ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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CANNES 67 - Winter Sleep, di Nuri Bilge Ceylan

25/8/2014

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Il cinema di Nuri Bilge Ceylan è sempre stato, in un modo o nell’altro, un cinema di fantasmi, di presenze che dovrebbero essere concrete ma si trovano a lottare con la propria consistenza eterea, per resistere o anche solo per esistere. È il caso dei due protagonisti di Uzak, ma anche dei personaggi scoloriti e ombrosi de Le tre scimmie, immersi nel contesto noir e metafisico di uno spazio addirittura irreale per quanto è fosco, oscuro e piovoso. Per non parlare dell’indagine di C’era una volta in Anatolia, prototipo in forma cinematografica e dinamica (si fa per dire, visti i tempi sempre calibrati e centellinati del cinema del regista) di un’assenza da ricomporre o cui mettere fine.
C’era insomma qualcosa di febbrile, in Ceylan, anche nell’inconsistenza. Una febbre che andava oltre la lentezza e i tempi morti proprio perché richiedeva di porsi una serie di domande in merito alla mancanza di fisicità di opere e scenari impalpabili. Con Winter Sleep, invece, la situazione cambia. In modo perfino radicale.
Un uomo di mezza età, Aydin, insieme con la giovane moglie e con la sorella, gestisce un albergo che si erge sui monti dell’Anatolia, in un centro abitato abbastanza lontano da Instanbul, dislocato e isolato. È un intellettuale con velleità varie, che in passato ha fatto anche l’attore e adesso si è riciclato come giornalista per una rivista locale non così letta ma alla quale egli dona anima e corpo, oltre a lavorare alla redazione faticosissima di una storia completa del teatro turco, passione dettatagli dai suoi trascorsi sul palcoscenico.
Un uomo di parole, più che di fatti. Nei film di Ceylan, di norma, si è però sempre parlato pochissimo; qui invece è la parola il grimaldello centrale, la chiave di volta per leggere il mondo e scomporlo, per inoltrarsi tanto nelle riflessioni più astratte quanto nei rapporti delicati che possono intercorrere tra vicini in lotta o semplici avventori.
Winter sleep è scolpito nei dialoghi tra i personaggi, lunghissimi e torrenziali: coordinate precise attraverso cui mappare categorie di classe e aspirazioni, differenze e prigionie. Sì, perché quello di Ceylan è palesemente un film sull’immobilismo: geografico, culturale, artistico, politico. Sulla fissità inerme di chi sa di non avere scampo e non si scompone neanche più tanto per guadagnarsi la salvezza dalla gabbia che lo imbriglia, sempre più consapevole, giorno dopo giorno, del fatto che nessun sussulto, per quanto energico, potrà sciogliere quelle pesantissime catene.
Da questo ragionamento sull’inazione Ceylan si lascia però stritolare, colpevolmente: il suo film sembra un rudere enorme, impregnato di vecchiezza e di passatismo. Ma più che metterli in scena per denunciarli, questi due ultimi aspetti, Ceylan li accoglie nel tessuto formale del proprio film, trasformando e accomodando di conseguenza il proprio stesso sguardo sull’umanità e le sue relazioni. Una visione che procede per modelli fin troppo tradizionali e schemi polverosi, dai quali solo in poche e sorvegliate occasioni riesce a venir fuori il fuoco sacro di una ricognizione civile davvero autentica e indispensabile sulla doppiezza morale di molti attori sociali (si veda il protagonista, che cambia letteralmente faccia dalla prima alla seconda parte).
Per tre ore e un quarto Ceylan ci inchioda alla poltrona imponendoci una serie di divagazioni a vario titolo, con tante sequenze inerziali e una dose parallela e non indifferente di noia, tale da diventare costrizione ma quasi mai capace di ripagare chi guarda per l’affaticamento che esige.
Winter Sleep è un film che ostenta il proprio rifiuto della speranza, in moltissimi scambi verbali e non solo. Il calore fioco e appena accennato degli ambienti presta il fianco al gelo di un inverno lungo e tagliente, simile a una notte profonda e nera come il nulla. La stessa in cui, inevitabilmente, il film si infila senza più uscirne, in cerca di uno scossone che non arriva. Le ambizioni diventano spade di Damocle e la riflessione sulla merceologia attraverso cui l’umano viene soppesato a più livelli, non solo economici, va a riempire un’ultima parte che tuttavia non rialza l’asticella complessiva, nonostante qualche tardivo risveglio, soprattutto registico (il fuoco che divora il denaro, i campi lunghi insistiti, la nostalgia, il romanticismo struggente, il melodramma di chi si sfiora dalla finestra).
Ceylan rimane un gigante e qua e là lo dimostra anche - che la Palma d’Oro a Cannes 67 sia andata soprattutto allo sforzo titanico d’autore, anche se condotto in forme vetuste e sorpassate? - ma in questo caso, per citare lo stesso Aydin, la montagna ha partorito un topolino: negando in gran parte l’astrazione propria di tutto il suo cinema precedente, il regista ha voluto fare il salto e puntare al tangibile, all’ontologico, alla concettualità rivelata dalla descrizione e non più dall’esclusivo (ed elusivo, grazie al cielo) potere significante delle inquadrature.
Un inutile tentativo di autolegittimazione su un terreno più arduo, del quale non si sentiva affatto il bisogno, in un film in cui il peso del tempo, più che sulle vite dei personaggi, respira addosso alla pazienza degli spettatori. Un approdo non necessario soprattutto per uno come Ceylan, da sempre esteta scarno e ruvido, senza compromessi e di grande sostanza. 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Cannes 67


