ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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D'APRÈS UNE HISTOIRE VRAI (Quello che non so di lei) - Un'anima per due volti

3/3/2018

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​“Non c’è quantità di fuoco o di gelo che possa sfidare ciò che un uomo può accumulare tra i fantasmi del suo cuore.” (Francis Scott Fitzgerald)

Ci sono film che nascono dall'idea di un un'unica persona, responsabile di tutto il processo creativo. Altri invece sono il risultato di una sorta di parto graduale e collettivo, alla fine del quale il risultato sullo schermo assomma sensazioni e personalità di ciascuno dei componenti. È il caso di Quello che non so di lei (D'après une histoire vrai), nuovo film di Roman Polanski, presentato lo scorso anno a Cannes e ora uscito, con molti mesi di ritardo, anche nei cinema italiani. Un lavoro stratificato, la cui base è un romanzo di Delphine de Vigan, consigliato a Polanski dalla compagna e musa Emmanuelle Seigner. Il libro d'origine è approdato nelle sale transitando dalla penna di Olivier Assayas, in veste di sceneggiatore, per essere infine (parzialmente) plasmato dall'occhio registico di Polanski. 

Il risultato, come si diceva, è un oggetto multiforme, nel quale si ritrovano elementi caratterizzanti ciascuno dei passi necessari per generare la trasposizione dalla materia letteraria al film. Multiformi sono anche i significati che fuoriescono dalle profondità emotive di una “storia vera” che tale non è, o forse sì, o forse solo in parte. Dubbi irrisolvibili, incatenati nelle pieghe di un thriller la cui carta da gioco principale è l'ambiguità, tema non a caso tanto caro sia al cinema di Assayas che a quello di Polanski.
D'après une histoire vrai è, sopra a tutto, un doloroso racconto di fantasmi. Fluttuanti, lievi, feroci e misteriosi. I fantasmi di una madre internata e morta suicida la cui tragedia ispira un romanzo best seller. I fantasmi di una pagina bianca che non si riesce più a riempire in alcun modo. I fantasmi di quel “libro della vita” che si ha dentro ma non si è capaci di estrarre. I fantasmi del successo artistico, paradossalmente destinati ad acuire stanchezza, solitudine e senso di mancamento verso se stessi. Infine, i fantasmi del doppio, personificati da una donna che forse esiste o forse no; un'ammiratrice senza scrupoli, una dolce strega dagli occhioni blu che incarna purezza celestiale e crudeltà demoniaca, un alter ego che scava dentro la mente della protagonista sino a divorarne ogni certezza. Una ghost writer (fantasmi, anche qui), sospesa dietro le quinte dell'immaginazione, sopra le nuvole del proprio firmamento, nei meandri di una convulsa ricerca della propria verità. 
Il rapporto tra Delphine, scrittrice in crisi d'identità e Elle (Lei nella versione italiana), sua seguace invadente e irresistibile, si situa su una strada che accosta il duello manipolatorio tra Kristen Stewart e Juliette Binoche in Sils Maria e la folle ossessione di Kathy Bates verso James Caan nel magnifico Misery di Rob Reiner. Qui, però, almeno per ampi tratti, tutto è più sfumato e misurato, tanto che il classico rapporto carnefice-vittima si perde nel fango di una profonda inconoscibilità, impossibile da decifrare, almeno sino all'approdo a una parte finale meno efficace perché troppo esibita. 
​
Durante la visione, in molti momenti, si ha la sensazione di assistere a un film non solo scritto ma anche diretto da Assayas, più che da Polanski. La regia di quest'ultimo pare infatti nascondersi nell'ombra. Eppure, nelle sfumature e nei ritagli dell'immagine, la poetica polanskiana riesce a farsi intravedere, in conturbanti oscurità che regalano sospiri e profumi grazie ai quali la mente per un attimo vaga verso tappe della sua gloriosa carriera, dalla persecuzione autoindotta de L'inquilino del terzo piano alla flagellazione interiore di Repulsion, dalla crudeltà melliflua di Rosemary's Baby al perverso rapporto di dominio e sottomissione in Luna di fiele, fino al rimescolamento di ruoli di Venere in pelliccia. 
Rimane comunque la sensazione che il grande autore ormai ottantaquattrenne abbia in questo caso voluto tenersi in disparte, lasciando il centro della scena a una duplice penna, quella della de Vigan e quella di Assayas. Duplice, appunto; dall'ambiguità al complesso tema del doppio, da una donna a due, da due a una. Un'anima per due volti, quello sofferto di Emmanuelle Seigner e quello seducente di Eva Green, la quale, pur con qualche eccesso, dimostra ancora, dopo l'ottima prova nella serie Penny Dreadful, di saper incarnare con efficacia la dicotomia angelo/diavolo. 
Le due tengono la scena quasi sempre da sole, senza affanni. Si studiano e si ammirano, si cercano e si sfidano. Intorno a loro la messinscena scorre silenziosa e trattenuta, al netto di qualche improvvisa esplosione di violenza (il massacro del frullatore con il mattarello, il gesso in mille pezzi) e di piccoli squarci di ipnotico orrore (l'inquietante rana all'interno di un libro per bambini). La storia, contenitore di altre microstorie, si dipana lungo il confine liminale tra realtà e immaginazione, sino a un epilogo non del tutto soddisfacente perché troppo sfacciato, tanto da ricordare il sopracitato Misery con evidenza eccessivamente marcata. Più interessante è ciò che avviene prima, durante un processo di conoscenza altrui che poi altro non è se non un viaggio verso la (definitiva?) conoscenza di sé. 
Un viaggio periglioso, scomodo, zoppicante e beffardo. Eppure necessario. 

Alessio Gradogna

Sezioni di riferimento: Film al cinema, Special Roman Polanski


Scheda tecnica

Titolo originale: D'après une histoire vraie
Anno: 2017
Durata: 110'
Regia: Roman Polanski
Soggetto: dal romanzo di Delphine de Vigan
Sceneggiatura: Olivier Assayas, Roman Polanski
Fotografia: Pawel Edelman
Musiche: Alexandre Desplat
Attori: Emmanuelle Seigner, Eva Green, Vincent Pérez

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VENERE IN PELLICCIA - Guerra dei sessi

