Molte sono le vite di una nazione, una soltanto quella degli uomini. Le nazioni possono nascere e morire più volte, gli uomini hanno un’unica possibilità. Nel corso del ‘900 la Germania muore una prima volta nel 1918: il trattato di Versailles sembra porre la pietra tombale sulle mire egemoniche tedesche e anche su qualsiasi possibilità di rinascita o rivincita. Poi il 1945: la disfatta del nazismo costituisce un secondo colpo, anch’esso mortale, per la Germania e per il suo popolo. Ma come detto, le nazioni hanno molteplici vite da spendere e riescono anche a rinascere dalle proprie ceneri.
È indubbio, comunque, che la conclusione della seconda guerra mondiale coincida con l’anno zero della Germania, con l’obliterazione del prestigioso passato del suo popolo, il quale finisce col subire la pericolosa e fuorviante sovrapposizione col nazismo tout court. Visto che, come diceva Pasolini, “La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita”, conferendole senso, giacché “Finché siamo vivi manchiamo di senso”, è indubbio che, per molto tempo, sia i tedeschi sopravvissuti, sia i popoli da essi assoggettati o combattuti durante la guerra, abbiano continuato ad avere come unico riferimento nel definire la Germania, nell’attribuire un senso, appunto, alla sua storia, la sciagura del nazismo e del secondo conflitto mondiale, la sua seconda e più tragica morte.
Anche la generazione dei cineasti tedeschi del secondo dopoguerra sembra non riuscire a trascendere questo cupo orizzonte e si sente costretta, non di rado, a fare i conti proprio con quel doloroso passato o, talora, a guardare oltreoceano per attingere a modelli letterari e filmici non contaminati dall’esperienza nazionalsocialista. È il caso, fra gli altri, di autori come Fassbinder, Wenders, Syberberg, Reitz. Werner Herzog rappresenta, in questo contesto, un’eccezione degna di nota, giacché i suoi film sono espressione di una poetica, che, fin dalle prime opere, appare purificata e liberata da qualsivoglia legame con la storia tedesca della prima metà del ‘900. Non che il regista bavarese risulti insensibile a tali problematiche, ma è indubbio che nel suo cinema si avverta un respiro universale, profondamente umanista e intensamente filosofico, non ghettizzabile in un unico frammento di storia, sia pure ampio e tragico. Anzi, è proprio l’eccessiva sensibilità che l’ha portato a valicare continuamente i confini spaziotemporali del proprio paese e della propria epoca, nonché, in certi casi, quelli del mondo.
Tant’è che quando Herzog, nel 2001 con Invincibile, decide di confrontarsi con gli oscuri trascorsi della Germania, lo fa trascendendone la dimensione aneddotica, cronachistica, retorica, scegliendo ancora una volta di focalizzare la propria attenzione sui suoi temi prediletti e di mettere in scena i personaggi cari al suo cinema.
Il film risulta ambientato fra la Polonia dell’est e Berlino, a cavallo fra il maggio del 1932 e l’inizio del 1933, nel periodo in cui Hitler è prossimo ormai a salire definitivamente al potere, ma la Storia è quasi sempre sullo sfondo o appare, di quando in quando, solo per palesare i propri tratti grotteschi – ad esempio con le figure di Himmler o Goebbels – per poi continuare a scorrere indifferente sullo sfondo, mentre balzano in primo piano le piccole storie degli uomini e, fra questi, di alcuni individui dotati di un’aura singolare.
Herzog, nel suo cinema, non ha mai smesso di raccontare le due forme di eroismo che contraddistinguono gli esseri umani per lui straordinari: la sfida allo smisurato, cioè il gettarsi nel cuore di tenebra dell’essere, del mondo nelle sue forme primordiali ed estreme – è il caso, ad esempio, di personaggi come Aguirre o Fitzcarraldo – protendendosi verso la “conquista dell’inutile”, cioè di ciò che gli uomini comuni definiscono tale, in quanto mancante di un effettivo tornaconto quantificabile; l’adesione all’indefinitamente piccolo – come accade, fra gli altri, a Kaspar Hauser o Bruno Stroszek – che si configura come il rovescio della stessa medaglia, vale a dire il rientrare direttamente nella sfera dell’inutilità, ma in questo caso a livello esistenziale, giacché, come dice Deleuze a tal proposito, “Quanto ha smesso di essere utile, comincia a essere, semplicemente”. (1)
Nel cinema herzoghiano di finzione, a predominare è quasi sempre solo una di queste due tipologie di personaggi, (2) alternativamente, ma in Invincibile è possibile riscontrare la convergenza di entrambe nell’alveo narrativo dell’opera, nonché il loro fluttuare, talvolta, da un personaggio all’altro: un elemento questo che rende il film una vera e propria summa del lavoro del regista bavarese.
