Ciò che ha fatto di Werner Herzog uno dei più grandi registi (e documentaristi) del suo/nostro tempo è senza ombra di dubbio la sfrontatezza e l’assenza di barriere ideologiche, l’ardore nello spingersi ai confini del mondo e la fame di visioni che suonassero inedite, a loro modo scioccanti, in qualche modo sempre e comunque non conciliate. Con alla base un’idea sovversiva, uno squarcio sul mondo, una domanda abissale, una provocazione di qualsiasi genere. Un filo rosso che lega tutti i suoi lavori e che ha contribuito a illuminare la strada creativa di un cineasta unico e oggi più indispensabile che mai, puntualmente al suo posto a sorprenderci tutti ogni volta, con i suoi esercizi di libertà sconfinata e la sua ricerca radicale del sublime.
Qui però Herzog esce dalla caverna appena sondata e dai suoi sogni dimenticati, dimentica i primi uomini della storia dell’umanità e si concentra per colmo di polarità su alcune tra le più abbrutite personalità contemporanee che si potrebbero immaginare: i condannati a morte. Un abisso da scrutare nietzschianamente, per un occhio clinico come quello di Herzog, senza paura di un tagliente riflesso di ritorno che costringa regista e spettatori a fare i conti con loro stessi e con i propri lati oscuri più sepolti, con le zone d’ombra che il nostro quotidiano provvede a rimuovere.
Senza paura, Herzog raccoglie la sfida di un doc su degli individui nel braccio della morte e ne fa l’ennesima riflessione antropologica impossibile per chiunque altro; uno spaccato su vite cristallizzate nella dimensione glaciale della custodia che precede un’esecuzione, in cui la percezione già di suo estremamente soggettiva del tempo della vita è ancor più alterata da uno stato psicofisico di sospensione liminale e dalla percezione di un destino segnato. Una dicotomia straziante, esemplificata fin dal sottotitolo “A tale of love. A tale of life”, contrapposizione ossimorica di due universi dialoganti, proposti dall’autore tedesco in una condizione di vicinanza tale da mozzare il respiro.
E poi proprio il respiro stesso della vita, le lacrime, le scelte sbagliate, la preziosità di una qualsiasi esistenza, anche la più turpe: elementi valoriali che in fondo al tunnel tracciano il sentiero lungo il quale ogni cosa è comunque illuminata, a riprova dell’abbagliante umanismo herzoghiano, incrollabile nonostante la sua abitudine a flirtare col nichilismo più nero e sebbene questo, come ha scritto il compianto Roger Ebert, sia il suo film più triste in assoluto, spietato tanto quanto quel Grizzly Man, altro grande capolavoro dell’ultimo Herzog. La cultura criminosa tutta americana della morte indotta è eticamente rifiutata come scelta antiumana, priva di qualsiasi fondamento realistico, figlia di un atteggiamento che negli anni non ha fatto che relegare la compassione e la pietà in spazi sempre più irraggiungibili per l’umana comune portata, contribuendo in prima linea, come molte altre pratiche barbare, allo sfaldarsi dei rapporti di natura tra gli uomini, turbando la loro rasserenata e armoniosa condizione primigenia. Lo sguardo di Herzog, che in Into the Abyss sa assumere anche la clinica asetticità di un referto di polizia, va d’altronde sempre riferito ai primordi dell’esperienza umana su questo pianeta, in fede a una vocazione ancestrale che è categoria intellettuale ed estetica principale, punto di partenza e puntuale, contemporaneo punto d’arrivo.
Un film squassante e destabilizzante, Into the Abyss. Dall’inizio alla fine, da quelle croci con nessun nome sopra ma solo numeri (immagine di potenza inarrivabile) fino all’epilogo. Tra interviste ai parenti e ai poliziotti, le sciagurate vite criminali di Michael Perry e Jason Burkett emergono molto più che in filigrana, avvolgendo lo spettatore nelle loro spire mortifere. Il documentario si snoda come un excursus, un indagine a tappe da investigare scavando oltre la superficie e ancora più a fondo. “The answer is out the door” e di sicuro la risposta non può stare nelle parole dell’ossuto, ghignante ed emaciato Perry o nelle cavità impressionanti dei suoi occhi cerchiati di nero. Così come, al cospetto di tutti quei clangori metallici provocati dai carcerieri che aprono, chiudono e sbattono porte in fuori campo mentre le interviste scorrono, il mondo non può che arrestarsi, silente, a riflettere sulle sue macchie e le sue colpe collettive.
