Il monologo recitato da Klaus Kinski ci entra nel cuore, ancora una volta, e scava un solco all'interno della nostra anima. Lo guardiamo inebetiti, incapaci di trovare una difesa, un riparo, una consolazione. In quel momento lui è in noi, sopra e dentro e intorno; ci uccide in ogni sillaba, regalandoci nello stesso istante un esempio di cinema puro, superlativo, ineguagliabile.
La sua dichiarazione d'intenti è il simbolo di un'opera d'incredibile forza visiva e concettuale, impossibile da scalfire nonostante l'inesorabile avanzata del tempo. Aguirre era, è ancora e sempre sarà un capolavoro unico, esemplificazione di come il cinema possa talvolta fornire allo spettatore miracoli incredibili, destinati a scavalcare le barriere della Leggenda.
Realizzato da un Werner Herzog non ancora trentenne, con quattro soldi e una troupe di sole otto persone, in mezzo a furiose litigate con il suo violento attore-feticcio, il film, che avrebbe poi ispirato profondamente Coppola per Apocalypse Now, attua una mirabolante immersione nel senso primevo della natura come atto fondante di una civiltà in divenire, ancora imperfetta e incompiuta, pronta a soccombere di fronte alla potenza cristologica del creato. Il suo protagonista è un sognatore senza scrupoli, un dominatore senza umiltà, un distruttore privo di limiti; nella sete di conquista che lo nutre si dipana il filo della follia, l'ebbrezza della scoperta, l'odore dell'Inferno, acre e compiacente come il canto di una Sirena beffarda portavoce di una trappola da cui non è più possibile fuggire.
Una montagna inondata dalla nebbia, una sterminata distesa di uomini che tra mille difficoltà la attraversano, figurine stilizzate nell'immensità dell'Eden. La processione dei conquistadores, in (lento) avanzamento alla ricerca del famigerato Eldorado, è un'agonizzante marcia di conquista, che ben presto muta i suoi contorni per divenire disperata lotta per la sopravvivenza. Lì, mentre i cannoni affogano nel fango, gli schiavi nuotano nel sudore e i soldati cadono come mosche ammazzati da fatica, malattie e frecce avvelenate, si cerca un Dio che ha voltato indietro il proprio sguardo. Ci si autoproclama imperatori di un territorio che non possiede oggettivazioni logistiche e cartografiche, si gioca con i ruoli per assecondare la propria strategia, si nomina un Re burlone che deride se stesso scivolando nelle pieghe del grottesco; poi si va, ancora, navigando sulle correnti agitate, oppure facendosi largo tra le mani unghiute della vegetazione, piangendo per la fatica, nel terrore primordiale di quegli attimi di attonito silenzio in cui il cuore di tenebra si arresta e ognuno sa che può morire da un istante all'altro.
Così si cade, ci si rialza e poi si ricade una volta per sempre, bruciando villaggi e giustiziando i ribelli, leccando il sale dalla polvere, combattendo nemici quasi sempre invisibili, rincorrendo la declamazione dell'utopia. Un marasma furibondo da cui prende le distanze il guerriero Aguirre, totem che mantiene lo sguardo alto, sempre, anche quando l'amata figlia si spegne tra le sue braccia, ritrovandosi infine a comandare un esercito di cadaveri in putrefazione e scimmie irrequiete. Eppure egli non rinuncia a guardare su, lontano, oltre l'orizzonte, ultimo rappresentante di una razza ebete sconfitta dalle nere fauci della sventura.
Aguirre balla sui resti carbonizzati del sogno ridotto in cenere, come a suo modo farà tanti anni dopo il Timothy Treadwell di Grizzly Man; entrambi sono figure indispensabili nello straordinario corpus filmico di Herzog, eroi atipici che abbracciano la morte come parte integrante del sentiero sconnesso nella vita. Il conquistatore ormai liberato da qualsiasi sfumatura di senno canta la sua litania stonata, mentre la macchina da presa, rubata a una scuola di cinema, gli vortica intorno, colta anch'essa dalla febbre del delirio. Noi assistiamo, senza nemmeno respirare, avvolti da una coltre brulicante di fascino, odio, commozione, sorpresa, in un orgasmico e lancinante percorso estatico.
Lui è il furore di Dio, baluardo di una guerra tra uomo e natura destinata a protrarsi oltre i secoli dei secoli; noi siamo invece una parentesi racchiusa nella gloria di quell'eternità appostata sopra le nuvole, dove risiede un Pantheon a cui Aguirre appartiene di diritto. Con lo sguardo fiero e gli occhi lucidi. Oltre i confini e la ragione.
Alessio Gradogna
Sezione di riferimento: Special Werner Herzog
Scheda tecnica
Titolo originale: Aguirre, der Zorn Gottes
Anno: 1972
Durata: 100'
Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Fotografia: Thomas Mauch
Musiche: Popol Vuh
Attori: Klaus Kinski, Helena Rojo, Del Negro, Ruy Guerrav, Peter Berling, Cecilia Rivera