A fronteggiarsi, nella Berlino degli anni ’30 raffigurata da Herzog, sono Zishe Breitbart (Jouko Ahola), un fabbro ebreo polacco dalla forza eccezionale, e il medium Erik Jan Hanussen (Tim Roth), un nobiluomo di origine danese, che esercita le proprie facoltà paranormali nel Palazzo dell’Occulto e viene tenuto in gran considerazione dalle alte sfere naziste – specialmente dal Führer – giacché nei suoi vaticini si fa menzione della prossima ascesa al potere di Hitler.
1) Al di fuori del cinema di finzione, nei documentari, Herzog mantiene lo stesso atteggiamento e persegue le medesime ossessioni dei suoi personaggi smisurati, senza necessitare del loro tramite, ma percorrendo direttamente – attraverso il proprio occhio inesausto – gli estremi confini del visibile.
2) Un’eccezione di rilievo è senz’altro costituita da Nosferatu (1978), dove i personaggi risultano particolarmente sfaccettati e complessi e dove all’onnipotente – ma attenuato dalla malinconia – principe della notte fa da contraltare il personaggio di Lucy, fragile ma forte di fronte al sacrificio supremo (anch’esso inutile, peraltro), e quello di Jonathan Harker, diviso fra la propria origine borghese e l’ansia di avventura e scoperta, che lo rende degno e inevitabile erede del vampiro.
Entrambi i personaggi sono realmente esistiti, ma le vicende che li vedono sulla ribalta del proscenio filmico sono spesso frutto della fantasia di Herzog (specie per ciò che riguarda la figura del vigorosissimo fabbro ebreo, in realtà morto nel 1925), il quale non è interessato all’aderenza storica o cronachistica, bensì a fare in modo che i temi a lui cari trovino l’opportuna alchimia per svilupparsi. È proprio a partire dalla dialettica fra queste due figure, nonché fra le loro psicologie e motivazioni, che la poetica di Herzog si impone, per poi trovare negli altri personaggi principali i moltiplicatori della propria intensità.
È indubbio, comunque, che la conclusione della seconda guerra mondiale coincida con l’anno zero della Germania, con l’obliterazione del prestigioso passato del suo popolo, il quale finisce col subire la pericolosa e fuorviante sovrapposizione col nazismo tout court. Visto che, come diceva Pasolini, “La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita”, conferendole senso, giacché “Finché siamo vivi manchiamo di senso”, è indubbio che, per molto tempo, sia i tedeschi sopravvissuti, sia i popoli da essi assoggettati o combattuti durante la guerra, abbiano continuato ad avere come unico riferimento nel definire la Germania, nell’attribuire un senso, appunto, alla sua storia, la sciagura del nazismo e del secondo conflitto mondiale, la sua seconda e più tragica morte.
Anche la generazione dei cineasti tedeschi del secondo dopoguerra sembra non riuscire a trascendere questo cupo orizzonte e si sente costretta, non di rado, a fare i conti proprio con quel doloroso passato o, talora, a guardare oltreoceano per attingere a modelli letterari e filmici non contaminati dall’esperienza nazionalsocialista. È il caso, fra gli altri, di autori come Fassbinder, Wenders, Syberberg, Reitz. Werner Herzog rappresenta, in questo contesto, un’eccezione degna di nota, giacché i suoi film sono espressione di una poetica, che, fin dalle prime opere, appare purificata e liberata da qualsivoglia legame con la storia tedesca della prima metà del ‘900. Non che il regista bavarese risulti insensibile a tali problematiche, ma è indubbio che nel suo cinema si avverta un respiro universale, profondamente umanista e intensamente filosofico, non ghettizzabile in un unico frammento di storia, sia pure ampio e tragico. Anzi, è proprio l’eccessiva sensibilità che l’ha portato a valicare continuamente i confini spaziotemporali del proprio paese e della propria epoca, nonché, in certi casi, quelli del mondo.