16/11/2013

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L’ultimo film di Roman Polanski è un gioco riflesso. Una giostra smaliziata di proiezioni ingannatrici e mistificanti in cui i protagonisti, Thomas e Vanda, intellettuale frustrato lui e attricetta sboccata lei, si cimentano in un’altra carneficina, un nuovo massacro verbale e fisico a due anni di distanza dal precedente Carnage. Dalle quattro mura domestiche a quelle teatrali, con in più un tetto scoperchiato, strappo nel cielo di carta che rivela la tempesta esterna. Casomai non fosse bastato, a rivelarla, il meraviglioso piano sequenza iniziale, che consente allo spettatore di incunearsi nel setting di questo duello a due voci lasciandosi imprigionare al suo interno, vittima sacrificale egli stesso di una girandola ciarliera e raffinata, coltissima e affastellata di temi e spunti di riflessione. Tagliente come un colpo di frustra. Sadomaso, appunto. Ma più come idea filosofico-psicologica che in qualità di (superata) categoria di perversione erotica.
Venere in pelliccia conferma lo smagliante stato di forma di Roman Polanski, che a ottant’anni suonati ci regala uno dei suoi film più eleganti e complessi a partire da una pièce di David Ives, tratta a sua volta dal celebre testo originale di Leopold von Sacher-Masoch, che il regista di Repulsion ammette però candidamente di non aver letto per intero (solo una manciata di pagine) né tantomeno sopportato, trovandolo noioso e lontano dal suo interesse. Ha preferito ripiegare sulla dinamicità claustrofobica dell’adattamento per il palcoscenico, ben più stimolante per le sue corde di autore avvezzo a riflettere sulle chiusure, le coercizioni, i restringimenti e tutte le componenti ancestrali e paranoiche che vi sono connessi.
Pane per i suoi denti, dunque: a creare la gabbia, o per meglio dire il fitto, opprimente corridoio dal tentacolare senso del tatto in questo caso è proprio il continuo alternarsi tra teatro e vita, tra finzione e realtà. Una polarità che si viene a sovrapporre con quella che s’instaura tra i personaggi, splendidamente rinchiusi in un susseguirsi di diatribe e schermaglie, tra guèpiere e copioni da migliorare, scambi di ruolo e avvinghiamenti al tango macabro di una seduzione che non conosce limiti e barriere.
Venere in pelliccia è un film percorso da una febbre, da una frenesia tangibile ed epiteliale. È il masochismo, anch’esso come concetto generico, a guardarsi allo specchio riconoscendo il proprio volto, con lo sguardo vigile di Polanski che sghignazza sotto i baffi, che monta e rimonta, modella e amplifica, ridicolizza e gigioneggia sornione. In quello che è anche e non secondariamente un atto d’amore campale alla sensualità del corpo della moglie Emmanuelle Seigner, il regista polacco inscena quella che - ebbene sì - potrebbe perfino sembrare una parodia, come egli stesso non ha mancato di evidenziare, capace di tenere testa ai suoi obiettivi mettendosi in dubbio e negando in più momenti la sua effettiva veridicità, in un calembour sulfureo di metateatro che coincide con la magnifica rivalsa conclusiva non diciamo di quale delle due parti. Un finale che in parte scardina e contraddice l’acchittata tenitura del resto del film nel suo barocchismo fuori fuoco e fuori misura, sostanziando tuttavia la portata politica del racconto erotico, tra cactus che diventano simboli fallici e immersioni profonde nei luoghi tematici più celebri del teatro euripideo.
“E l’onnipotente lo colpì, e lo consegnò nelle mani di una donna”. Questa l’epigrafe d’apertura, a suggerire una maledizione di sicuro pregressa, a lasciare pochi dubbi sulla risoluzione. Polanski la fa sua anche per bearsi delle ripetute unghiate inflitte alla figura del regista presunto onnipotente, qui ben lontano dall’essere un padreterno che tutto sa e tutto può, messo alla berlina oltre che sfiduciato, fatto a pezzi in quel suo caschetto così dannatamente vicino al se stesso degli esordi, specie quello de L’inquilino del terzo piano.
Venere in pelliccia, se ci si pensa, ha luogo nello stesso spazio evanescente di quel film, pronto a dissolversi sotto i colpi di un cerebralismo nient’affatto di confezione, che trova nella veste del film-cervello aulico (un’opera che “venderebbe l’anima per un’allitterazione”) la sua più solida e destabilizzata idea di messa in scena, simile a una frizzante sciarada in cui è l’uomo a creare il Frankenstein di una donna ribelle, emancipata, eversiva rispetto a ogni forma di controllo. Che si proceda con la guerra dei sessi, allora. Ad armi pari, ma anche no, com’è giusto che sia.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Special Roman Polanski, Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: La Vénus à la fourrure
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura: David Ives e Roman Polanski, tratta dalla pièce Venus in Fur di David Ives
Attori: Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric
Fotografia: Pawel Edelman
Montaggio: Margot Meynier, Hervé de Luze
Musiche: Alexandre Desplat
Anno: 2013
Durata: 96’

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LUNA DI FIELE - Fammi male, Mimì

15/11/2013

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L'amore che muore. Oppure evolve. Diventa altro. Si trasforma in perversione, odio, sfruttamento, ossessione. L'uomo padrone e la donna schiava, o viceversa. Il sesso come strumento di dominio, sottomissione, stravolgimento di ruoli e ambizioni, certezze e tradizioni, immagini e illusioni. L'atto fisico come malattia insopprimibile, dipendenza logorante, erezione permanente. Poi la noia, il fastidio, l'odore del corpo eccitato che svanisce, la voluttà del pensiero e dell'azione che inesorabile si perde tra i sentieri della banalità. 
A combattere la necessità dell'abbandono rimane infine un legame, quasi obbligato, totalitario, coacervo di sensazioni e privazioni, simbolo di eterna dannazione e veicolo capace di guidare sino al limite estremo. E oltre.
​
Nave da crociera in viaggio verso Istanbul. Una coppia dalle buone maniere in crisi d'identità, alla ricerca di nuove emozioni per ritrovare l'attrazione perduta e combattere il piattume del quotidiano. Un'altra coppia, dalle abitudini misteriose e conturbanti. Una lunga storia, disgustosa e meravigliosa, da raccontare, ascoltare, sopportare, per ottenere la soddisfazione di un sogno dagli occhi di ghiaccio. Quattro personaggi, quattro pedine mosse da Roman Polanski in un continuo gioco di smistamenti e incroci, confronti e distanze, annientamento e sorprendenti alchimie. 
​
Come sarà poi anche in Carnage, come già era stato ad esempio in Rosemary's Baby, il maestro polacco costruisce con Luna di Fiele un esemplare atto satirico in cui scartavetrare gli angoli bui dell'anima umana, alla ricerca di quegli anfratti oscuri nel quale pulsa il vero senso della vita e delle azioni che la accompagnano. Gli bastano un luogo in finto movimento, qualche corridoio stretto, un lieve rollio, quattro attori e alcuni salti narrativi tra presente e passato: non c'è bisogno di ulteriori artifici, né di invenzioni strutturali; la regalità del cinema polanskiano, come sempre, viaggia a braccetto con l'essenzialità della forma, trovando un ennesimo e invidiabile punto di rottura.
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Latte versato e spalmato sul seno; una danza lasciva a piedi nudi tra le candele; frustini e travestimenti; lo strumento del potere carnale a cavalcioni sulla bocca di un amante immobilizzato; una notte di passione lesbica che scivola oltre i muri del voyeurismo. Emmanuelle Seigner irresistibile femme fatale, "tutta la bellezza del mondo racchiusa in un corpo di donna"; Peter Coyote vittima/carnefice dalle mille sfumature; Hugh Grant ingenuo loser scavato da pruriti non più soffocabili; Kristin Scott Thomas oggetto di un'iniziazione tardiva ma non troppo. Tasselli interscambiabili, confusi e infelici, in corsa verso la vita con un'inclinazione verso la morte, nel tegame fumante di una ricetta afrodisiaca i cui risultati non potranno che essere nefasti.
​
Polanski attacca, ironizza, svia le previsioni, facendosi trainare dalle musiche dei Vangelis e dalla fotografia di Tonino Delli Colli. Luna di fiele sconvolge e seduce, ci guida negli umori del sesso per poi lasciarci inebetiti di fronte alla risoluzione degli eventi. Dura oltre due ore, ma non stanca neanche per sbaglio; è come una seduta psicoanalitica, nella quale ritrovare un po' di noi stessi, di quello che siamo o vorremmo essere se solo ne avessimo il coraggio, perché in fondo "in tutti noi c'è una vena di sadismo, e non c'è niente di peggio di sapere che esiste qualcuno disposto a essere totalmente alla tua mercé". 
Così ci ritroviamo ipnotizzati, in viaggio su quella linea 96 diretta a Rue des Lilas e poi storditi dal rumore sordo della graduale follia; ascoltiamo, anche noi, nutrendoci soprattutto del corpo di Mimì/Emmanuele, dipinto da penetrare e scultura da adorare. Dal suo sguardo partono i fili invisibili che muovono i burattini che le stanno intorno, cadaveri in decomposizione pronti a risorgere in preghiera davanti alla Dea vendicatrice.
​ 
Immersi tra le fauci del peccato scandagliamo con Polanski i recessi della vanità umana, glorificando l'acre sapore della rivalsa. Il mondo là fuori non ci interessa più. C'è soltanto una nave, e ci sono una scacchiera di carne, una camera oscura, un involucro di calda pelle da leccare e consumare, un rasoio tagliente, un limite che tale più non è.