Scheda tecnica  

Titolo originale: Kış Uykusu
Regia: Nuri Bilge Ceylan
Sceneggiatura: Nuri Bilge Ceylan, Ebru Ceylan
Attori: Haluk Bilginer, Melisa Sozen, Demet Akbag, Ayberk Pekcan
Fotografia: Gökhan Tiryaki 
Montaggio: Nuri Bilge Ceylan, Bora Göksingöl 
Anno: 2014
Durata: 196’ 

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CANNES 67 - Sils Maria, di Olivier Assayas: la vita al lavoro

15/8/2014

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Sils Maria, l’ultimo film di Olivier Assayas, è un’opera che non può fare a meno di sorprendere, perfino di spiazzare. In un modo che però è, ed è importantissimo sottolinearlo, diametralmente opposto rispetto al modus operandi con cui il cinema contemporaneo è solito rapire l’attenzione dello spettatore, metterlo spalle al muro e scuoterlo.
Sils Maria, infatti, è un film che scorre con una leggerezza senza pari, metafisico e disincarnato, scolpito in un uso della parola che è sempre descrittivo e mai esornativo. Come se ogni sintagma, sia d’immagini che si raccordano e di parole che si sommano concatenandosi, fosse stato messo lì per irretire ma anche per rivelare un oceano di senso più profondo. Un film sul conflitto generazionale, senza dubbio, ma anche sul tempo e le sue radici, sui confini tra il passato e il presente che s’abbattono e si sfrangiano per poi ricongiungersi e confondersi, procedendo in avanti senza impedimenti, proprio come la Storia sa fare (molto più e molto meglio della storia).
Un film che parla di cinema, senza ricorrere alla zavorra spesso ingombrante del metacinema - soprattutto oggi, un’epoca in cui certe formule appaiono irrimediabilmente invecchiate - e della vita, senza la stucchevole retorica dell’artificio gonfiato ad arte. Come dice la stessa Enders in una scena chiave: “Può essere letterario e deve essere vero, e io la differenza la sento, la sento”. Quest’ultima ripetizione è come l’ulteriore ribadimento di una verità inoppugnabile, a riprova che un testo, prima di essere pensato e scisso nelle sue componenti, va anche vissuto, lasciato decantare, attraversato da un capo all’altro con lucidità. Esattamente come le nuvole del Passo del Maloja, che scorrono attraverso le montagne fluttuando con una scia simile a un serpente sinuoso, senza farsi scomporre da cime aguzze e da altri ostacoli (il film muto di riferimento per quell’immagine di placida maestosità è Cloud Phenomena of Maloja di Arnold Fanck, del 1924).
Assayas guarda a un cinema nobile, da palcoscenico ed elegante, ma non è mai derivativo - morirebbe, piuttosto - e ciò è un pregio a dir poco macroscopico. La costruzione del suo film è arguta ma non ha la pretesa di salire in cattedra, è ironica, amara e sottile ma senza apparentemente scendere poi troppo a fondo. È la superficie stessa che, hegelianamente, conserva la maggiore profondità possibile, trattenendo su di essa contraddizioni e scontri dialettici, oltre che naturalmente, come detto, generazionali: il confronto tra Maria (Juliette Binoche), diva navigata, e la sua giovane assistente Valentina, interpretata da una Kristen Stewart che in questo caso trasforma la sua consueta svogliatezza in magnetismo, è messo in campo da Assayas con un’attenzione millimetrica all’essenziale e alla sua necessità (oggi) imprescindibile. Quasi come se il suo film fosse immerso in un voto di castità estremo ma non punitivo, che intende far emergere il meraviglioso, geometrico equilibrio tra la vita e le forme del racconto deputate a restituirla attraverso la potenza di gesti e dialoghi certamente contenuti ed evidentemente ordinari, ma impregnati di senso.