Tant’è che quando Herzog, nel 2001 con Invincibile, decide di confrontarsi con gli oscuri trascorsi della Germania, lo fa trascendendone la dimensione aneddotica, cronachistica, retorica, scegliendo ancora una volta di focalizzare la propria attenzione sui suoi temi prediletti e di mettere in scena i personaggi cari al suo cinema.
Il film risulta ambientato fra la Polonia dell’est e Berlino, a cavallo fra il maggio del 1932 e l’inizio del 1933, nel periodo in cui Hitler è prossimo ormai a salire definitivamente al potere, ma la Storia è quasi sempre sullo sfondo o appare, di quando in quando, solo per palesare i propri tratti grotteschi – ad esempio con le figure di Himmler o Goebbels – per poi continuare a scorrere indifferente sullo sfondo, mentre balzano in primo piano le piccole storie degli uomini e, fra questi, di alcuni individui dotati di un’aura singolare.
Herzog, nel suo cinema, non ha mai smesso di raccontare le due forme di eroismo che contraddistinguono gli esseri umani per lui straordinari: la sfida allo smisurato, cioè il gettarsi nel cuore di tenebra dell’essere, del mondo nelle sue forme primordiali ed estreme – è il caso, ad esempio, di personaggi come Aguirre o Fitzcarraldo – protendendosi verso la “conquista dell’inutile”, cioè di ciò che gli uomini comuni definiscono tale, in quanto mancante di un effettivo tornaconto quantificabile; l’adesione all’indefinitamente piccolo – come accade, fra gli altri, a Kaspar Hauser o Bruno Stroszek – che si configura come il rovescio della stessa medaglia, vale a dire il rientrare direttamente nella sfera dell’inutilità, ma in questo caso a livello esistenziale, giacché, come dice Deleuze a tal proposito, “Quanto ha smesso di essere utile, comincia a essere, semplicemente”. (1)
Nel cinema herzoghiano di finzione, a predominare è quasi sempre solo una di queste due tipologie di personaggi, (2) alternativamente, ma in Invincibile è possibile riscontrare la convergenza di entrambe nell’alveo narrativo dell’opera, nonché il loro fluttuare, talvolta, da un personaggio all’altro: un elemento questo che rende il film una vera e propria summa del lavoro del regista bavarese.
A fronteggiarsi, nella Berlino degli anni ’30 raffigurata da Herzog, sono Zishe Breitbart (Jouko Ahola), un fabbro ebreo polacco dalla forza eccezionale, e il medium Erik Jan Hanussen (Tim Roth), un nobiluomo di origine danese, che esercita le proprie facoltà paranormali nel Palazzo dell’Occulto e viene tenuto in gran considerazione dalle alte sfere naziste – specialmente dal Führer – giacché nei suoi vaticini si fa menzione della prossima ascesa al potere di Hitler.
1) Al di fuori del cinema di finzione, nei documentari, Herzog mantiene lo stesso atteggiamento e persegue le medesime ossessioni dei suoi personaggi smisurati, senza necessitare del loro tramite, ma percorrendo direttamente – attraverso il proprio occhio inesausto – gli estremi confini del visibile.
2) Un’eccezione di rilievo è senz’altro costituita da Nosferatu (1978), dove i personaggi risultano particolarmente sfaccettati e complessi e dove all’onnipotente – ma attenuato dalla malinconia – principe della notte fa da contraltare il personaggio di Lucy, fragile ma forte di fronte al sacrificio supremo (anch’esso inutile, peraltro), e quello di Jonathan Harker, diviso fra la propria origine borghese e l’ansia di avventura e scoperta, che lo rende degno e inevitabile erede del vampiro.
Entrambi i personaggi sono realmente esistiti, ma le vicende che li vedono sulla ribalta del proscenio filmico sono spesso frutto della fantasia di Herzog (specie per ciò che riguarda la figura del vigorosissimo fabbro ebreo, in realtà morto nel 1925), il quale non è interessato all’aderenza storica o cronachistica, bensì a fare in modo che i temi a lui cari trovino l’opportuna alchimia per svilupparsi. È proprio a partire dalla dialettica fra queste due figure, nonché fra le loro psicologie e motivazioni, che la poetica di Herzog si impone, per poi trovare negli altri personaggi principali i moltiplicatori della propria intensità.