​Sono tuo, adesso. Devo essere umiliato, ancora e ancora. Me lo merito. Fammi male, Mimì.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Special Roman Polanski


Scheda tecnica

Titolo originale: Bitter Moon
Anno: 1992
Durata: 138'
Regia: Roman Polanski
Soggetto: Pascal Bruckner (romanzo)
Sceneggiatura: Roman Polanski, Gérard Brach, John Brownjohn
Fotografia: Tonino Delli Colli
Montaggio: Hervé de Luze
Musiche: Vangelis
Attori: Hugh Grant, Kristin Scott Thomas, Emmanuelle Seigner, Peter Coyote

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IL COLTELLO NELL'ACQUA - Tensioni sopite

12/11/2013

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«Ci sarà qualcosa, più tardi, che si riempie di te e si alza a una bocca. Dal delirio frantumato mi sollevo e guardo la mia mano, come traccia il solo unico cerchio.»

(Paul Celan, da Zeitgehöft. Späte Gedichte aus dem Nachlass, 1976)

In un nero vinilico, tra larghe pennellate di grigi corposi e stratificati, si delineano due figure, un uomo e una donna, marito e moglie; in sottofondo scorrono le note gelide di un sassofono, il jazz di Komeda, che introduce lo spettatore nell’algida atmosfera di Il Coltello nell’acqua. Corpi vicini, avvolti da glaciali silenzi, volti che si palesano lentamente emergendo dall’oscurità; da subito si avverte una forte tensione psicologica, sottolineata dal mutismo e dallo stridere delle note in sottofondo. Una quiete apparente cela tempeste e uragani, pari a quelle che gonfiano i mari in Snow Storm: Steam-Boat off a Harbour's Mouth (1842) o in The Shipwreck (1805), di Joseph Mallord William Turner.
La tensione affiora dalle prime scene e mette in luce un rapporto di coppia in cui gli equilibri sono palesemente sbilanciati: la supremazia dell’uomo nei confronti della moglie, notevolmente più giovane, è sottolineata da un atteggiamento quasi dittatoriale, riflesso di una dialettica tipica della famiglia medio borghese dei primi anni ‘60. Andrea (Leon Niemczyk), giornalista sportivo, e sua moglie, Cristina (Jolanta Umecka), sono diretti in macchina verso i laghi Masuri; il loro viaggio è inaspettatamente interrotto da un giovane autostoppista (Zygmunt Melanowicz), che trascorrerà con la coppia le successive ventiquattro ore, a bordo del loro yacht.
Lo sguardo di Roman Polanski, in completa dissonanza con quello che era l’orientamento del cinema polacco di quegli anni, preferisce soffermarsi sul rapporto di coppia e focalizza l’attenzione sui corpi, sulle dinamiche psicologiche ed emozionali che si instaurano tra i tre personaggi; traccia i segmenti di un triangolo umano dotato di angoli acuti. Andrea incarna perfettamente lo stereotipo dell’uomo d’affari, rigido, poco incline al dialogo e più propenso al comando e all’impartire ordini, ad imporre la sua superiorità di “maschio” sia nei confronti della moglie che verso il giovane autostoppista, con il quale instaura un rapporto che oscilla tra la competizione e, a tratti, una complicità che stenta a prendere piede. Cristina, giovane e bella, tollera e subisce il carattere del marito e sembra quasi rassegnata alle imposizioni dell’uomo, come si palesa nelle sequenze in cui i due guidano insieme la barca tra le onde del lago; un rapporto quasi militaresco, tra mozzo e capitano. L’arrivo del terzo metterà in luce le problematiche sopite all’interno della coppia: come un coltello che si insinua tra i due squarcerà il velo di Maya, gettando luce su frustrazioni e stati emotivi repressi, spesso taciuti.
Il giovane, come in Teorema di Pasolini, sovverte le regole preesistenti all’interno della coppia, è un elemento esterno affascinante ed anarchico, metafora della libertà e della leggerezza, l’esatto contrario di ciò che rappresenta Andrea. Spesso Polanski lo ritrae, soprattutto nelle sequenze sulla barca, come elemento di spartizione e divisione della coppia, al centro della scena, mentre la sua figura si staglia contro il cielo. La navigazione tra i flutti del lago illumina le identità dei tre, in un crescendo emozionale continuo pronto ad esplodere. L’improvvisa tempesta sancisce il crollo delle barriere e delle sovrastrutture emozionali, la pioggia monda lo strato superficiale delle personalità dei tre e mette a nudo l’Io di ognuno.
Costretti in uno spazio ancora più stretto, nella cabina della barca, il confronto è inevitabile. La mdp si fa più vicina ai due uomini, posti uno di fronte all’altro in un momento ludico; sullo sfondo Cristina si spoglia, l’attenzione del giovane si sposta sulla donna, l’atmosfera sensuale si tinge palesemente di morbosità. I due, così caratterialmente distanti tra loro, sono in competizione anche sul piano sentimentale: il ragazzo è attratto da Cristina, che non disdegna le attenzioni del giovane, l’alternativa anarchica al suo rapporto matrimoniale, colui che forse incarna una seconda possibilità; ma la donna è consapevole che la libertà offertale dal giovane è solo apparente e preferisce vivere nell’ipocrisia di un rapporto abitudinario, algido ma solido. 
I chiaroscuri dipingono la psiche degli unici tre soggetti dell’opera, un triangolo in cui si confrontano tre generazioni distanti, tre psicologie in forte contrasto tra loro, in un gioco ambiguo e sensuale, caratterizzato da tensioni pronte ad esplodere, come accadrà nella seconda parte del film. Il triangolo è la figura perennemente presente in quest’opera, disegnato ora dalla mdp all’interno delle scene, ora più esplicito, come quando, sulla barca, i due uomini si sfidano con il coltello in un gioco: la posizione delle braccia di Andrea disegna un triangolo, all’interno del quale, in lontananza, in un campo profondissimo c’è Cristina che gioca nell’acqua. Il triangolo come la lama del coltello dell’autostoppista o come le vele issate sulla barca, o come, ancora, la sequenza in cui il giovane steso sulla poppa dell’imbarcazione diventa una perfetta metafora geometrica.
L’occhio di Polanski indugia sul rapporto tra uomo e donna, ma soprattutto sulle complicate strutture dell’animo umano; le immagini sono rigide e trasmettono dolore e tensione emotiva, la mdp è ferma, fissa l’immagine come un occhio che non vuole distogliere la propria attenzione in uno spazio dilatato da un campo medio, soffermandosi ora sul paesaggio ora sui personaggi. È la coppia borghese, con la sua ipocrisia e le sue menzogne, al centro dell’analisi polanskiana: il rapporto contaminato dalla finzione non potrebbe vivere se non di questa, la realtà e la verità restano escluse dalle dinamiche matrimoniali di Cristina ed Andrea.