Non stupisce, dunque, se Sils Maria procede come se fosse una prova teatrale in movimento, con l’assistente che fa da spalla all’attrice per aiutarla a provare le sue battute leggendo quelle del suo interlocutore di finzione. Il film, seguendo con fedeltà queste coordinate, si tramuta in un’opera-specchio e in una sessione d’analisi a due voci, che divora tutto e si sofferma su tutto, con calma olimpica e senza frenesia. Che intende riflettere sulla tensione tra la vita e la sua rappresentazione, come si diceva, ma anche sull’importanza dell’autenticità al cospetto del gioco di prestigio. E, per far ciò, si prende il suo tempo. Tutto il tempo.
Assayas non lo dice in modo netto e non si sognerebbe mai una sfacciataggine simile, ma il suo film è (dietro la cristallina serenità di chi riposa sulle nuvole e non si affanna per capire, perché gli basta solo guardare meglio per mettere a fuoco) un grido d’allarme. Contro un mondo in cui non dovrebbe essere permesso piangersi addosso, contro la banalità del rimpianto del passato al tempo delle opportunità seriali e dei new media sempre all’erta e sempre pronti a immortalare la cronaca in tempo reale, da TMZ a salire (il discorso del film sulla contemporaneità è di un’onestà abbagliante); contro l’assenza di concretezza fine a se stessa di chi, occupandosi di arte, deve per forza essere criptico, fuori dal tempo, novecentesco: nel finale, Maria Enders bacchetta un giovane regista dicendogli: “È troppo astratto, mi spiace, non la capisco”. Quale j’accuse in apparenza innocuo ma in realtà acutissimo per smascherare l’ansia per la costruzione a tavolino di certi artisti da sé incoronatisi (e certe immagini), la corsa all’arzigogolo, l’accumulo di dettagli descrittivi soffocanti e superflui, nel cinema come in (certa) letteratura?
Sils Maria, in seconda battuta ma mica tanto di soppiatto, è anche un film sulla fragilità dei contorni della finzione, cinematografica e non, e dei suoi meccanismi: quando una giovane attrice al centro del gossip e spregiudicata, Jo-Ann Ellis (Chloë Grace Moretz) ottiene la parte che rese famosa Maria, costei non può fare a meno di sentirsi scalzata, estromessa anzitempo da una vita e un ruolo che sono stati solo suoi e di nessun altro. Basta il semplice scorrere del tempo, dunque, a cambiare le carte in tavola, a compromettere gli equilibri, a rovesciare la qualsiasi? Assayas se lo chiede senza darsi la risposta, e noi con lui, in una sospensione della consapevolezza che è la medicina migliore per abbandonare le proprie certezze per strada e mettersi in cammino verso nuove, meno ovvie acquisizioni.
Sils Maria, in tal senso, è una lezione, nel senso più alto immaginabile: ci spinge non tanto a non essere vanamente superbi, quanto a essere vigili, a prestare attenzione a ciò che è solo sulla carta insignificante e perfino ad appassionarsi a esso. L’unico atto di resistenza possibile in un momento storico in cui le sfumature non sembrano più contare nulla (Jo Ann-Ellis non accetta i consigli di Maria per connotare meglio una battuta, nel finale, e la butta lì estemporaneamente), né tanto meno meritare asilo. A nessun livello.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Cannes 67, Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Olivier Assayas
Sceneggiatura: Olivier Assayas
Fotografia: Yorick Le Saux
Montaggio: Marion Monnier
Anno: 2014
Durata: 124’
Attori: Juliette Binoche, Kristen Stewart, Chloë Grace Moretz