Zishe, scoperto da un impresario berlinese nel suo villaggio polacco grazie alla forza eccezionale di cui è dotato, viene da questi precettato per diventare una delle attrazioni del Palazzo dell’Occulto, a Berlino, nelle vesti di novello Sigfrido. Il suo ruolo sarà essenzialmente quello di fungere da controcanto alle facoltà mentali di Hanussen, per enfatizzarne i poteri. Già da queste premesse è possibile scorgere la cifra che delineerà l’anima del film: l’identità di ogni personaggio emergerà per contrasto o reazione con quella degli altri. Per accentuare le proprie facoltà, Hanussen si mette in competizione con Zishe e sarà proprio da tale competizione che deriveranno la sua disfatta, nonché un parziale riscatto della sua figura.
Là dove la forza di Zishe è esposta, ingenua, primordiale, pre-verbale – Ahola sta in scena col proprio corpo, spesso esibito in tutta la sua potenza e, al contempo, in tutta la sua fragilità, senza fronzoli o sovrastrutture e compie davvero gli sforzi richiesti dal copione (Herzog è anche questo) – quella di Hanussen è sotterranea, retorica, verbale, teatrale, affabulatoria, frutto di una continua messinscena, di un vero e proprio lavoro attoriale. Non è un caso, infatti, che l’unico professionista, fra i due attori chiamati da Herzog per i ruoli principali, sia proprio Roth. Ciascuno dei due interpreti rappresenta quindi veridicamente ciò che ciascun personaggio richiede, per delinearne il nucleo profondo, l’essenza.
Entrambi i personaggi sono inoltre, ciascuno a proprio modo, dei visionari – come molti altri grandi (anti)eroi herzoghiani – ed entrambi appaiono pervasi da qualità smisurate, anche solo per il fatto di interagire, sia pure in modi diversi e per molti versi contrapposti, con un Moloch apparentemente invulnerabile come quello nazista. Hanussen, però, non predice il futuro, ma descrive il presente, allorché vaticina la salita al potere di Hitler (che avverrà pochi mesi dopo); per il resto non è altro che un abile illusionista, un prestigiatore che gioca coi sentimenti del proprio pubblico, vellicandoli e compiacendoli, senza alcuna effettiva capacità medianica, ma sorretto esclusivamente dalla propria arte affabulatoria; Zishe, invece, intuisce in pieno la pericolosità del nazismo, per sé e per il proprio popolo, e questa visione diviene, di fatto, la funesta profezia di un uomo dall’anima pura, dal cuore di vetro, una profezia che però quasi nessuno sarà in grado di capire.
Inoltre, mano a mano che Zishe accresce il proprio potere premonitore, Hanussen sembra smarrire la propria forza e sicurezza. La verità, su se stesso in primo luogo, Hanussen la ritroverà – in una sorta di paradosso del mentitore – quando, denunciato da Zishe come impostore, sarà costretto, in tribunale, a palesare la propria vera identità e, addirittura, le proprie origini ebraiche. Il vero nome di Hanussen è Herschmann Steinschneider, ebreo di origine ceca e grande falsario, mistificatore e manipolatore di folle. Solo una volta smascherato, egli darà prova di orgoglio e coraggio, di fronte all’uditorio del processo – con un memorabile monologo di Roth – e di dignità, allorquando riceverà Zishe nel Palazzo dell’Occulto ormai abbandonato e gli comunicherà la propria stima. Il riappropriarsi della propria identità occultata, sarà, per Hanussen/Steinschneider, per l’uomo smisuratamente ambizioso ridotto all’impotenza, per il falso visionario, l’occasione di vedere finalmente con chiarezza.