Il coltello nell’acqua è il primo lungometraggio del regista polacco, formatosi presso la Scuola nazionale di cinema di Lodz, che ha preparato un’intera generazione di cineasti come Andrzej Wajda, Jerzy Skolimowski, Krysztof Zanussi. Polanski non indugia, al contrario di quanto fatto dai registi polacchi di quegli anni, come Wajda nel film Cenere e Diamanti (Papiol i diament, 1958), nella messa in scena dell’impegno civile e politico; piuttosto che al realismo predilige rivolgere il proprio sguardo alle dinamiche psicologiche tra gli uomini, in particolare sui rapporti di coppia, elemento che tornerà come costante della sua cinematografia. In Knife in the water si avverte l’influenza dei suoi primi lavori, i cortometraggi realizzati come regista nel suo periodo di studi alla scuola di cinema, come Due uomini e un armadio, 1958 e Quando gli angeli cadono, 1959, così come contiene l’ossatura che caratterizzerà i suoi film successivi.
Le tematiche ossessive del regista si palesano già in questa prima opera: l’acqua, la circolarità, il duellare continuo tra realtà e finzione, la claustrofobia e i rapporti all’interno della coppia. Gli spazi in Il coltello nell’acqua sono sempre più ridotti, si parte dall’abitacolo della macchina alla barca isolata in mezzo al lago, per poi stringersi nel cabinato dell’imbarcazione, e si finisce tornando nuovamente all’interno della macchina per l’ultimo confronto tra Andrea e Cristina, sottolineando la circolarità del tempo e dello spazio e la vittoria dell’ipocrisia matrimoniale. Si avvertono in questo film i rimandi stilistici alle opere che caratterizzarono il cinema della prima metà degli anni Sessanta, da Antonioni alla Nouvelle Vague francese, ma Polanski mantiene un linguaggio autoriale personale. I richiami al linguaggio narrativo ed alla messa in scena di Plein Soleil (1960), di René Clément, si palesano sia nelle continue umiliazioni subite dal giovane da parte del più maturo Andrea sia nell’ambientazione.
Seppur mantenga un approccio strutturale dallo stile rigoroso ed impeccabile, questo primo lungometraggio di Polanski è uno splendido esempio modernista, vicino, per alcuni versi, al cinema hollywoodiano, un esordio impreziosito dalla collaborazione nella stesura della sceneggiatura e nei bellissimi dialoghi di Skolimowski. Un’opera che poggia le fondamenta su una fotografia caratterizzata da un bianco e nero netto, tagliente e molto contrastato, che sottolinea le relazioni oppositive dei tre personaggi.

Mariangela Sansone

Sezione di riferimento: Special Roman Polanski


Scheda tecnica

Titolo originale: Nóż w Wodzie
Anno: 1962
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura: Roman Polanski, Jerzy Skolimowski
Fotografia: Jerzy Lipman
Musiche: Krzyszstof Komeda
Durata: 94’
Interpreti principali: Leon Niemczyk, Jolanta Umecka, Zygmunt Malanowicz

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L'UOMO NELL'OMBRA - Di spettri e verità

12/11/2013

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Dopo la parentesi storica di Il pianista e quella letteraria di Oliver Twist (parentesi solamente nominali, non certamente in termini di qualità), Polanski ritorna a quelle atmosfere noir che hanno contraddistinto buona parte della sua carriera. E lo fa adattando il romanzo The Ghost Writer di Robert Harris, thriller fanta(?)politico che nelle mani del regista polacco si trasforma in un altro enorme tassello sull’irrazionalità del Reale e sull’impossibilità di venire a patti con una sola ed unica verità. 
Protagonista della vicenda è un ghost writer anonimo (infatti per tutto il film non verrà mai chiamato per nome) chiamato a riscrivere la biografia di Adam Lang, ambiguo ex primo ministro inglese. Mentre l’uomo politico viene accusato di crimini contro l’umanità, lo scrittore scopre che dietro la morte del suo predecessore si nasconde un complotto volto a nascondere il coinvolgimento di Lang con la CIA. 
Detto così, L’uomo nell’ombra sembrerebbe un thriller come tanti, figlio di quella letteratura bestseller che, dai vari Harris, John Grisham e compagnia in poi, ha riempito gli scaffali delle librerie e stimolato la fantasia di sceneggiatori e registi. Dietro un canovaccio coinvolgente ma non particolarmente originale, invece, si cela un superbo lavoro di sottrazione che agisce nelle zone d’ombra della Storia, trasformando un’indagine di routine in uno specchio inquietante dei nostri tempi. L’uomo nell’ombra è infatti il perfetto thriller politico della contemporaneità, in cui la verità è talmente a portata di mano da riuscire a non manifestarsi mai; dove è sufficiente una ricerca su google per delineare i contorni di una vicenda torbida della quale nessuno, pare, aveva mai sospettato. 
Zone d’ombra, dicevamo: è appunto l’ombra la parola chiave del film. Come il suo protagonista (“sono la sua ombra”, dice presentandosi ad Adam Lang), tutto il film si muove entro territori astratti ed immateriali. Da un lato c’è l’isola nel quale lo scrittore raggiunge il suo cliente per visionare il manoscritto, un territorio estraneo al resto del mondo (come in La morte e la fanciulla) e costantemente preso d’assalto da pioggia, vento e temporali; un ambiente che Roman Polanski rende magnificamente, sottolineando la claustrofobia degli ambienti e trasformando gli elementi atmosferici nel simbolo della sconfitta dell’Uomo (il giardiniere che cerca ripetutamente di contenere le foglie spazzate via dalla bufera). Dall’altro c’è invece l’universo reale, quello in cui i personaggi hanno compiuto (passato) le azioni delle quali si occupa (presente) il manoscritto che è al centro della vicenda. 
Come in La nona porta, anche qui tutto ruota intorno alla figura di un libro, deus ex-machina in divenire che può essere cancellato e riscritto, manipolato e redatto; oppure, semplicemente, compresso in un file word e inserito in una chiavetta usb, rendendosi invisibile. Così come invisibile (quindi imperscrutabile, incomprensibile) è la verità, un tessuto malleabile impossibile da raggiungere ma che, nel film, viene rappresentata attraverso il linguaggio costituito dalle immagini (le fotografie) e dalla scrittura, ovvero le uniche possibilità di conoscenza in nostro possesso. Come se il mondo e la realtà fossero un eterno fuoricampo, tale semplicemente perché siamo noi che guardiamo dalla parte sbagliata: l’ultima inquadratura è quindi terribilmente esplicativa in tal senso, oltre ad essere un finale magnificamente polanskiano nell’accezione più pura del termine. 
L’uomo nell’ombra riesce quindi nel miracolo di recuperare un genere che ha dato il meglio di sé negli anni Sessanta e Settanta, grazie ai vari Sidney Pollack, Alan J. Pakula e John Frankenheimer, solo per citarne alcuni tra i più significativi, aggiornandolo alle  tendenze e agli stimoli dell’attualità: un noir spettrale appunto perché fatto di ombre e fantasmi, nel quale tutto è già successo e in cui cercare di venirne a capo implica, inesorabilmente, pagarne le terribili conseguenze. 

