Sils Maria, l’ultimo film di
Sils Maria , infatti, è un film che scorre con una leggerezza senza pari, metafisico e disincarnato, scolpito in un uso della parola che è sempre descrittivo e mai esornativo. Come se ogni sintagma, sia d’immagini che si raccordano e di parole che si sommano concatenandosi, fosse stato messo lì per irretire ma anche per rivelare un oceano di senso più profondo. Un film sul conflitto generazionale, senza dubbio, ma anche sul tempo e le sue radici, sui confini tra il passato e il presente che s’abbattono e si sfrangiano per poi ricongiungersi e confondersi, procedendo in avanti senza impedimenti, proprio come la Storia sa fare (molto più e molto meglio della storia).
Un film che parla di cinema, senza ricorrere alla zavorra spesso ingombrante del metacinema - soprattutto oggi, un’epoca in cui certe formule appaiono irrimediabilmente invecchiate - e della vita, senza la stucchevole retorica dell’artificio gonfiato ad arte. Come dice la stessa Enders in una scena chiave: “Può essere letterario e deve essere vero, e io la differenza la sento, la sento”. Quest’ultima ripetizione è come l’ulteriore ribadimento di una verità inoppugnabile, a riprova che un testo, prima di essere pensato e scisso nelle sue componenti, va anche vissuto, lasciato decantare, attraversato da un capo all’altro con lucidità. Esattamente come le nuvole del Passo del Maloja, che scorrono attraverso le montagne fluttuando con una scia simile a un serpente sinuoso, senza farsi scomporre da cime aguzze e da altri ostacoli (il film muto di riferimento per quell’immagine di placida maestosità è Cloud Phenomena of Maloja di Arnold Fanck, del 1924).
Assayas guarda a un cinema nobile, da palcoscenico ed elegante, ma non è mai derivativo - morirebbe, piuttosto - e ciò è un pregio a dir poco macroscopico. La costruzione del suo film è arguta ma non ha la pretesa di salire in cattedra, è ironica, amara e sottile ma senza apparentemente scendere poi troppo a fondo. È la superficie stessa che, hegelianamente, conserva la maggiore profondità possibile, trattenendo su di essa contraddizioni e scontri dialettici, oltre che naturalmente, come detto, generazionali: il confronto tra Maria (Juliette Binoche), diva navigata, e la sua giovane assistente Valentina, interpretata da una Kristen Stewart che in questo caso trasforma la sua consueta svogliatezza in magnetismo, è messo in campo da Assayas con un’attenzione millimetrica all’essenziale e alla sua necessità (oggi) imprescindibile. Quasi come se il suo film fosse immerso in un voto di castità estremo ma non punitivo, che intende far emergere il meraviglioso, geometrico equilibrio tra la vita e le forme del racconto deputate a restituirla attraverso la potenza di gesti e dialoghi certamente contenuti ed evidentemente ordinari, ma impregnati di senso.
Non stupisce, dunque, se Sils Maria procede come se fosse una prova teatrale in movimento, con l’assistente che fa da spalla all’attrice per aiutarla a provare le sue battute leggendo quelle del suo interlocutore di finzione. Il film, seguendo con fedeltà queste coordinate, si tramuta in un’opera-specchio e in una sessione d’analisi a due voci, che divora tutto e si sofferma su tutto, con calma olimpica e senza frenesia. Che intende riflettere sulla tensione tra la vita e la sua rappresentazione, come si diceva, ma anche sull’importanza dell’autenticità al cospetto del gioco di prestigio. E, per far ciò, si prende il suo tempo. Tutto il tempo.
Assayas non lo dice in modo netto e non si sognerebbe mai una sfacciataggine simile, ma il suo film è (dietro la cristallina serenità di chi riposa sulle nuvole e non si affanna per capire, perché gli basta solo guardare meglio per mettere a fuoco) un grido d’allarme. Contro un mondo in cui non dovrebbe essere permesso piangersi addosso, contro la banalità del rimpianto del passato al tempo delle opportunità seriali e dei new media sempre all’erta e sempre pronti a immortalare la cronaca in tempo reale, da TMZ a salire (il discorso del film sulla contemporaneità è di un’onestà abbagliante); contro l’assenza di concretezza fine a se stessa di chi, occupandosi di arte, deve per forza essere criptico, fuori dal tempo, novecentesco: nel finale, Maria Enders bacchetta un giovane regista dicendogli: “È troppo astratto, mi spiace, non la capisco”. Quale j’accuse in apparenza innocuo ma in realtà acutissimo per smascherare l’ansia per la costruzione a tavolino di certi artisti da sé incoronatisi (e certe immagini), la corsa all’arzigogolo, l’accumulo di dettagli descrittivi soffocanti e superflui, nel cinema come in (certa) letteratura?