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CANNES 67 - Relatos Salvajes (Storie pazzesche), di Damian Szifron

6/8/2014

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Ripensando alla visione di Relatos Salvajes (Storie pazzesche) di Damian Szifron, presentato in concorso all’ultimo festival di Cannes, torna alla mente non solo l’originalità stralunata e obliqua di molto cinema argentino contemporaneo (una cinematografia in crescita, senza ombra di dubbio), ma anche la forza dirompente di un film che riesce nell’impresa di dire qualcosa sulla società e perfino sui rapporti di classe attraverso l’utilizzo sfrontato di un’ironia a tutto campo, che fa non sconti e trova un palese piacere nell’ostentare la propria irriducibile cattiveria.
Un risultato oggi più unico che raro, parlare in termini di denuncia senza utilizzare gli strumenti della denuncia classica, tale da giustificare a occhi chiusi l’inclusione in quello che è ancora il massimo cine-concorso del mondo (in quanto a prestigio e nomi ospitati). Faceva la stessa cosa, anche se con una dose di follia anarcoide ben maggiore, così gaia da risultare spiazzante e – per qualcuno – addirittura irricevibile, l’ultimo film di Pedro Almodovar, Gli amanti passeggeri, non a caso sbertucciato e sottovalutato un po’ da chiunque proprio perché si concedeva il peccato mortale di una leggerezza fuori di testa che non era per una volta né mélo macchiettistico né commedia scorrettissima, ma una brillante, pungente fusione dei due aspetti. Un ibrido forse imperdonabile, ma che al di là della scatologia e di molte gag imbarazzanti era in grado di servirsi della sua inclassificabile libertà per sparare a zero su qualsiasi bersaglio gli capitasse a tiro.
Il film di Damian Szifron, che non a caso dai fratelli Almodovar è prodotto, non dista di molto da tali parametri, ma vi aggiunge una struttura episodica solo apparentemente sfilacciata, una corrosività che incenerisce ogni sana istanza di politicamente corretto e, last but not least, un controllo registico impressionante e spericolato. La sovrapposizione di questi elementi produce esiti famelici: il prologo, come il succitato film di Almodovar, è ambientato su un aereo, in cui pian piano tutti i passeggeri rivelano di aver avuto a che fare con un tizio di nome Gabriel Pasternak; nel primo episodio una donna si ritrova nel suo ristorante l’usuraio che ha indotto il padre al suicidio e dovrà reprimere l’istinto fortissimo di vendicarsi a morte; nel secondo un duello tra un automobilista e un balordo assume le sembianze di una lotta a due senza esclusione di colpi, tra violenza parossistica e scontri corpo a corpo; nel terzo il personaggio di Ricardo Darìn, attore simbolo della nueva ola argentina, un pompiere di nome Bombita (!), si ritroverà a fare i conti con un’odissea kafkiana a seguito di un parcheggio in divieto di sosta; infine, rispettivamente nel quarto e nel quinto, una famiglia benestante tenterà di coprire il figlio pirata della strada e omicida ma gli interessi di ognuno si metteranno di mezzo, e una giovane coppia vedrà il proprio matrimonio passare dall’idillio a un grottesco e ghignante scempio all’insegna dei torti reciproci, delle recriminazioni e delle ritorsioni.
Posto così pare già tutto molto incline a premere sul pedale dell’acceleratore, ma la realtà del film è anche peggio: l’andamento incessante e caleidoscopico insegue il ritmo di un tango mortifero, e lo specchio deformante proprio della commedia e dei suoi mostruosi abitanti, un aspetto che nel cinema comico di casa nostra ha purtroppo smesso di esistere da tempo, diventa l’unica chiave di lettura per parlare di contraddizioni sociali, di vizi capitali e di cancrene morali, di una società media al collasso, post-globalizzata e quasi post-umana. La messa alla berlina è dunque tanto caustica quanto puntuale e focalizzata sull’oggi, attaccata alle strutture del mondo, alle maschere d’ipocrisia che gli uomini più ordinari si tatuano sulla faccia e all’idiozia generalizzata che consente loro di portare a compimento i loro deprecabili scopi.
I titoli di testa ci mostrano, non a caso, animali rapaci e pericolosi, e l’equazione è così presto risolta: i racconti selvaggi di Szifron, sotto la verniciata di commedia dark che può portare molti a liquidare il film come un esercizio di stile in maniera tanto comoda quanto frettolosa, nascondono gli ingranaggi consolidati e i motori ideologici tristemente noti di un’umanità succube di un istinto animalesco applicato un po’ ovunque, come se l’anti-illuminismo predatore fosse l’unico parametro comportamentale oggigiorno accettato, nei rapporti sociali e nelle scelte che includono la collettività. Essere divertiti e inchiodati alla poltrona, in casi e con film come questi, è un’esperienza spettatoriale sì eccellente ma in definitiva tutt’altro che piacevole.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Cannes 67, Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Damian Szifron
Sceneggiatura: Damian Szifron
Fotografia: Javier Julia
Musiche: Gustavo Santaolalla
Anno: 2014
Durata: 122’
Attori: Ricardo Darín, Leonardo Sbaraglia, Darío Grandinetti, Erica Rivas, Julieta Zylberberg
Uscita italiana: 11 dicembre 2014