La maturazione di Zishe avviene grazie all’interazione con altre tre figure fondamentali: Marta (Anna Gourari) – l’amante di Hanussen – il fratello minore Benjamin (Jacob Wein), che l’ha raggiunto a Berlino, e il rabbino (Herbert Golder) della sinagoga della capitale. Tutti e tre questi personaggi sono anch’essi, a loro modo, dei veggenti e ciascuno di essi, così come Zishe, è dotato di un dono, la cui forza è intensificata da quella della visione. Il dono di Marta è la musica, cioè la grazia e la bellezza, che scuotono l’animo fanciullesco del protagonista, conducendolo a una nuova dimensione dello spirito. Marta è inoltre il tramite fondamentale nella presa di coscienza di Zishe circa il pericolo nazista: è lei a pregarlo di accompagnarla in una crociera organizzata da Hanussen col fine di compiacere alcuni dei più importanti notabili nazionalsocialisti – fra cui Himmler e Goebbels – per proteggerla da Hanussen stesso e dai suoi discutibili ospiti; è proprio durante la gita, infatti, che Zishe sente un Himmler ubriaco e ciarliero delirare sull’imminente incendio del Reichstag, la cui colpa sarebbe poi ricaduta sugli ebrei. Marta quindi risulta, per molteplici ragioni, un elemento fondamentale nel progressivo sviluppo della consapevolezza del protagonista.
Di notevole rilevanza risulta anche la figura del piccolo Benjamin, che desta in Zishe la forza di ribellarsi al conformismo antisemita, che gli era stato imposto attraverso l’obbligo di celare le proprie origini ebraiche e di spacciarsi come novello Sigfrido. L’arrivo a Berlino dell’amato fratello minore conduce quindi il protagonista a rivelare la propria vera identità e a proclamarsi nuovo Sansone. Il dono di cui Benjamin è in possesso è l’opposto di quello del suo gigantesco fratello: gracile di costituzione, ma dotato della parola, la Parola di Dio, che egli conosce a memoria, nonché di una saggezza senza tempo, che contrasta con la sua giovane età. Anche nel suo caso, però, così come in quello di Marta, a smuovere nel profondo l’animo di Zishe è l’amore verso il fratello e verso il proprio popolo, più che il convincimento legato alla parola.
Il protagonista è pura fisicità, predominanza dell’istinto e dell’intuizione, anima cristallina: gli arabeschi del linguaggio e della retorica non hanno presa su di lui. Tali elementi ne fanno emergere, a un tempo, la forza e la fragilità, che lo rendono umano e quindi – alla maniera delle altre figure centrali herzoghiane – destinato a una tragica fine. Anche se impermeabile alla potenza della parola, Zishe risulta sensibile al mito, al racconto dei trentasei giusti che gli fa il rabbino – in ogni generazione, il popolo ebraico dà i natali a trentasei uomini che portano in sé il dono della giustizia e il fardello di farsi carico delle sofferenze dell’umanità – prima del ritorno in Polonia. Il dono posseduto dal rabbino non solo accompagna la visionarietà, ma in essa si sostanzia, portandolo a scorgere, quindi a vedere, in Zishe, lo spirito e la forza dell’uomo retto e puro. Egli è l’unico che, anziché toccare l’affettività di Zishe, ne smuove il rispetto e quindi l’ascolto.
Zishe, udito il racconto, tornerà in Polonia per tentare di avvertire la propria comunità del pericolo incombente. Una volta radunata la propria gente, gli mancheranno però le parole per persuadere l’uditorio: il popolo ebraico non ascolta il proprio Golem, che non è in grado di esprimere compiutamente la verità, pur possedendola. La verità di Zishe non si situa, agli ottenebrati occhi della comunità, nella sua parola, ma nel suo corpo e sarà proprio quest’ultimo, apparentemente indistruttibile, a soccombere, dopo l’ennesima dimostrazione della propria forza, a causa di una banale scalfittura causata da un chiodo arrugginito, mentre ogni suo ammonimento cadrà nel nulla.
Quasi tutti i personaggi centrali del cinema di Herzog sono, ciascuno a proprio modo, dei giusti, perché puri di cuore, proiettati verso l’assoluto come inesauribile ricerca della verità, posseduti dal dono della veggenza e dalla maledizione di non essere ascoltati e compresi; perciò sono degli inattuali, degli apolidi solitari ed emarginati da comunità chiuse nella propria stoltezza. Il loro destino non potrà, quindi, che esser quello di vedere spazzate le proprie visioni dal vento dell’indifferenza e dell’oblio.
