della catastrofica esplosione del vulcano La Pelée, avvenuta nel 1902 sulla vicina isola della Martinica, che aveva raso al suolo la cittadina di Saint-Pierre, uccidendo trentamila persone. Le fotografie di un evento già avvenuto e concluso, e che quindi non ha più luogo, echi immobili dal regno oscuro del passato, tracce di un mondo sepolto, dimenticato e fantastico fanno da controcanto al presente delle riprese, che invece mostrano un luogo privo di evento e che divengono, tramite l’attesa indefinita, anch’esse immagini sospese di una situazione immobilizzata, contemplazione del tempo puro, immagine-tempo priva di cronologia e di scansione degli eventi, verità estatica non zavorrata dal predominio del senso.
Il film si conclude con il riconoscimento, da parte di Herzog, della propria sconfitta: “Per noi, le riprese per questo film hanno assunto un aspetto patetico, e così tutto è finito con un nulla di fatto e nel ridicolo più completo. Ora diventerà il documentario di una catastrofe inevitabile che non si verificò.” Il fallimento della missione diviene però, in questo caso, fatalmente, il trionfo del cinema.
Gian Giacomo Petrone
Sezione di riferimento: Special Werner Herzog
Scheda tecnica
Anno: 1976
Durata: 30’
Regia: Werner Herzog
Fotografia: Jörg Schmidt-Reitwein, Edward Lachman
Montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus
Musiche: Rachmaninov, Brahms, Mendelssohn, Wagner
La Soufrière esprime, a tal proposito, un gustoso e a tratti grottesco paradosso, giacché l’apocalisse annunciata e attesa non vi sarà. Il vulcano, inspiegabilmente dal punto di vista scientifico, non esploderà – lo farà, senza vittime, tre anni più tardi – e questo rende il film un curioso e straniante lavoro di sapore beckettiano, valore aggiunto di un’opera magnifica ed estrema, non solo perché il pericolo incombente è comunque quanto mai prossimo e reale, ma soprattutto perché l’attesa della fine diventa occasione per lo sguardo di posarsi sull’incantata bellezza e la sovrumana potenza della natura, per sancire la vittoria del significante sul significato.
Herzog inserisce nel film alcune immagini fotografiche della catastrofica esplosione del vulcano La Pelée, avvenuta nel 1902 sulla vicina isola della Martinica, che aveva raso al suolo la cittadina di Saint-Pierre, uccidendo trentamila persone. Le fotografie di un evento già avvenuto e concluso, e che quindi non ha più luogo, echi immobili dal regno oscuro del passato, tracce di un mondo sepolto, dimenticato e fantastico fanno da controcanto al presente delle riprese, che invece mostrano un luogo privo di evento e che divengono, tramite l’attesa indefinita, anch’esse immagini sospese di una situazione immobilizzata, contemplazione del tempo puro, immagine-tempo priva di cronologia e di scansione degli eventi, verità estatica non zavorrata dal predominio del senso.
Il film si conclude con il riconoscimento, da parte di Herzog, della propria sconfitta: “Per noi, le riprese per questo film hanno assunto un aspetto patetico, e così tutto è finito con un nulla di fatto e nel ridicolo più completo. Ora diventerà il documentario di una catastrofe inevitabile che non si verificò.” Il fallimento della missione diviene però, in questo caso, fatalmente, il trionfo del cinema.
Gian Giacomo Petrone
Sezione di riferimento: Special Werner Herzog
Scheda tecnica
Anno: 1976
Durata: 30’
Regia: Werner Herzog
Fotografia: Jörg Schmidt-Reitwein, Edward Lachman
Montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus
Musiche: Rachmaninov, Brahms, Mendelssohn, Wagner
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