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CANNES 67 - Mommy, di Xavier Dolan

1/7/2014

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Compiaciuto. Autoreferenziale. Vanitoso. Ruffiano. Questi aggettivi sono stati tirati in ballo da chi non ha del tutto apprezzato Mommy, l'ultimo lavoro dell'enfant prodige canadese Xavier Dolan, vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes, dove peraltro molti pensavano (e speravano) potesse aggiudicarsi la Palma d'Oro. Il film del talentuoso venticinquenne, già cinque lungometraggi all'attivo e un alone di culto sempre più deciso alle (sulle) sue spalle, ha infatti entusiasmato il pubblico e la critica di tutto il mondo, raccogliendo un plebiscito frenato soltanto da alcune critiche espresse nei toni sopra accennati.
Siccome in questa sede non abbiamo intenzione di delineare a tutti i costi una mera apologia dolaniana, diciamo subito che le definizione riportate risultano comprensibili, finanche accettabili, perché a tutti gli effetti Mommy è realmente un film compiaciuto e vanitoso. Senza abbandonare la sua stupefacente carica espressiva, Dolan questa volta ha infatti lavorato soprattutto di testa, accantonando in parte l'istintualità dei precedenti Laurence Anyways e Tom à la ferme, per dare alla luce un prodotto più studiato, pensato, impostato con il chiaro intento di penetrare nel cuore dello spettatore.
Mommy racconta la storia del difficile rapporto tra Diane, madre perennemente alla ricerca di un posto del mondo, e il figlio Steve, violento e incontrollabile, parcheggiato per anni in diversi istituti di controllo e riabilitazione e alla fine espulso senza alcun sostanziale miglioramento. La loro ritrovata e obbligata unione si tramuta fin da subito in una battaglia quotidiana in cui si susseguono senza tregua discussioni, litigi, urla, zuffe, insulti, intervallati da rari momenti di quiete in cui esplode il desiderio di amore che entrambi, in modi diversi, vorrebbero esprimere senza esserne capaci. Diane (Anne Dorval), con il suo abbigliamento squinternato da femme fatale fuori tempo massimo, lotta per se stessa e per il figlio, perde il proprio lavoro, cerca vie d'uscita, affoga nello stress; Steve, dal canto suo, vive senza essere in grado di utilizzare freni inibitori, reclama attenzioni e affetto, si tuffa in gesti d'amore “sbagliati”, divora il mondo senza comprenderlo, esprime il suo desiderio di accettazione salvo poi smarrire ogni raziocinio alla prima parola errata.
Dolan conduce la sua opera secondo un doppio registro: non rinuncia alla creatività che da sempre gli appartiene, ma al contempo pare sviluppare un racconto diretto secondo canoni narrativi ben precisi, attraverso una rappresentazione ondivaga che sale e scende come la marea, tra scene-madri di impressionante impatto emotivo e sequenze intermedie che sembrano cullare la platea preparandola allo scontro successivo. A ben vedere, il personaggio di Diane risulta perfino stereotipato, nelle sue eterne e irreparabili contraddizioni, mentre la figura di Steve, pur ricca di sfumature, non è poi così lontana da tanti ritratti di adolescenti perturbati che il cinema da sempre è stato ed è interessato a proporre.
Eppure, nei suoi difetti, nelle imperfezioni, nelle eccessive e stancanti grida, nei tabarnac (1) ripetuti all'infinito, Mommy non fa altro che confermare le potenzialità di un talento smisurato, capace, nonostante la giovanissima età, di ruotare intorno all'asse dell'oggetto-cinema come una scheggia impazzita che non sa e non vuole porsi alcun limite. 