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Special Roman Polanski


Scheda tecnica

Titolo originale: The Ghost Writer
Anno: 2010
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura: Roman Polanski e Robert Harris
Fotografia: Pawel Edelman
Musiche: Alexandre Desplat 
Durata: 124’
Interpreti principali: Ewan McGregor, Pierce Brosnan, Olivia Wiliams, Tom Wilkinson, James Belushi

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L'INQUILINO DEL TERZO PIANO - Ossessione sovrana

10/11/2013

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Il clarinetto spensierato di Philippe Sarde ci guida lungo la facciata di un palazzo anonimo, ombre indistinte spiano dietro le finestre: sarà il viso grassoccio e inespressivo della portinaia (Shelley Winters) a darci il benvenuto. Scivoliamo in un pezzetto di Francia permeato da un grigiore antichissimo: un palazzo squallido, opprimente, tutto carta da parati e legno scuro. Il timido archivista Trelkosky chiede di vedere un appartamento e la portinaia ride. “L’inquilina che c’era prima si è gettata dalla finestra, si vede ancora dove è caduta”. Questo è il preambolo di un visionario viaggio oltre il concetto d’identità.
I sinistri visi stuccati di cipria che sbirciano dalle fessure delle porte, l’immobilità dei caratteri di quei condomini che paiono sprezzanti marionette inchiodate al palazzo, il genio letterario di Roland Topor che diventa scena. Polanski, nei panni del protagonista, è impacciato, farfuglia e si tortura le mani, piomba al centro dell’alveare e ne diventa schiavo. Vuole vivere lì, nel misero appartamento dove viveva Simone Chule, la sconosciuta che ha aperto la finestra rincorrendo la morte e ora la affronta dal letto di ospedale. Dicono che non si riprenderà ma Trelkosky, prima di occupare la sua casa, desidera vederla. E non soltanto: sta per conoscerla attraverso piccole orme, spilli e briciole, piccolezze che la ricordano e popolano ancora le stanze. Incontra l’amica Stella (Isabelle Adjani), giovane bellezza trasandata e di gusto ricercato, psichedelica e umorale. I due si confrontano al tavolo di un bar: parlano del tentato suicidio di quella Simone che ora è bendata come una mummia in un gelido letto d’ospedale, Trelkosky finge di conoscerla e indaga. C’è una febbrile attesa di morte e una tagliente paura della stessa: Simone vive fra loro indisturbata, è un fantasma dalle mani rapaci, li avvicina in qualche palpeggiamento nella sala di un cinema, li allontana e torna ad essere l’alone misterioso dentro un cassetto.
Un giorno, poi, Simone muore.
L’appartamento tetro e maculato, di un verde fastidioso che offende lo sguardo, diventa il nido opprimente di Trelkosky: la ragazza è morta e la casa ora gli appartiene. O forse no. Perché le tracce della suicida s’impigliano a mobili e pareti, hanno la forma sinuosa dei suoi abiti a fiori, sono pezzi di carta e tubature che borbottano. Trelkosky rimbalza da pedina confusa nel gioco di specchi della casa infelice e si sgretola poco alla volta. Tutti, nel vitreo quartiere francese, gli parlano di Simone. Tutti lo trattano come Simone. Lui è goffo e ordinario, indifeso e sfrontato nel seguire da tanto vicino la morte di un’estranea.
La casa è ora pronta a inghiottirlo rivelando strani pertugi nei muri, denti caduti e conservati, la pericolosa vista sulla finestra di un bagno dirimpetto dove minacciosi ritratti montano la guardia ogni sera. Anche il silenzio comincia a ruggire: nel palazzo non si ammettono suoni o tintinni, Trelkosky vive immerso in un mutismo sincopato e timoroso dove uno scricchiolio può costargli la ramanzina del padrone di casa. Pulsa, vive, respira, perseguita, quel palazzo: ha gli occhi e ci sente benissimo.
L’eroe patetico subisce la pressione dei vincenti dell’esterno. Tutti sono migliori di lui. Al contempo la casa lo spinge verso Simone col sottofondo di memorie raccontate da chi l’ha sfiorata, seppure per un attimo.
Capolavoro magnetico del grande regista e sua ottima prova come attore, nel ruolo della vittima arruffata e traballante sull’orlo della pazzia, strapazzato dai sentimenti di rivalsa che alimentano il suo mostro segreto. La facciata del palazzo è tanto solida quanto le apparenze degli inquilini, malcelato gruppo di sadici dispettosi dove spicca un triste bocciolo di nome Eva Ionesco. Le regole ferree tolgono il respiro al piccolo francese naturalizzato dall’accento ancora così irrimediabilmente polacco. L’Egitto, con i suoi misteri e i suoi simboli, è indecifrabile strascico del passaggio di Simone. Lei, senza volto e senza onore, diventa il pilastro sul quale Polanski posa un mattone dopo l’altro: così sfuggente alle definizioni, ma onnipresente con la sua essenza nera e densa, maligna e necessaria. Interni deprimenti dove Trelkosky si infila da discreto abitante, da minuscolo osservatore incauto. 
Infine egli è la disperata summa delle farneticazioni, il giocattolo inutile di un’ossessione sovrana. Sarà l’appartamento a vincere, come nella tradizione delle infide “case parlanti” di Roman Polanski: edifici scolpiti nell’odio e tappezzati di brutti segreti, claustrofobici come la mente di chi li vive, di chi si immola per loro. Popolati, poi, da belve che si avvicendano al portone di casa presentandosi a malapena, invadendo senza pietà, spolpando la carcassa dei deboli. Nuove identità che si insinuano nei rassegnati perdenti e ripetono un disegno superiore. Il dentro, oscuro. Il fuori, ostile.
Per questo Polanski allucinato ed esoterico, la diversità è una condanna a morte e la propria mente è sempre la peggiore nemica.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Special Roman Polanski