Sils Maria, in seconda battuta ma mica tanto di soppiatto, è anche un film sulla fragilità dei contorni della finzione, cinematografica e non, e dei suoi meccanismi: quando una giovane attrice al centro del gossip e spregiudicata, Jo-Ann Ellis ( Chloë Grace Moretz ) ottiene la parte che rese famosa Maria, costei non può fare a meno di sentirsi scalzata, estromessa anzitempo da una vita e un ruolo che sono stati solo suoi e di nessun altro. Basta il semplice scorrere del tempo, dunque, a cambiare le carte in tavola, a compromettere gli equilibri, a rovesciare la qualsiasi? Assayas se lo chiede senza darsi la risposta, e noi con lui, in una sospensione della consapevolezza che è la medicina migliore per abbandonare le proprie certezze per strada e mettersi in cammino verso nuove, meno ovvie acquisizioni.
Sils Maria, in tal senso, è una lezione, nel senso più alto immaginabile: ci spinge non tanto a non essere vanamente superbi, quanto a essere vigili, a prestare attenzione a ciò che è solo sulla carta insignificante e perfino ad appassionarsi a esso. L’unico atto di resistenza possibile in un momento storico in cui le sfumature non sembrano più contare nulla (Jo Ann-Ellis non accetta i consigli di Maria per connotare meglio una battuta, nel finale, e la butta lì estemporaneamente), né tanto meno meritare asilo. A nessun livello.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Cannes 67, Film al cinema
Scheda tecnica
Regia: Olivier Assayas
Sceneggiatura: Olivier Assayas
Fotografia: Yorick Le Saux
Montaggio: Marion Monnier
Anno: 2014
Durata: 124’
Attori: Juliette Binoche, Kristen Stewart, Chloë Grace Moretz
Olivier Assayas , è un’opera che non può fare a meno di sorprendere, perfino di spiazzare. In un modo che però è, ed è importantissimo sottolinearlo, diametralmente opposto rispetto al modus operandi con cui il cinema contemporaneo è solito rapire l’attenzione dello spettatore, metterlo spalle al muro e scuoterlo. Sils Maria , infatti, è un film che scorre con una leggerezza senza pari, metafisico e disincarnato, scolpito in un uso della parola che è sempre descrittivo e mai esornativo. Come se ogni sintagma, sia d’immagini che si raccordano e di parole che si sommano concatenandosi, fosse stato messo lì per irretire ma anche per rivelare un oceano di senso più profondo. Un film sul conflitto generazionale, senza dubbio, ma anche sul tempo e le sue radici, sui confini tra il passato e il presente che s’abbattono e si sfrangiano per poi ricongiungersi e confondersi, procedendo in avanti senza impedimenti, proprio come la Storia sa fare (molto più e molto meglio della storia).
Un film che parla di cinema, senza ricorrere alla zavorra spesso ingombrante del metacinema - soprattutto oggi, un’epoca in cui certe formule appaiono irrimediabilmente invecchiate - e della vita, senza la stucchevole retorica dell’artificio gonfiato ad arte. Come dice la stessa Enders in una scena chiave: “Può essere letterario e deve essere vero, e io la differenza la sento, la sento”. Quest’ultima ripetizione è come l’ulteriore ribadimento di una verità inoppugnabile, a riprova che un testo, prima di essere pensato e scisso nelle sue componenti, va anche vissuto, lasciato decantare, attraversato da un capo all’altro con lucidità. Esattamente come le nuvole del Passo del Maloja, che scorrono attraverso le montagne fluttuando con una scia simile a un serpente sinuoso, senza farsi scomporre da cime aguzze e da altri ostacoli (il film muto di riferimento per quell’immagine di placida maestosità è Cloud Phenomena of Maloja di Arnold Fanck, del 1924).