1) L'equivalente del nostro vaff... nella lingua franco canadese.

Quanti, nel panorama contemporaneo, sanno usare il mezzo filmico come Dolan, inventandosi piccoli colpi di genio similari al momento in cui Steve letteralmente apre l'inquadratura con le mani modificando il formato stesso della pellicola? Quanti riescono a utilizzare con tale costrutto e fantasia l'apparato musicale? Quanti sono capaci di imprimere dentro e oltre lo schermo intuizioni di estrema qualità come quel magnifico ballo liberatorio in cucina, grazie al quale almeno per un istante ogni dolore può essere dimenticato? Quanti? 
Pochi, pochissimi. Se dunque Mommy pare un lavoro auto-celebrativo, se ci trascina impunemente verso la lacrima facile, se Dolan dà già l'impressione di pavoneggiarsi allo specchio, in fondo poco importa. La sua storia trasuda comunque forza e vitalità da ogni poro, e ci offre, un'altra volta, una potenza stilistica debordante.
Ad accrescere ulteriormente il valore del film, si ha inoltre un bonus di impareggiabile valore: Kyla. Il terzo incomodo, l'insegnante balbuziente a riposo per un (presunto) anno sabbatico, la vicina misteriosa che si insinua con tagliente profondità nella guerra dichiarata tra Diane e Steve, riassume su di sé la sostanza di uno dei più bei personaggi in assoluto visti al cinema negli ultimi anni. Grazie anche alla splendida interpretazione dell'attrice Suzanne Clément, la figura di Kyla propone mille variazioni di sguardo e traiettoria, percorrendo strade tortuose che non hanno un inizio e nemmeno una fine. Negli occhi timidi di questa donna, nella sua lacerante e intima sofferenza, nella bontà pronta a trasformarsi all'improvviso in rabbia ferina, nella sua doppia essenza di paura e violenza, dolcezza e pentimento, Dolan raggiunge la vetta, piantando nella nostra anima il vessillo di creature perdenti che sanno comunque affrontare l'inferno a testa alta.
Diane, Steve, Kyla: tra speranza e rassegnazione, solitudine e abbandono, rimorsi e ferite sanguinanti, il destino segnato dei tre antieroi dolaniani scappa, ritorna, corre e strepita, generando un boato assordante che al contempo ci strazia e ci esalta, guidandoci sino a un ultimo confine, da abbattere a tutti i costi, in fuga verso l'impossibile traguardo del domani.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Cannes 67, Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Mommy
Anno: 2014
Durata: 134'
Regia: Xavier Dolan
Sceneggiatura, montaggio e costumi: Xavier Dolan
Fotografia: André Turpin
Musiche: Eduardo Noya
Attori: Anne Dorval, Antoine-Olivier Pilon, Suzanne Clément, Alexandre Goyette, Patrick Huard
Uscita italiana: 4 dicembre 2014

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CANNES 67 – Party Girl, di M. Amachoukeli, C. Burger e S. Theis