Scheda tecnica

Titolo originale: Le Locataire
Anno: 1976
Durata: 125'
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura: Roman Polanski, Gérard Brach (da un romanzo di Roland Topor)
Fotografia: Sven Nykvist
Musiche: Hubert Rostaing
Attori: Roman Polanski, Isabelle Adjani, Melvyn Douglas, Jo Van Fleet, Shelley Winters

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CUL DE SAC - L'oasi dell'assurdo

9/11/2013

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Un gangster ferito e il suo socio giungono in un castello isolato a intervalli regolari dall’alta marea, nel quale vive una giovane coppia lontana dal mondo civilizzato, sospesa in un ambiente simile a un limbo dalle atmosfere schizoidi. Fuori di testa, ma anche fuori da tutto il resto. È il perfetto setting per il cul-de-sac del titolo, espressione francofona divenuta proverbiale in più lingue per indagare un incubo grottesco senza apparente via d’uscita, imprigionato entro i margini paranoici dell’ossessione e della distorsione di ogni buon senso.
Cul de sac, spesso relegato a torto tra i film minori di Roman Polanski quando si tratta invece di una delle sue opere stilisticamente più personali e memorabili, restituisce tale claustrofobia cui è stata troncata ogni ipotizzabile via di fuga, per mezzo di una messa in scena di notevole maestria: i primi piani in contrapposizione ai campi lunghi sono un contrasto fortissimo che risplende di luce propria in tutto il primo Polanski (Il coltello nell’acqua, di fatto, è uno dei più grandi teoremi moderni sulla nascita della tensione in rapporto allo spazio) e che qui trova il suo massimo compimento. Elevando tutto il film a summa geometrica e inarrivabile punta di diamante di tutta la prima parte di carriera del regista polacco.
Difficile immaginare un altro film tanto lucido nella farsa e nella resa dei suoi sottotesti, così spiazzante ed estasiante nella denigrazione a tutto campo, emblema decadente e probabilmente già decaduto dell’eclissi terminale di una borghesia ridotta a fantoccio, a vespaio di nevrosi e aggressioni. Lo spirito anarchico di Cul de sac, visto oggi, somiglia a una voragine di cinismo cupo e distruttivo non scalfito dal tempo. L’ironia vi penetra, certo, ma a dosi minime, dosate col contagocce di un termometro surreale esigente, sorretto dalla necessità di dover reggere sulle proprie spalle la pericolante instabilità di un castello di carte che può oscillare ma non cadere, costretto a rimanere in piedi anche se una dissoluzione definitiva sarebbe forse preferibile. Più sana, più assoluta, più compiuta. L’ambientazione in una struttura d’impronta medievale ingigantisce allora il mistero ma anche le possibili chiavi di lettura, tutte rigorosamente virate verso una visione folle dei rapporti umani e del modo in cui essi si articolano.
La risata libera, il calcio nelle parti basse, la facile crudeltà bambinesca che imbraccia un fucile e con un dito può cambiare il mondo così come l’ha sempre visto e pensato fino a quel momento con i suoi occhi innocenti. Cul de sac potrebbe anche essere abitato da fantasmi ma non se ne accorgerebbe quasi nessuno, perché i personaggi sono congegnati con una tale forza e una profondità tutta concreta che neanche l’astrazione più impensabile potrebbe abiurare lo zolfo in cui appaiono immersi fino al collo.
Il sonoro ancheggiante e perturbante, che sembra quasi una comica della Pantera Rosa riletta in chiave enigmatica (l’andamento felpato è lo stesso), un rapporto schiavo-padrone fecondo e complesso (degno di Vladimiro ed Estragone, nel film più beckettiano di Polanski, il che è tutto dire…) e la pelata iconica di Donald Pleasance contribuiscono alla riuscita di una sensazionale oasi dell’assurdo, manifesto cardine di un cinema che per molti versi devasta le non-convenzioni, le assottiglia e le riformula, svelando il lato più macabro e temibile del non senso.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Special Roman Polanski


Scheda tecnica

Titolo originale: Cul de sac
Anno: 1966
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura: Gérard Brach, Roman Polanski
Fotografia: Gilbert Taylor
Musiche: Krzysztof Komeda
Durata: 111'
Attori principali: Donald Pleasence, Françoise Dorléac, Lionel Stander, Jack MacGowran

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OLIVER TWIST - Lo stereotipo di Dickens

