L’impegno culturale del cinema di mantenere viva la memoria collettiva non è mai venuto meno, e ogni volta che un cineasta decide di affrontare uno di questi delicatissimi temi l’attenzione è alta. E il rischio pure. Laddove sembrava che Schindler’s List avesse posto in qualche modo una parola definitiva sulla rappresentazione cinematografica dell’Olocausto, Roman Polanski ne ha colto una diversa prospettiva, non meno raffinata anche se meno ambiziosa, ma più empatica.
Il pianista è Wladyslaw Szpilman (Adrien Brody), ebreo polacco fiero delle proprie origini. Conduce una vita ordinaria, la cui straordinarietà è data dal dono della musica. Szpilman è un pianista magnifico, eppure vive anche questo suo talento con timidezza e modestia. Sullo sfondo, i venti di guerra, che diventano un uragano con l’occupazione tedesca. Miracolosamente scampato alla deportazione, Szpilman comincia una fuga disperata tra i buchi più scuri di Varsavia, nascondendosi ora in un luogo, ora in un altro, una notte sotto le tavole di un pavimento, l’altra sui tetti, dentro i soffitti. Intanto il tempo passa, e lui osserva dalla sua prospettiva stretta e distorta il degenerare della guerra, la morte, la distruzione. Szpilman è l’occhio del sopravvissuto e il peso della colpa di chi non soccombe, un giovane uomo che si riduce a uno scheletro ma tiene alta la sua dignità di essere umano. È la memoria. Ed è la memoria che impariamo come spettatori, anche noi studenti di storia, dalla finestra angusta della fuga del protagonista, tra le sbarre della libertà.
Il racconto dell’odissea di Wladyslaw Szpilman nella Varsavia dell’occupazione nazista non è solo la biografia di un grande pianista che grazie alla musica riesce letteralmente a salvare la propria vita, ma è il racconto di una nazione. Szpilman è solo un uomo, ed è un uomo solo, protagonista assoluto e solitario per oltre due ore, e proprio perché stretto e isolato come unico abitante di un paese senza più umanità intatta, finisce con il rappresentare il dolore, la pena e lo spirito di sopravvivenza di un intero popolo. Szpilman lo incarna, anche se di corporeità ne rimane veramente un filo nell’esile figura di Adrien Brody, qui nella prova della vita. Raffigurare il personaggio diventa limare le forme e privarsi della fisicità naturale dell’attore per recuperare invece la sensibilità, l’empatia, i sensi, senza mai perdere, ma anzi mantenendo costante e viva, la dignità. Ogni gesto di Szpilman è il movimento fiero della collettività assente, martoriata, della città distrutta, cancellata e ridotta in polvere. Ma è anche il film nella sua completezza a riconnettersi con l’idea più alta di umanità e di compassione, e anche di speranza, quando la salvezza passa dal cuore di un uomo che sta solo dal lato opposto della barricata, ma che può sentire, e commuoversi, anche solo per una nota di pianoforte.
Polanski non gioca con la retorica, né con la manipolazione delle emozioni. Il pianista rappresenta tuttavia una prova catartica per lo spettatore, ma è una catarsi anche per il regista, che a settant’anni si cimenta per la prima volta con il cinema di impegno civile e anche con la propria storia personale. Parlare degli altri per parlare di sé. Polanski si consegna al pubblico e alla cinematografia con la sua opera dal linguaggio più universale, accolta con tre Oscar e con la Palma d'Oro a Cannes.
Roman Polanski gestisce l’ambiente del film come un grande palcoscenico ricco di elementi, oggetti, persone, simboli. Abbiamo Varsavia. Abbiamo la famiglia di Szpilman. La città. Le strade. Le voci della gente, la musica, gli abiti delle belle ragazze, il tempo delle fantasie romantiche, il gusto delle illusioni. Poi l’avvento nazista. La famiglia, via. Varsavia, sparita. Le ragazze diventano donne provate e severe, dilaniate dalla pena o vendute al partito di Hitler. In mezzo alle perdite, in mezzo agli elementi di cui Polanski ci priva come una progressiva sottrazione di sicurezze, sta Szpilman, colui che era un pianista e che conserva comunque quel tocco poetico, struggente e umano anche di fronte alle atrocità.
L'autore toglie tutto alla scena, e paradossalmente la riempie. Diventa addirittura claustrofobico quando getta il suo protagonista - e con lui la macchina da presa - negli angoli più remoti della Varsavia chiusa a chiave, ridotta a un osso. Ma quando ci apre la vista su ciò che rimane, e tutto è mucchi di cenere e rovine accatastate qua e là, il respiro si spezza. La guerra ha stilizzato il paesaggio, il deserto, il presente senza orizzonte. Ma l’immagine parla, fissa, alle nostre coscienze.
Francesca Borrione
Sezione di riferimento: Special Roman Polanski
Scheda tecnica
Titolo originale: The Pianist
Anno: 2002
Regia: Roman Polanski
Attori: Adrien Brody, Emilia Fox, Thomas Kretschmann, Michal Zebrowski
Sceneggiatura: Ronald Harwood
Fotografia: Paweł Edelman
Musica: Wojciech Kilar
Scenografia: Allan Starski
Durata: 150 min.
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