24/6/2014

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Ci sono creature nate per essere libere. Sempre e comunque. Donne che vivono la propria indipendenza come un dato di fatto intoccabile e incontrovertibile. Gabbiani che aprono le ali volando nel cielo della vita e fuggendo da ogni possibile prigione. A 60 anni come a 20. Nessuna cella, nessun limite, nessuna fredda parete: soltanto i sorrisi della notte, le luci colorate, i battiti sincopati della musica, le bevute e gli scherzi, le attrazioni e le disillusioni. Perché l'importante è danzare, fino alla fine, scartando la malinconia e superando ogni assalto del tempo che passa.
Angélique lavora da lustri in un cabaret (inteso come night club) al confine tra Francia e Germania. I clienti però sono sempre meno, perché i costi sono alti e al contempo donne più giovani avanzano reclamando un ruolo primario. Nonostante questo la donna trascorre ancora la sua vita all'interno del locale, insieme alle amiche, consapevole di una carriera ormai prossima al capolinea ma decisa a voler continuare l'esistenza di sempre. 
La situazione pare all'improvviso modificarsi sensibilmente quando un suo affezionato ex cliente le chiede di sposarlo. Pur con molti dubbi, Angélique accetta la proposta, incuriosita dalla possibilità di una tranquilla vita famigliare e dalla rassicurante bonarietà di un uomo placido e gentile che non lesina continue dimostrazioni di reale e sincero affetto. La donna va a vivere con lui, inizia i preparativi per il matrimonio e un po' alla volta riesce a riunire i suoi quattro figli sparsi per la Francia, compresa la giovane Cynthia, che non vede da tanti anni perché ha dovuto abbandonarla in giovane età. Nonostante la gioia di avere di nuovo l'intera prole intorno, mano a mano che il giorno delle nozze si avvicina i dubbi di Angélique crescono e si fanno sempre più pressanti.
Scelto come titolo d'apertura della sezione Un Certain Regard all'ultimo Festival di Cannes, Party Girl ha vinto la prestigiosa Caméra d'Or, riconoscimento assegnato alla migliore opera prima. Il film, nato da un'idea di Samuel Theis, è diretto dallo stesso autore insieme a Claire Burger e Marie Amachoukeli, sue compagne di corso alla Fémis, la più importante scuola di cinema francese (un luogo quasi sacro, in cui si sono formati futuri maestri come Alain Resnais, François Ozon, Patrice Leconte e Arnaud Desplechin). 
Per il debutto Theis sceglie di raccontare una storia intrisa di autobiografismo: l'attrice che interpreta Angélique è infatti sua madre, molti degli attori sono suoi parenti e i fatti narrati, pur con alcune modifiche, si avvicinano molto alla vita reale. Il lavoro di Theis e socie si muove dunque lungo il crinale che divide verità e finzione, per mettere in scena un disegno narrativo in cui la terza età diviene un luogo di scoperta, riflessione e definitiva consapevolezza. 
Percorrendo un sentiero piuttosto simile al recente e notevole Gloria di Sebastian Lelio, con cui condivide anche un'inquadratura finale quasi identica, Party Girl scava nelle lacerazioni interiori di una donna che non sa e non vuole rassegnarsi alla fine dei sogni e al ridimensionamento della propria condizione. Angélique è sempre stata una creatura della notte, si è offerta a tantissimi uomini mantenendo però sempre intatta la propria dignità, e non ha mai accettato costrizioni logistiche che ne tarpassero l'ampiezza di movimento. Il night è il suo mondo, un universo di sbronze e rapporti fugaci, luci stroboscopiche e risate, sesso a pagamento e amicizie sincere, bicchieri vuoti e avventori idioti; una vita forse sbagliata, sulla carta, ma in fondo goduta e dunque a suo modo vincente. 
Per fortuna non c'è nessun afflato moraleggiante, in Party Girl, nessun giudizio etico. Theis declama il proprio amore nei confronti della madre-attrice con sorprendente delicatezza ed equilibrio, fornendo al pubblico il ritratto genuino di una donna giunta al tramonto della vita, ma lontana dall'abdicare il suo bisogno di emancipazione. Il personaggio di Angélique, a ben vedere, non fa poi granché per farsi piacere agli occhi del pubblico; eppure è proprio dalle sue contraddizioni e dai suoi atteggiamenti discutibili e talvolta perfino irritanti che si alza il valore di un film capace di incrociare sguardi e solitudini con notevole lucidità. Il lavoro dei tre registi, pur non brillando per originalità, riesce infatti a essere estremamente compatto, si prende i suoi tempi e si avvicina alla (inevitabile?) conclusione seguendo schemi adeguati.
Così, barcollando per le strade di Strasburgo, Angélique saluta i suoi dubbi e trova una nuova alba, affidandosi all'ipnotico incedere delle note e regalandoci un ultimo sorriso, da conservare con cura per non dimenticare mai un concetto fondamentale: casa, è dove si balla.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Cannes 67, Film al cinema


Scheda tecnica

Regia e sceneggiatura: Marie Amachoukeli, Claire Burger, Samuel Theis
Fotografia: Julien Poupard
Montaggio: Frédéric Baillehaiche
Anno: 2014
Durata: 96'
Attori principali: Sonia Theis-Litzemburger, Joseph Bour, Mario Theis, Samuel Theis, Séverine Litzenburger.
Uscita italiana: 25 settembre 2014

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CANNES 67 - Deux jours, une nuit, di Jean-Pierre e Luc Dardenne