Gian Giacomo Petrone
Sezione di riferimento: Special Werner Herzog
Scheda tecnica
Titolo originale: Invincible
Anno: 2001
Durata: 127’
Regia, soggetto e sceneggiatura: Werner Herzog
Fotografia: Peter Zeitlinger
Montaggio: Joe Bini
Musiche: Klaus Badelt, Hans Zimmer
Interpreti principali: Tim Roth, Jouko Ahola, Anna Gourari, Jacob Wein, Udo Kier
Là dove la forza di Zishe è esposta, ingenua, primordiale, pre-verbale – Ahola sta in scena col proprio corpo, spesso esibito in tutta la sua potenza e, al contempo, in tutta la sua fragilità, senza fronzoli o sovrastrutture e compie davvero gli sforzi richiesti dal copione (Herzog è anche questo) – quella di Hanussen è sotterranea, retorica, verbale, teatrale, affabulatoria, frutto di una continua messinscena, di un vero e proprio lavoro attoriale. Non è un caso, infatti, che l’unico professionista, fra i due attori chiamati da Herzog per i ruoli principali, sia proprio Roth. Ciascuno dei due interpreti rappresenta quindi veridicamente ciò che ciascun personaggio richiede, per delinearne il nucleo profondo, l’essenza.
Entrambi i personaggi sono inoltre, ciascuno a proprio modo, dei visionari – come molti altri grandi (anti)eroi herzoghiani – ed entrambi appaiono pervasi da qualità smisurate, anche solo per il fatto di interagire, sia pure in modi diversi e per molti versi contrapposti, con un Moloch apparentemente invulnerabile come quello nazista. Hanussen, però, non predice il futuro, ma descrive il presente, allorché vaticina la salita al potere di Hitler (che avverrà pochi mesi dopo); per il resto non è altro che un abile illusionista, un prestigiatore che gioca coi sentimenti del proprio pubblico, vellicandoli e compiacendoli, senza alcuna effettiva capacità medianica, ma sorretto esclusivamente dalla propria arte affabulatoria; Zishe, invece, intuisce in pieno la pericolosità del nazismo, per sé e per il proprio popolo, e questa visione diviene, di fatto, la funesta profezia di un uomo dall’anima pura, dal cuore di vetro, una profezia che però quasi nessuno sarà in grado di capire.
Inoltre, mano a mano che Zishe accresce il proprio potere premonitore, Hanussen sembra smarrire la propria forza e sicurezza. La verità, su se stesso in primo luogo, Hanussen la ritroverà – in una sorta di paradosso del mentitore – quando, denunciato da Zishe come impostore, sarà costretto, in tribunale, a palesare la propria vera identità e, addirittura, le proprie origini ebraiche. Il vero nome di Hanussen è Herschmann Steinschneider, ebreo di origine ceca e grande falsario, mistificatore e manipolatore di folle. Solo una volta smascherato, egli darà prova di orgoglio e coraggio, di fronte all’uditorio del processo – con un memorabile monologo di Roth – e di dignità, allorquando riceverà Zishe nel Palazzo dell’Occulto ormai abbandonato e gli comunicherà la propria stima. Il riappropriarsi della propria identità occultata, sarà, per Hanussen/Steinschneider, per l’uomo smisuratamente ambizioso ridotto all’impotenza, per il falso visionario, l’occasione di vedere finalmente con chiarezza.
La maturazione di Zishe avviene grazie all’interazione con altre tre figure fondamentali: Marta (Anna Gourari) – l’amante di Hanussen – il fratello minore Benjamin (Jacob Wein), che l’ha raggiunto a Berlino, e il rabbino (Herbert Golder) della sinagoga della capitale. Tutti e tre questi personaggi sono anch’essi, a loro modo, dei veggenti e ciascuno di essi, così come Zishe, è dotato di un dono, la cui forza è intensificata da quella della visione. Il dono di Marta è la musica, cioè la grazia e la bellezza, che scuotono l’animo fanciullesco del protagonista, conducendolo a una nuova dimensione dello spirito. Marta è inoltre il tramite fondamentale nella presa di coscienza di Zishe circa il pericolo nazista: è lei a pregarlo di accompagnarla in una crociera organizzata da Hanussen col fine di compiacere alcuni dei più importanti notabili nazionalsocialisti – fra cui Himmler e Goebbels – per proteggerla da Hanussen stesso e dai suoi discutibili ospiti; è proprio durante la gita, infatti, che Zishe sente un Himmler ubriaco e ciarliero delirare sull’imminente incendio del Reichstag, la cui colpa sarebbe poi ricaduta sugli ebrei. Marta quindi risulta, per molteplici ragioni, un elemento fondamentale nel progressivo sviluppo della consapevolezza del protagonista.
