L’oblio dell’uomo. O l’incrollabile fede nell’essere umano. Impervie strade conducono alla saggezza, come alla conoscenza. Il fragile e impercettibile equilibrio della vita negli spazi gelidi e deserti dell’Antartico.
Encounters at the end of the world, dedicato al critico cinematografico Roger Ebert, è l’ideale seguito de L’ignoto spazio profondo (2005), ispirato a Herzog da Henry Kaiser, che del lavoro precedente fu direttore della fotografia. È proprio con lui, solo con lui, che Herzog ha compiuto il lungo viaggio ai confini del mondo. Per scoprire, esplorare, incontrare.
Fuori dalla mappa. L’estremo.
Si può analizzare il documentario in una duplice prospettiva: come racconto puro e nudo sulla natura, e come accorata dichiarazione d’affetto per l’umanità. Per quella che l’avanguardista James Broughton chiamava una “società di esploratori”. I filmmakers. Gli indagatori dell’invisibile, dell’inarrivabile. Di più, gli uomini capaci di spingersi sempre oltre. I “professional dreamers”, sognatori professionisti, che rendono possibile la realizzazione di ciò che sulla carta sembra appena un sogno. Il sogno, dopotutto, è solo una versione perfetta della realtà.
L’Antartico è un mondo a sé, ma viene proposto allo spettatore come una linea di confine tra la verità inviolabile della società contemporanea e la fede di una distesa ghiacciata. Silenziosa. Imperscrutabile. Comprensibile ai cuori coraggiosi, ai devoti, agli occhi attenti e lunghi.
Nell’Antartico di un'età congelata e quasi immortale, senza tempo né spazi a definirne i confini, il passato e il futuro, la McMurdo Station è l’ambiente lavorativo e umano entro il quale Werner Herzog si addentra, si avventura, in cerca di storie straordinarie da fissare ma anche di ciò che più può legare la natura violenta e selvaggia alla passione degli uomini per essa. Nella McMurdo Station si lavora, studia, spera, ricerca. Si impara a sopravvivere prima che a respirare, a conoscere la durezza della vita nell’Antartico, con tutte le sue complessità ma anche le sue mirabili panoramiche, la poesia e il malinconico destino degli animali, abbandonati a se stessi, appassionati e infelici, proprio come gli uomini.
Il silenzio del gelo si sposa con il minimo commento musicale di Henry Kaiser, il suono della vita e della morte risalgono dalle profondità, udibili solo all’orecchio dell’uomo. Il resto è attesa. Frammenti che emergono rari, fini, una crepa nella superficie.
Pochissime volte nel film viene pronunciato il termine ormai inflazionato “global warming”, diventato più una moda che un vero allarme per la grandezza dell’universo che tutti noi abbiamo la fortuna di abitare. Herzog entra nel futuro, o meglio apre una porta, accende una luce. Allo spettatore la sensibilità di cogliere quel faro, pur in lontananza.
Encounters at the end of the world ci riconcilia con questa realtà. Con la straordinaria bellezza di ciò che ci circonda, con il mistero, la vita, lo strano e intricato rapporto tra uomini e creature degli abissi, uomini e natura inospitale, fredda, a tratti assente. È la filosofia dell’iceberg, forse. L’elemento da sconfiggere, toccare, che spaventa, il cui urlo, sostiene Douglas MacAyeal, bisogna saper ascoltare. Bisogna incidere il ghiaccio, per poter entrare. Si affonda nell’acqua liquida come si entra in chiesa. La sacralità dei luoghi perfetti è solo da rispettare, capire, per poter onorare.
Ecco l’occhio della cinepresa, allora. Ecco la purezza e la maestosità di Herzog documentarista. Lontano dall’ambiguità tra finzione e documentario de L’ignoto spazio profondo, Herzog compie qui una scelta precisa, di campo e di azione, ma anche di riflessione. Una scelta che paga. Straordinarie e toccanti immagini, impreziosite dall’efficace colonna sonora, si fondono con le brevi interviste agli esploratori al confine del mondo. I protagonisti di questo incontro in immagini dove l’occhio dell’uomo raramente giunge.
Sono tanti i luoghi della mente, tanti i mondi delle idee, afferma il filosofo e scienziato Stefan Pashov in uno stralcio della sua intervista. Vivere l’Antartico equivale a fare l’Ulisse, a vivere ciascuno la propria odissea interiore.
È l’Antartico il luogo ideale in cui ritrovarsi. Il luogo della selezione naturale. Questo afferma Herzog. Nulla è più lontano del Polo Sud. Il film dunque si relaziona con il paesaggio come ambiente e filosofia di vita. Quanto è grande, immensa, perfetta la natura e quanto piccoli, ignoranti, insensibili, incerti e spaventati siamo noi. Gli esseri umani, creature fragili e infinitamente piccole nella porzione di universo distante e incontaminata, bianca, fredda, bagnata. In perenne mutamento eppure costante. Ostinata. Così fragile. Invincibile.
