Venere in pelliccia conferma lo smagliante stato di forma di Roman Polanski, che a ottant’anni suonati ci regala uno dei suoi film più eleganti e complessi a partire da una pièce di David Ives, tratta a sua volta dal celebre testo originale di Leopold von Sacher-Masoch, che il regista di Repulsion ammette però candidamente di non aver letto per intero (solo una manciata di pagine) né tantomeno sopportato, trovandolo noioso e lontano dal suo interesse. Ha preferito ripiegare sulla dinamicità claustrofobica dell’adattamento per il palcoscenico, ben più stimolante per le sue corde di autore avvezzo a riflettere sulle chiusure, le coercizioni, i restringimenti e tutte le componenti ancestrali e paranoiche che vi sono connessi.
Pane per i suoi denti, dunque: a creare la gabbia, o per meglio dire il fitto, opprimente corridoio dal tentacolare senso del tatto in questo caso è proprio il continuo alternarsi tra teatro e vita, tra finzione e realtà. Una polarità che si viene a sovrapporre con quella che s’instaura tra i personaggi, splendidamente rinchiusi in un susseguirsi di diatribe e schermaglie, tra guèpiere e copioni da migliorare, scambi di ruolo e avvinghiamenti al tango macabro di una seduzione che non conosce limiti e barriere.
Venere in pelliccia è un film percorso da una febbre, da una frenesia tangibile ed epiteliale. È il masochismo, anch’esso come concetto generico, a guardarsi allo specchio riconoscendo il proprio volto, con lo sguardo vigile di Polanski che sghignazza sotto i baffi, che monta e rimonta, modella e amplifica, ridicolizza e gigioneggia sornione. In quello che è anche e non secondariamente un atto d’amore campale alla sensualità del corpo della moglie Emmanuelle Seigner, il regista polacco inscena quella che - ebbene sì - potrebbe perfino sembrare una parodia, come egli stesso non ha mancato di evidenziare, capace di tenere testa ai suoi obiettivi mettendosi in dubbio e negando in più momenti la sua effettiva veridicità, in un calembour sulfureo di metateatro che coincide con la magnifica rivalsa conclusiva non diciamo di quale delle due parti. Un finale che in parte scardina e contraddice l’acchittata tenitura del resto del film nel suo barocchismo fuori fuoco e fuori misura, sostanziando tuttavia la portata politica del racconto erotico, tra cactus che diventano simboli fallici e immersioni profonde nei luoghi tematici più celebri del teatro euripideo.
“E l’onnipotente lo colpì, e lo consegnò nelle mani di una donna”. Questa l’epigrafe d’apertura, a suggerire una maledizione di sicuro pregressa, a lasciare pochi dubbi sulla risoluzione. Polanski la fa sua anche per bearsi delle ripetute unghiate inflitte alla figura del regista presunto onnipotente, qui ben lontano dall’essere un padreterno che tutto sa e tutto può, messo alla berlina oltre che sfiduciato, fatto a pezzi in quel suo caschetto così dannatamente vicino al se stesso degli esordi, specie quello de L’inquilino del terzo piano.
Venere in pelliccia, se ci si pensa, ha luogo nello stesso spazio evanescente di quel film, pronto a dissolversi sotto i colpi di un cerebralismo nient’affatto di confezione, che trova nella veste del film-cervello aulico (un’opera che “venderebbe l’anima per un’allitterazione”) la sua più solida e destabilizzata idea di messa in scena, simile a una frizzante sciarada in cui è l’uomo a creare il Frankenstein di una donna ribelle, emancipata, eversiva rispetto a ogni forma di controllo. Che si proceda con la guerra dei sessi, allora. Ad armi pari, ma anche no, com’è giusto che sia.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Special Roman Polanski, Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: La Vénus à la fourrure
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura: David Ives e Roman Polanski, tratta dalla pièce Venus in Fur di David Ives
Attori: Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric
Fotografia: Pawel Edelman
Montaggio: Margot Meynier, Hervé de Luze
Musiche: Alexandre Desplat
Anno: 2013
Durata: 96’