Di notevole rilevanza risulta anche la figura del piccolo Benjamin, che desta in Zishe la forza di ribellarsi al conformismo antisemita, che gli era stato imposto attraverso l’obbligo di celare le proprie origini ebraiche e di spacciarsi come novello Sigfrido. L’arrivo a Berlino dell’amato fratello minore conduce quindi il protagonista a rivelare la propria vera identità e a proclamarsi nuovo Sansone. Il dono di cui Benjamin è in possesso è l’opposto di quello del suo gigantesco fratello: gracile di costituzione, ma dotato della parola, la Parola di Dio, che egli conosce a memoria, nonché di una saggezza senza tempo, che contrasta con la sua giovane età. Anche nel suo caso, però, così come in quello di Marta, a smuovere nel profondo l’animo di Zishe è l’amore verso il fratello e verso il proprio popolo, più che il convincimento legato alla parola.
Il protagonista è pura fisicità, predominanza dell’istinto e dell’intuizione, anima cristallina: gli arabeschi del linguaggio e della retorica non hanno presa su di lui. Tali elementi ne fanno emergere, a un tempo, la forza e la fragilità, che lo rendono umano e quindi – alla maniera delle altre figure centrali herzoghiane – destinato a una tragica fine. Anche se impermeabile alla potenza della parola, Zishe risulta sensibile al mito, al racconto dei trentasei giusti che gli fa il rabbino – in ogni generazione, il popolo ebraico dà i natali a trentasei uomini che portano in sé il dono della giustizia e il fardello di farsi carico delle sofferenze dell’umanità – prima del ritorno in Polonia. Il dono posseduto dal rabbino non solo accompagna la visionarietà, ma in essa si sostanzia, portandolo a scorgere, quindi a vedere, in Zishe, lo spirito e la forza dell’uomo retto e puro. Egli è l’unico che, anziché toccare l’affettività di Zishe, ne smuove il rispetto e quindi l’ascolto.
Zishe, udito il racconto, tornerà in Polonia per tentare di avvertire la propria comunità del pericolo incombente. Una volta radunata la propria gente, gli mancheranno però le parole per persuadere l’uditorio: il popolo ebraico non ascolta il proprio Golem, che non è in grado di esprimere compiutamente la verità, pur possedendola. La verità di Zishe non si situa, agli ottenebrati occhi della comunità, nella sua parola, ma nel suo corpo e sarà proprio quest’ultimo, apparentemente indistruttibile, a soccombere, dopo l’ennesima dimostrazione della propria forza, a causa di una banale scalfittura causata da un chiodo arrugginito, mentre ogni suo ammonimento cadrà nel nulla.
Quasi tutti i personaggi centrali del cinema di Herzog sono, ciascuno a proprio modo, dei giusti, perché puri di cuore, proiettati verso l’assoluto come inesauribile ricerca della verità, posseduti dal dono della veggenza e dalla maledizione di non essere ascoltati e compresi; perciò sono degli inattuali, degli apolidi solitari ed emarginati da comunità chiuse nella propria stoltezza. Il loro destino non potrà, quindi, che esser quello di vedere spazzate le proprie visioni dal vento dell’indifferenza e dell’oblio.
Gian Giacomo Petrone
Sezione di riferimento: Special Werner Herzog
Scheda tecnica
Titolo originale: Invincible
Anno: 2001
Durata: 127’
Regia, soggetto e sceneggiatura: Werner Herzog
Fotografia: Peter Zeitlinger
Montaggio: Joe Bini
Musiche: Klaus Badelt, Hans Zimmer
Interpreti principali: Tim Roth, Jouko Ahola, Anna Gourari, Jacob Wein, Udo Kier