Tassello tra i più preziosi della filmografia di Werner Herzog, La ballata di Stroszek è un film nato quasi per caso. Una specie di risarcimento ad personam, verrebbe da dire, offerto da Herzog a un rabberciato musicista tedesco dopo avergli prima proposto e poi negato all’ultimo momento il ruolo da protagonista in Woyzeck, una parte andata infine al solito feticcio herzoghiano Klaus Kinski.
Quella che in fin dei conti è solo la parabola di un outcast emarginato dalla società propriamente detta, indirizzato dal fato e dal degrado sul sentiero dell’oblio e dell’autodistruzione, acquisisce in questo caso una verità tale da disperdere progressivamente la percezione della mimesi cinematografica: il copione, scritto su misura dal regista tedesco per il suo attore Bruno S., che aveva ormai preso un permesso speciale dall’acciaieria in cui lavorava per girare Woyzeck, confonde infatti la fiction con la veridicità, sovrapponendo i connotati caratteriali effettivi dell’interprete dilettante già visto in Kaspar Hauser alle caratteristiche dell’alter ego filmico che Herzog gli ricama addosso con pedissequa aderenza. Un’operazione che si inscrive perfettamente nello spirito estremo e non conciliato della poetica herzoghiana e in una delle ossessioni classicamente legate alla settima arte più indagatrice: le zone d’ombra tra vero e falso, da evidenziare in ogni loro sfumatura e scanalatura, affondando a piene mani e senza remora alcuna nel documentario, sia esso presentato in forma pura e canonizzata o, come in questo caso, malcelata e spuria.
Il risultato è un film capace di scuotere lo spettatore, non solo formalmente, con l’energia di una pietra scagliata con forza (l’espressione tedesca più veloce e immediata per esprimere questo concetto sarebbe, non a caso, rammstein, come la nota band), imprigionandolo dapprima nella ieraticità dei suoi tempi dilatati e poi inchiodandolo con vigore all’anima luttuosa di una ballata di tanta morte e pochissimo, centellinato amore. La dicotomia primaria, però, è quella applicata ai luoghi: le praterie del Wisconsin da un lato e la Germania dall’altro, spazi ugualmente opprimenti nei quali la figura sgualcita e sdrucita del protagonista vaga spiazzata, come un pesce fuor d’acqua nel più inadeguato degli acquari. Il realismo che nessuno sconto fa alla deturpata realtà tedesca sembra dispiegarsi in un maggiore afflato visionario e immaginifico quando ci si apre ai territori del Nordamerica, reinventati alla luce di una sorta di magia indecifrabile. È, però, solo un’apparenza di addolcimento: lo sguardo di Werner Herzog sull’american dream tradisce infatti senza troppe cerimonie il pessimismo di fondo dell’autore, nonostante i laghetti e i miracoli accennati di piedi che fluttuano sulle acque.
L’esito finale della parabola umana di Stroszek, senza rivelare nulla, ne è ovviamente l’ulteriore conferma: la non reversibilità di questo percorso antropologico così particolare ma anche così universale lo rende un viaggio esemplare e simbolico, chiuso in se stesso e meravigliosamente prigioniero di un magnetismo animale che aggredisce le immagini dalla prima all’ultima sequenza, le sfibra, le logora, sottrae loro ogni flebile raggio di ottimismo. Fu l’ultimo film che Ian Curtis degli Joy Division vide prima di ammazzarsi, il 18 Maggio 1980. Ed era uno dei titoli che il frontman suicida amava di più al mondo. Non a caso.
De La ballata di Stroszek rimane pertanto il senso non troppo vago di un loop esistenziale, di un identikit prosaico in forma di lirica pietrosa, di un cinema che chiama in causa continuamente chi guarda, ostile alla ricezione passiva e semplificata e decentrato piuttosto verso il germogliare di un dramma tutto interiorizzato. Ci sono il tentativo (fallimentare) di aggrapparsi alla vita, il suono della campane, le musichette collassate, disturbanti e desolate di un congedo memorabile, in cui la giostra di un luna park indiano diventa l’ultimo atto meccanico messo in moto manualmente da un gesto dello stesso Stroszek, nonché, per estensione, l’ultimo lampo di vitalità che emerge in filigrana da un film che sulla vita stessa agisce con indistruttibile volontà di sottrazione. Come ha scritto Jim Knipfel, si tratta di uno dei finali più “bizzarri e indimenticabili” della storia del cinema, con quel “pollo che probabilmente sta ancora danzando”.