Francesca Borrione
Sezione di riferimento: Special Werner Herzog
Scheda tecnica
Titolo originale Encounters at the end of the world
Regia Werner Herzog
Sceneggiatura Werner Herzog
Anno 2007
Durata 99 minuti
Genere Documentario
Fotografia Peter Zeitlinger
Musiche Henry Kaiser e David Lindley
Encounters at the end of the world, dedicato al critico cinematografico Roger Ebert, è l’ideale seguito de L’ignoto spazio profondo (2005), ispirato a Herzog da Henry Kaiser, che del lavoro precedente fu direttore della fotografia. È proprio con lui, solo con lui, che Herzog ha compiuto il lungo viaggio ai confini del mondo. Per scoprire, esplorare, incontrare.
Fuori dalla mappa. L’estremo.
Si può analizzare il documentario in una duplice prospettiva: come racconto puro e nudo sulla natura, e come accorata dichiarazione d’affetto per l’umanità. Per quella che l’avanguardista James Broughton chiamava una “società di esploratori”. I filmmakers. Gli indagatori dell’invisibile, dell’inarrivabile. Di più, gli uomini capaci di spingersi sempre oltre. I “professional dreamers”, sognatori professionisti, che rendono possibile la realizzazione di ciò che sulla carta sembra appena un sogno. Il sogno, dopotutto, è solo una versione perfetta della realtà.
L’Antartico è un mondo a sé, ma viene proposto allo spettatore come una linea di confine tra la verità inviolabile della società contemporanea e la fede di una distesa ghiacciata. Silenziosa. Imperscrutabile. Comprensibile ai cuori coraggiosi, ai devoti, agli occhi attenti e lunghi.
Nell’Antartico di un'età congelata e quasi immortale, senza tempo né spazi a definirne i confini, il passato e il futuro, la McMurdo Station è l’ambiente lavorativo e umano entro il quale Werner Herzog si addentra, si avventura, in cerca di storie straordinarie da fissare ma anche di ciò che più può legare la natura violenta e selvaggia alla passione degli uomini per essa. Nella McMurdo Station si lavora, studia, spera, ricerca. Si impara a sopravvivere prima che a respirare, a conoscere la durezza della vita nell’Antartico, con tutte le sue complessità ma anche le sue mirabili panoramiche, la poesia e il malinconico destino degli animali, abbandonati a se stessi, appassionati e infelici, proprio come gli uomini.
Il silenzio del gelo si sposa con il minimo commento musicale di Henry Kaiser, il suono della vita e della morte risalgono dalle profondità, udibili solo all’orecchio dell’uomo. Il resto è attesa. Frammenti che emergono rari, fini, una crepa nella superficie.
Pochissime volte nel film viene pronunciato il termine ormai inflazionato “global warming”, diventato più una moda che un vero allarme per la grandezza dell’universo che tutti noi abbiamo la fortuna di abitare. Herzog entra nel futuro, o meglio apre una porta, accende una luce. Allo spettatore la sensibilità di cogliere quel faro, pur in lontananza.
Encounters at the end of the world ci riconcilia con questa realtà. Con la straordinaria bellezza di ciò che ci circonda, con il mistero, la vita, lo strano e intricato rapporto tra uomini e creature degli abissi, uomini e natura inospitale, fredda, a tratti assente. È la filosofia dell’iceberg, forse. L’elemento da sconfiggere, toccare, che spaventa, il cui urlo, sostiene Douglas MacAyeal, bisogna saper ascoltare. Bisogna incidere il ghiaccio, per poter entrare. Si affonda nell’acqua liquida come si entra in chiesa. La sacralità dei luoghi perfetti è solo da rispettare, capire, per poter onorare.
Ecco l’occhio della cinepresa, allora. Ecco la purezza e la maestosità di Herzog documentarista. Lontano dall’ambiguità tra finzione e documentario de L’ignoto spazio profondo, Herzog compie qui una scelta precisa, di campo e di azione, ma anche di riflessione. Una scelta che paga. Straordinarie e toccanti immagini, impreziosite dall’efficace colonna sonora, si fondono con le brevi interviste agli esploratori al confine del mondo. I protagonisti di questo incontro in immagini dove l’occhio dell’uomo raramente giunge.
Sono tanti i luoghi della mente, tanti i mondi delle idee, afferma il filosofo e scienziato Stefan Pashov in uno stralcio della sua intervista. Vivere l’Antartico equivale a fare l’Ulisse, a vivere ciascuno la propria odissea interiore.
È l’Antartico il luogo ideale in cui ritrovarsi. Il luogo della selezione naturale. Questo afferma Herzog. Nulla è più lontano del Polo Sud. Il film dunque si relaziona con il paesaggio come ambiente e filosofia di vita. Quanto è grande, immensa, perfetta la natura e quanto piccoli, ignoranti, insensibili, incerti e spaventati siamo noi. Gli esseri umani, creature fragili e infinitamente piccole nella porzione di universo distante e incontaminata, bianca, fredda, bagnata. In perenne mutamento eppure costante. Ostinata. Così fragile. Invincibile.
Francesca Borrione
Sezione di riferimento: Special Werner Herzog
Scheda tecnica
Titolo originale Encounters at the end of the world
Regia Werner Herzog
Sceneggiatura Werner Herzog
Anno 2007
Durata 99 minuti
Genere Documentario
Fotografia Peter Zeitlinger
Musiche Henry Kaiser e David Lindley