17/6/2014

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Nel loro ultimo film, presentato in Concorso alla 67a edizione del Festival di Cannes, i fratelli Dardenne continuano a perseguire un’idea di cinema politico e militante aggiornato ai tempi della crisi. In Marion Cotillard trovano una nuova, intensa e splendida musa che a Cannes avrebbe meritato il premio come miglior attrice, assegnato invece alla pur brava Julianne Moore di Maps to the Stars per il semplice motivo che i precedenti film dei Dardenne avevano già vinto tutto quello che c'era da vincere (comprese ben due Palme d’oro per Rosetta e L’enfant). 
La storia raccontata in Deux jours, une nuit si svolge nell’arco di un weekend cruciale per Sandra, giovane madre di due bambini reduce da un periodo di forte depressione, che dovrà fare in modo di convincere i suoi colleghi di lavoro a rinunciare a un bonus in busta paga di mille euro per evitare di essere licenziata; sono proprio questi i tempi in cui ci troviamo a vivere a livello internazionale, anni in cui un’azienda - col pretesto della crisi - non si fa scrupoli a mettere i lavoratori uno contro l’altro, innescando una guerra tra poveri che non fa sconti a nessuno. 
I Dardenne, maestri conclamati e indiscussi della cinematografia europea, hanno l’incredibile e sbalorditiva capacità di “occultare” la macchina da presa, restituendoci per l’ennesima volta uno spaccato di vita quotidiana di un realismo impressionante. I protagonisti dei loro film, mai totalmente arresi e vinti di fronte alle mille difficoltà e ostacoli di cui è lastricato il loro cammino, si ostinano quasi sempre a trovare una via di fuga per non arrendersi alla disperazione. Si pensi ai giovani protagonisti di Rosetta e La promesse – dove già veniva trattato il tema del lavoro - che nonostante fossero alle prese con una realtà ostile e avversa cercavano di lottare facendo ricorso alla loro forza d’animo e vitalità. 
Il modo impegnato, politico e militante di fare cinema dei Dardenne viene ampiamente confermato nell’intenso finale di Deux jours, une nuit, coerente e in linea con l’evolversi degli eventi che lo hanno preceduto. La Cotillard tratteggia con grande bravura e sensibilità un personaggio fragile che sta ancora cercando di uscire da un periodo di profonda crisi personale quando si trova alle prese con una situazione critica da gestire e affrontare nell’arco di un fine settimana. Ad aiutarla, a spronarla, ad accompagnarla nel suo peregrinare alla ricerca dei colleghi che devono scegliere se tenersi l’agognato e in molti casi indispensabile bonus, o rinunciarvi per salvarle il posto di lavoro, troviamo Manu, marito premuroso e amorevole impersonato da Fabrizio Rongione, uno degli attori feticcio dei Dardenne. 
Nei suoi incontri/scontri con i colleghi di lavoro Sandra si sente spesso fuori posto, a disagio, quasi umiliata nel dover richiedere un voto a favore che le permetta di non essere licenziata. C’è chi l’allontana in malo modo, chi si nega al citofono, chi l’appoggia senza riserve e chi si strazia nel non poterle dare la solidarietà che invece meriterebbe, quella solidarietà che pare quasi sparita nel mondo in cui viviamo. 
Al termine del suo percorso Sandra si scoprirà diversa, piena di una nuova consapevolezza capace di renderla più forte e di farle guardare al domani in modo positivo, felice di essersi ritrovata e di aver avuto il coraggio, lei sì, di solidarizzare con chi è nella sua stessa situazione, senza cedere alle ignobili proposte di una classe dirigente priva di coscienza e morale. 
Deux jours, une nuit è dunque un ulteriore, prezioso tassello nel cinema dei Dardenne, umanissimo e umanistico, incentrato sempre e comunque sugli ultimi, sui più sfortunati, su coloro che sono nati già segnati e condizionati da un destino avverso che sembra avere in serbo solo dolori e una condizione economico/affettiva precaria e insicura.

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Cannes 67, Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Deux jours, une nuit
Anno: 2014
Regia: Jean-Pierre e Luc Dardenne
Sceneggiatura: Jean-Pierre e Luc Dardenne
Fotografia: Alain Marcoen
Durata: 95’
Interpreti principali: Marion Cotillard, Fabrizio Rongione, Pili Groyne, Catherine Salée

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