Nel volto dai lineamenti ferini e in fondo anonimi di Stroszek è scolpita una dose senza pari di non appartenenza, di vagabondaggio apolide: non stupisce, dunque, che questo sia da ritenersi il film di Herzog forse più autobiografico in assoluto, il più doloroso, il meno facilmente cicatrizzabile, il più rappresentativo del suo instancabile desiderio di ricerca.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Special Werner Herzog
Scheda tecnica
Titolo originale: Stroszek
Anno: 1977
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Fotografia: Thomas Mauch
Montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus
Durata: 115'
Interpreti principali: Bruno S., Eva Mattes, Clemens Scheitz
Quella che in fin dei conti è solo la parabola di un outcast emarginato dalla società propriamente detta, indirizzato dal fato e dal degrado sul sentiero dell’oblio e dell’autodistruzione, acquisisce in questo caso una verità tale da disperdere progressivamente la percezione della mimesi cinematografica: il copione, scritto su misura dal regista tedesco per il suo attore Bruno S., che aveva ormai preso un permesso speciale dall’acciaieria in cui lavorava per girare Woyzeck, confonde infatti la fiction con la veridicità, sovrapponendo i connotati caratteriali effettivi dell’interprete dilettante già visto in Kaspar Hauser alle caratteristiche dell’alter ego filmico che Herzog gli ricama addosso con pedissequa aderenza. Un’operazione che si inscrive perfettamente nello spirito estremo e non conciliato della poetica herzoghiana e in una delle ossessioni classicamente legate alla settima arte più indagatrice: le zone d’ombra tra vero e falso, da evidenziare in ogni loro sfumatura e scanalatura, affondando a piene mani e senza remora alcuna nel documentario, sia esso presentato in forma pura e canonizzata o, come in questo caso, malcelata e spuria.
Il risultato è un film capace di scuotere lo spettatore, non solo formalmente, con l’energia di una pietra scagliata con forza (l’espressione tedesca più veloce e immediata per esprimere questo concetto sarebbe, non a caso, rammstein, come la nota band), imprigionandolo dapprima nella ieraticità dei suoi tempi dilatati e poi inchiodandolo con vigore all’anima luttuosa di una ballata di tanta morte e pochissimo, centellinato amore. La dicotomia primaria, però, è quella applicata ai luoghi: le praterie del Wisconsin da un lato e la Germania dall’altro, spazi ugualmente opprimenti nei quali la figura sgualcita e sdrucita del protagonista vaga spiazzata, come un pesce fuor d’acqua nel più inadeguato degli acquari. Il realismo che nessuno sconto fa alla deturpata realtà tedesca sembra dispiegarsi in un maggiore afflato visionario e immaginifico quando ci si apre ai territori del Nordamerica, reinventati alla luce di una sorta di magia indecifrabile. È, però, solo un’apparenza di addolcimento: lo sguardo di Werner Herzog sull’american dream tradisce infatti senza troppe cerimonie il pessimismo di fondo dell’autore, nonostante i laghetti e i miracoli accennati di piedi che fluttuano sulle acque.
L’esito finale della parabola umana di Stroszek, senza rivelare nulla, ne è ovviamente l’ulteriore conferma: la non reversibilità di questo percorso antropologico così particolare ma anche così universale lo rende un viaggio esemplare e simbolico, chiuso in se stesso e meravigliosamente prigioniero di un magnetismo animale che aggredisce le immagini dalla prima all’ultima sequenza, le sfibra, le logora, sottrae loro ogni flebile raggio di ottimismo. Fu l’ultimo film che Ian Curtis degli Joy Division vide prima di ammazzarsi, il 18 Maggio 1980. Ed era uno dei titoli che il frontman suicida amava di più al mondo. Non a caso.
De La ballata di Stroszek rimane pertanto il senso non troppo vago di un loop esistenziale, di un identikit prosaico in forma di lirica pietrosa, di un cinema che chiama in causa continuamente chi guarda, ostile alla ricezione passiva e semplificata e decentrato piuttosto verso il germogliare di un dramma tutto interiorizzato. Ci sono il tentativo (fallimentare) di aggrapparsi alla vita, il suono della campane, le musichette collassate, disturbanti e desolate di un congedo memorabile, in cui la giostra di un luna park indiano diventa l’ultimo atto meccanico messo in moto manualmente da un gesto dello stesso Stroszek, nonché, per estensione, l’ultimo lampo di vitalità che emerge in filigrana da un film che sulla vita stessa agisce con indistruttibile volontà di sottrazione. Come ha scritto Jim Knipfel, si tratta di uno dei finali più “bizzarri e indimenticabili” della storia del cinema, con quel “pollo che probabilmente sta ancora danzando”.
Nel volto dai lineamenti ferini e in fondo anonimi di Stroszek è scolpita una dose senza pari di non appartenenza, di vagabondaggio apolide: non stupisce, dunque, che questo sia da ritenersi il film di Herzog forse più autobiografico in assoluto, il più doloroso, il meno facilmente cicatrizzabile, il più rappresentativo del suo instancabile desiderio di ricerca.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Special Werner Herzog
Scheda tecnica
Titolo originale: Stroszek
Anno: 1977
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Fotografia: Thomas Mauch
Montaggio: Beate Mainka-Jellinghaus
Durata: 115'
Interpreti principali: Bruno S., Eva Mattes, Clemens Scheitz