Nessun “glimmer of hope”: l’alba della libertà è adesso anche herzoghianamente lontanissima, come non lo è mai stata. Nessun baluginio all’orizzonte, nessun lampo sfocato, neanche minimo. Resta solo un ultimo, residuale laicismo umanizzato, cui aggrapparsi per non lasciarsi travolgere dal mare cieco della violenza e dell’intolleranza più disumana, una dichiarazione testamentaria da stringere al cuore: “Ti rispetto come essere umano e penso che gli esseri umani non debbano essere uccisi”.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Special Werner Herzog
Scheda tecnica
Titolo originale: Into the Abyss
Anno: 2011
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Fotografia: Peter Zeitlinger
Musiche: Mark Degli Antoni
Durata: 105’
Uscita in Italia: --
Interpreti principali: Werner Herzog, Richard Lopez, Michael Perry, Jason Burkett
Qui però Herzog esce dalla caverna appena sondata e dai suoi sogni dimenticati, dimentica i primi uomini della storia dell’umanità e si concentra per colmo di polarità su alcune tra le più abbrutite personalità contemporanee che si potrebbero immaginare: i condannati a morte. Un abisso da scrutare nietzschianamente, per un occhio clinico come quello di Herzog, senza paura di un tagliente riflesso di ritorno che costringa regista e spettatori a fare i conti con loro stessi e con i propri lati oscuri più sepolti, con le zone d’ombra che il nostro quotidiano provvede a rimuovere.
Senza paura, Herzog raccoglie la sfida di un doc su degli individui nel braccio della morte e ne fa l’ennesima riflessione antropologica impossibile per chiunque altro; uno spaccato su vite cristallizzate nella dimensione glaciale della custodia che precede un’esecuzione, in cui la percezione già di suo estremamente soggettiva del tempo della vita è ancor più alterata da uno stato psicofisico di sospensione liminale e dalla percezione di un destino segnato. Una dicotomia straziante, esemplificata fin dal sottotitolo “A tale of love. A tale of life”, contrapposizione ossimorica di due universi dialoganti, proposti dall’autore tedesco in una condizione di vicinanza tale da mozzare il respiro.
E poi proprio il respiro stesso della vita, le lacrime, le scelte sbagliate, la preziosità di una qualsiasi esistenza, anche la più turpe: elementi valoriali che in fondo al tunnel tracciano il sentiero lungo il quale ogni cosa è comunque illuminata, a riprova dell’abbagliante umanismo herzoghiano, incrollabile nonostante la sua abitudine a flirtare col nichilismo più nero e sebbene questo, come ha scritto il compianto Roger Ebert, sia il suo film più triste in assoluto, spietato tanto quanto quel Grizzly Man, altro grande capolavoro dell’ultimo Herzog. La cultura criminosa tutta americana della morte indotta è eticamente rifiutata come scelta antiumana, priva di qualsiasi fondamento realistico, figlia di un atteggiamento che negli anni non ha fatto che relegare la compassione e la pietà in spazi sempre più irraggiungibili per l’umana comune portata, contribuendo in prima linea, come molte altre pratiche barbare, allo sfaldarsi dei rapporti di natura tra gli uomini, turbando la loro rasserenata e armoniosa condizione primigenia. Lo sguardo di Herzog, che in Into the Abyss sa assumere anche la clinica asetticità di un referto di polizia, va d’altronde sempre riferito ai primordi dell’esperienza umana su questo pianeta, in fede a una vocazione ancestrale che è categoria intellettuale ed estetica principale, punto di partenza e puntuale, contemporaneo punto d’arrivo.
Un film squassante e destabilizzante, Into the Abyss. Dall’inizio alla fine, da quelle croci con nessun nome sopra ma solo numeri (immagine di potenza inarrivabile) fino all’epilogo. Tra interviste ai parenti e ai poliziotti, le sciagurate vite criminali di Michael Perry e Jason Burkett emergono molto più che in filigrana, avvolgendo lo spettatore nelle loro spire mortifere. Il documentario si snoda come un excursus, un indagine a tappe da investigare scavando oltre la superficie e ancora più a fondo. “The answer is out the door” e di sicuro la risposta non può stare nelle parole dell’ossuto, ghignante ed emaciato Perry o nelle cavità impressionanti dei suoi occhi cerchiati di nero. Così come, al cospetto di tutti quei clangori metallici provocati dai carcerieri che aprono, chiudono e sbattono porte in fuori campo mentre le interviste scorrono, il mondo non può che arrestarsi, silente, a riflettere sulle sue macchie e le sue colpe collettive.
Nessun “glimmer of hope”: l’alba della libertà è adesso anche herzoghianamente lontanissima, come non lo è mai stata. Nessun baluginio all’orizzonte, nessun lampo sfocato, neanche minimo. Resta solo un ultimo, residuale laicismo umanizzato, cui aggrapparsi per non lasciarsi travolgere dal mare cieco della violenza e dell’intolleranza più disumana, una dichiarazione testamentaria da stringere al cuore: “Ti rispetto come essere umano e penso che gli esseri umani non debbano essere uccisi”.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Special Werner Herzog
Scheda tecnica
Titolo originale: Into the Abyss
Anno: 2011
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Fotografia: Peter Zeitlinger
Musiche: Mark Degli Antoni
Durata: 105’
Uscita in Italia: --
Interpreti principali: Werner Herzog, Richard Lopez, Michael Perry, Jason Burkett