5/11/2013

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Charles Dickens è stato saccheggiato dal mondo del cinema e della televisione. Eppure, la sua opera letteraria continua a trovare nuove e rinnovate trasposizioni, tra piccolo e grande schermo, come se tutti noi avessimo bisogno permanente di piccole grandi storie di umanità.
Oliver Twist giunge nella filmografia di Roman Polanski a poca distanza dai fasti de Il pianista, una scelta solo in apparenza incongrua rispetto al percorso artistico del regista, in quanto arriva a chiudere idealmente il cerchio attorno alla povera gente, buona e gravata dal destino. Personaggi in cerca di riscatto e di speranza.
È così che i piccoli eroi di Dickens diventano, nelle mani di Polanski, la materia e il soggetto di un dramma che punta sulla narrazione, sull’ensemble, sul contesto storico, insomma sull’insieme piuttosto che sui singoli personaggi. Oliver Twist è lo straordinario protagonista di una delle storie più famose di Charles Dickens, quasi la summa della sua poetica, del suo pensiero, del suo mondo letterario. Oliver (Barney Clarke), povero orfanello nell’Inghilterra ottocentesca, affronta ogni sorta di eventi, sfide e difficoltà. Cresciuto in orfanotrofio (come tutti gli orfani dal sistema, afferma J. Ain-Krupa), passa di mano in mano come un pacchetto di poco conto, scappa, viene ripreso, trova conforto, poi viene nuovamente rapito, sottratto continuamente a un destino di felicità che ritarda soltanto il suo compimento.
Sulla strada di questo magnifico ed emozionante racconto di formazione, Oliver cade tra le grinfie del vecchio Fagin (Ben Kingsley), che gli insegna –si fa per dire- l’arte di arrangiarsi e vivere di espedienti, e poi viene fagocitato dall’anima nera di Bill Sykes (Jamie Foreman). Bill è il cattivo per antonomasia nella narrativa dickensiana, un losco figuro cui non si concede il dono della redenzione, ma solo la compassione per la cecità di non saper cogliere neppure l’affetto della giovane Nancy (Leanne Rowe). Ma il mondo è fondamentalmente buono, e le persone sono votate al bene. Le difficoltà della vita rendono più dolce e duratura la felicità.
Roman Polanski segue fedelmente il romanzo, non guarda nemmeno ai precedenti e illustri adattamenti dell’opera, e di certo non ha alcun interesse nel ripercorrere le note musicali dell’Oliver! di Lionel Bart, la cui trasposizione cinematografica fruttò nel 1968 al film una cascata di Oscar e un premio anche al regista Carol Reed. Rimane impareggiabile per tocco, cultura, atmosfere e rievocazione letteraria la riduzione diretta da David Lean nel 1948; quasi sessant’anni dopo, comunque, questa nuova versione, non indispensabile ma interessante, ci riporta a confronto con un testo immortale e ahinoi ancora attuale. Il mondo vissuto – più che visto – dai bambini, in una prospettiva che l’occhio cinematografico dell'autore fotografa spogliandolo di qualsiasi leggerezza, di qualsiasi intonazione fiabesca. 
Polanski ci mostra l’altra parte di mondo, quello diviso in classi, quello dei poveri e dei borghesi, quel sottobosco di povera gente che non è nata cattiva ma è stata forzata dagli eventi e dalla mancanza di speranza a trovare il modo di arrangiarsi. In mezzo al caos di una società sulla via dell’industrializzazione, metà rurale metà urbana, di gente con i calli alle mani e gli abiti rammendati, i bambini abbandonati non hanno il tempo di crescere. Niente favole della buonanotte, biscotti caldi, abiti puliti. Niente scuola, nessuna educazione. La strada ti educa, è in essa e ad essa che devi sopravvivere e farti uomo. Solo, non come Bill. Prendi un po’ dell’amore di Nancy, creatura sfortunata ma non perduta. Cerca la tua casa, cogli il buono che trovi dagli incontri del destino e dall’aiuto amorevole degli sconosciuti, e guarda al futuro. Sopravvivi, cresci, spera.
Il film di Polanski si distingue dalle tradizionali trasposizioni di Dickens per il fatto di rendere Oliver Twist un dramma vero, quasi sociale, quello dei piccoli che avrebbero diritto a crescere bene e a contare sul calore di una famiglia, non importa quale. La ricerca d’affetto, con o senza esito, è un tema attorno al quale il film ricama senza mai diventare sentimentale. Nancy non canterà mai «As long as he needs me», e lo spettatore non deve pensare di aspettarsi gli equilibri tra commedia e dramma, che sono invece una costante della letteratura dickensiana e dei suoi adattamenti per il cinema e la televisione. È caratteristica peculiare di Polanski trattare i soggetti cinematografici e rappresentarli in modo realistico, anche se non attraverso la lente del realismo. 
In questa cornice meno dickensiana e più storica ha quindi valore l’impeccabile allestimento, e assume un senso la scelta di affidare ad attori più teatrali che cinematografici (con l’eccezione di Ben Kingsley, ben nascosto dietro la maschera di Fagin) una galleria di personaggi già resi indelebili dalla penna del loro creatore. Non ci sono stelle. Solo la storia. 

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Special Roman Polanski


Scheda tecnica

Titolo originale: Oliver Twist
Regia: Roman Polanski
Attori: Ben Kingsley, Jamie Foreman, Barney Clark, Harry Eden, Leanne Rowe, Edward Hardwicke, Mark Strong
Sceneggiatura: Ronald Harwood
Colonna sonora: Rachel Portman
Fotografia: Pawel Edelman
Scenografia: Allan Starski
Durata: 130'
Anno: 2005

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CHINATOWN - L'ineluttabilità del male

4/11/2013

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Correva l’anno 1974 quando Roman Polanski diresse Chinatown, il suo ottavo lungometraggio nonché l’ultimo realizzato negli Stati Uniti, a causa delle note vicende legate all’accusa per violenza carnale che nel 1977 lo costrinse ad una fuga precipitosa a Londra per poi trasferirsi a Parigi senza fare più ritorno Oltreoceano. 
Los Angeles, 1937. Il detective privato ed ex poliziotto J.J. Gittes viene incaricato da una donna che si presenta come la signora Mulwray d’investigare sulla presunta infedeltà del marito, un ingegnere a capo del Dipartimento per l’acqua di Los Angeles. Ben presto viene a sapere di essere stato raggirato, dal momento che la vera signora Mulwray non l’ha mai ingaggiato per pedinare il marito, trovato morto pochi giorni dopo. Deciso a venire a capo di quest’intrigo inizia a investigare, fino a scoprire un enorme caso di corruzione pubblica e una scabrosa e terrificante vicenda privata.
Polanski rende omaggio al cinema noir, nato negli Stati Uniti all’inizio degli anni ’40, con un film di grande atmosfera, forte di un’accurata e minuziosa ricostruzione d’ambienti. Con uno stile classico ma al contempo personalissimo il cineasta di origini polacche mette in scena un’opera dalla trama fitta e intricata, ben sorretta dalla sceneggiatura di ferro di Robert Towne. In Chinatown la regia è puntuale, semplice e pulita, al servizio della storia, senza sterili virtuosismi o inutili barocchismi. 
L’universo descritto da Polanski, che si ritaglia un breve cameo nei panni di un piccolo malvivente, è quello tipico della miglior tradizione del genere noir, con un investigatore privato - ironico, cinico e disilluso - al centro dell’azione. Ad interpretarlo, ennesimo punto di forza del film, un Jack Nicholson in gran forma, dal perenne sorriso strafottente e insofferente a ogni forma di abuso di potere. Il suo personaggio si muove in un mondo ancor più spietato e malvagio di quello rappresentato nella maggior parte dei film che hanno reso immortale questo particolare genere cinematografico. Infatti, seppur imbevuto di alcuni gustosi siparietti ironici dove l’istrionismo di Nicholson dà il meglio di sé, Chinatown mette in scena il male assoluto, radicato in profondità nella società sia a livello politico-istituzionale sia a livello familiare, dove si annida l’orrore più indicibile. 
Polanski si prende tutto il tempo necessario per dipanare gli eventi in maniera graduale ma inarrestabile, creando un’atmosfera di grande suggestione e provocando un forte impatto emotivo nello spettatore fino a deflagrare nello straziante e indimenticabile epilogo. Un finale tragico e disperato, ambientato a Chinatown, luogo in precedenza solo evocato in un paio di dialoghi da Gittes per averci lavorato in veste di poliziotto e che si ripresenta in maniera ineluttabile al protagonista. D'altronde in un mondo dominato dalla corruzione, vista e accettata dai più come se fosse una cosa normalissima, non può esserci alcuna salvezza né via di fuga, ed è del tutto inutile provare a lottare e a opporsi. Meglio quindi lasciare stare, come ricorda uno dei suoi soci a Gittes: “lascia perdere Jack. È Chinatown.” Un finale cupo, amaro e privo di speranza, fortissimamente voluto da Polanski che dovette discutere con lo sceneggiatore Robert Towne, il quale invece avrebbe preferito un happy ending.
A impreziosire ulteriormente questo capolavoro del neo-noir ci pensa un cast in stato di grazia, dove accanto a un gigantesco Jack Nicholson troviamo una sensuale ed elegante Faye Dunaway, algida e distaccata in superfice ma terribilmente fragile, dolente e sofferente nel profondo e un mefistofelico e ambiguo John Houston, in un ruolo a dir poco sgradevole e mostruoso. Perfetto il commento sonoro di Jerry Goldsmith, che rimanda ad atmosfere tipicamente chandleriane. 
Insieme a Rosemary’s Baby, Chinatown è stato il più grande successo commerciale per il regista polacco in terra americana (nel 1975 venne candidato a ben undici Oscar, portandosi a casa solo il premio per la miglior sceneggiatura), e resta a tutt’oggi uno dei suoi film più belli, compiuti e riusciti a livello artistico.

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Special Roman Polanski


Scheda tecnica

Titolo originale: Chinatown
Anno: 1974
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura: Robert Towne
Fotografia: John A. Alonzo
Musiche: Jerry Goldsmith
Durata: 130’
Attori principali: Jack Nicholson, Faye Dunaway, John Huston

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IL PIANISTA - La sopravvivenza di una nazione

1/11/2013

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Il film storico sulla Seconda Guerra Mondiale si è sempre tendenzialmente orientato a raccontare due aspetti: da un lato la guerra, con le sue strategie, le battaglie, la politica e lo scacchiere internazionale; dall’altro l’Olocausto, con le biografie importanti di piccoli grandi eroi del nostro tempo, segnati dall’orrore della deportazione e del genocidio. 
L’impegno culturale del cinema di mantenere viva la memoria collettiva non è mai venuto meno, e ogni volta che un cineasta decide di affrontare uno di questi delicatissimi temi l’attenzione è alta. E il rischio pure. Laddove sembrava che Schindler’s List avesse posto in qualche modo una parola definitiva sulla rappresentazione cinematografica dell’Olocausto, Roman Polanski ne ha colto una diversa prospettiva, non meno raffinata anche se meno ambiziosa, ma più empatica.
Il pianista è Wladyslaw Szpilman (Adrien Brody), ebreo polacco fiero delle proprie origini. Conduce una vita ordinaria, la cui straordinarietà è data dal dono della musica. Szpilman è un pianista magnifico, eppure vive anche questo suo talento con timidezza e modestia. Sullo sfondo, i venti di guerra, che diventano un uragano con l’occupazione tedesca. Miracolosamente scampato alla deportazione, Szpilman comincia una fuga disperata tra i buchi più scuri di Varsavia, nascondendosi ora in un luogo, ora in un altro, una notte sotto le tavole di un pavimento, l’altra sui tetti, dentro i soffitti. Intanto il tempo passa, e lui osserva dalla sua prospettiva stretta e distorta il degenerare della guerra, la morte, la distruzione. Szpilman è l’occhio del sopravvissuto e il peso della colpa di chi non soccombe, un giovane uomo che si riduce a uno scheletro ma tiene alta la sua dignità di essere umano. È la memoria. Ed è la memoria che impariamo come spettatori, anche noi studenti di storia, dalla finestra angusta della fuga del protagonista, tra le sbarre della libertà.
Il racconto dell’odissea di Wladyslaw Szpilman nella Varsavia dell’occupazione nazista non è solo la biografia di un grande pianista che grazie alla musica riesce letteralmente a salvare la propria vita, ma è il racconto di una nazione. Szpilman è solo un uomo, ed è un uomo solo, protagonista assoluto e solitario per oltre due ore, e proprio perché stretto e isolato come unico abitante di un paese senza più umanità intatta, finisce con il rappresentare il dolore, la pena e lo spirito di sopravvivenza di un intero popolo. Szpilman lo incarna, anche se di corporeità ne rimane veramente un filo nell’esile figura di Adrien Brody, qui nella prova della vita. Raffigurare il personaggio diventa limare le forme e privarsi della fisicità naturale dell’attore per recuperare invece la sensibilità, l’empatia, i sensi, senza mai perdere, ma anzi mantenendo costante e viva, la dignità. Ogni gesto di Szpilman è il movimento fiero della collettività assente, martoriata, della città distrutta, cancellata e ridotta in polvere. Ma è anche il film nella sua completezza a riconnettersi con l’idea più alta di umanità e di compassione, e anche di speranza, quando la salvezza passa dal cuore di un uomo che sta solo dal lato opposto della barricata, ma che può sentire, e commuoversi, anche solo per una nota di pianoforte.
Polanski non gioca con la retorica, né con la manipolazione delle emozioni. Il pianista rappresenta tuttavia una prova catartica per lo spettatore, ma è una catarsi anche per il regista, che a settant’anni si cimenta per la prima volta con il cinema di impegno civile e anche con la propria storia personale. Parlare degli altri per parlare di sé. Polanski si consegna al pubblico e alla cinematografia con la sua opera dal linguaggio più universale, accolta con tre Oscar e con la Palma d'Oro a Cannes.
Roman Polanski gestisce l’ambiente del film come un grande palcoscenico ricco di elementi, oggetti, persone, simboli. Abbiamo Varsavia. Abbiamo la famiglia di Szpilman. La città. Le strade. Le voci della gente, la musica, gli abiti delle belle ragazze, il tempo delle fantasie romantiche, il gusto delle illusioni. Poi l’avvento nazista. La famiglia, via. Varsavia, sparita. Le ragazze diventano donne provate e severe, dilaniate dalla pena o vendute al partito di Hitler. In mezzo alle perdite, in mezzo agli elementi di cui Polanski ci priva come una progressiva sottrazione di sicurezze, sta Szpilman, colui che era un pianista e che conserva comunque quel tocco poetico, struggente e umano anche di fronte alle atrocità.
L'autore toglie tutto alla scena, e paradossalmente la riempie. Diventa addirittura claustrofobico quando getta il suo protagonista - e con lui la macchina da presa - negli angoli più remoti della Varsavia chiusa a chiave, ridotta a un osso. Ma quando ci apre la vista su ciò che rimane, e tutto è mucchi di cenere e rovine accatastate qua e là, il respiro si spezza. La guerra ha stilizzato il paesaggio, il deserto, il presente senza orizzonte. Ma l’immagine parla, fissa, alle nostre coscienze.  

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Special Roman Polanski


Scheda tecnica

Titolo originale: The Pianist
Anno: 2002
Regia: Roman Polanski
Attori: Adrien Brody, Emilia Fox, Thomas Kretschmann, Michal Zebrowski
Sceneggiatura: Ronald Harwood
Fotografia: Paweł Edelman
Musica: Wojciech Kilar
Scenografia: Allan Starski
Durata: 150 min.

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