Assayas guarda a un cinema nobile, da palcoscenico ed elegante, ma non è mai derivativo - morirebbe, piuttosto - e ciò è un pregio a dir poco macroscopico. La costruzione del suo film è arguta ma non ha la pretesa di salire in cattedra, è ironica, amara e sottile ma senza apparentemente scendere poi troppo a fondo. È la superficie stessa che, hegelianamente, conserva la maggiore profondità possibile, trattenendo su di essa contraddizioni e scontri dialettici, oltre che naturalmente, come detto, generazionali: il confronto tra Maria (Juliette Binoche), diva navigata, e la sua giovane assistente Valentina, interpretata da una Kristen Stewart che in questo caso trasforma la sua consueta svogliatezza in magnetismo, è messo in campo da Assayas con un’attenzione millimetrica all’essenziale e alla sua necessità (oggi) imprescindibile. Quasi come se il suo film fosse immerso in un voto di castità estremo ma non punitivo, che intende far emergere il meraviglioso, geometrico equilibrio tra la vita e le forme del racconto deputate a restituirla attraverso la potenza di gesti e dialoghi certamente contenuti ed evidentemente ordinari, ma impregnati di senso.
Non stupisce, dunque, se Sils Maria procede come se fosse una prova teatrale in movimento, con l’assistente che fa da spalla all’attrice per aiutarla a provare le sue battute leggendo quelle del suo interlocutore di finzione. Il film, seguendo con fedeltà queste coordinate, si tramuta in un’opera-specchio e in una sessione d’analisi a due voci, che divora tutto e si sofferma su tutto, con calma olimpica e senza frenesia. Che intende riflettere sulla tensione tra la vita e la sua rappresentazione, come si diceva, ma anche sull’importanza dell’autenticità al cospetto del gioco di prestigio. E, per far ciò, si prende il suo tempo. Tutto il tempo.
Assayas non lo dice in modo netto e non si sognerebbe mai una sfacciataggine simile, ma il suo film è (dietro la cristallina serenità di chi riposa sulle nuvole e non si affanna per capire, perché gli basta solo guardare meglio per mettere a fuoco) un grido d’allarme. Contro un mondo in cui non dovrebbe essere permesso piangersi addosso, contro la banalità del rimpianto del passato al tempo delle opportunità seriali e dei new media sempre all’erta e sempre pronti a immortalare la cronaca in tempo reale, da TMZ a salire (il discorso del film sulla contemporaneità è di un’onestà abbagliante); contro l’assenza di concretezza fine a se stessa di chi, occupandosi di arte, deve per forza essere criptico, fuori dal tempo, novecentesco: nel finale, Maria Enders bacchetta un giovane regista dicendogli: “È troppo astratto, mi spiace, non la capisco”. Quale j’accuse in apparenza innocuo ma in realtà acutissimo per smascherare l’ansia per la costruzione a tavolino di certi artisti da sé incoronatisi (e certe immagini), la corsa all’arzigogolo, l’accumulo di dettagli descrittivi soffocanti e superflui, nel cinema come in (certa) letteratura?
Sils Maria, in seconda battuta ma mica tanto di soppiatto, è anche un film sulla fragilità dei contorni della finzione, cinematografica e non, e dei suoi meccanismi: quando una giovane attrice al centro del gossip e spregiudicata, Jo-Ann Ellis ( Chloë Grace Moretz ) ottiene la parte che rese famosa Maria, costei non può fare a meno di sentirsi scalzata, estromessa anzitempo da una vita e un ruolo che sono stati solo suoi e di nessun altro. Basta il semplice scorrere del tempo, dunque, a cambiare le carte in tavola, a compromettere gli equilibri, a rovesciare la qualsiasi? Assayas se lo chiede senza darsi la risposta, e noi con lui, in una sospensione della consapevolezza che è la medicina migliore per abbandonare le proprie certezze per strada e mettersi in cammino verso nuove, meno ovvie acquisizioni.
Sils Maria, in tal senso, è una lezione, nel senso più alto immaginabile: ci spinge non tanto a non essere vanamente superbi, quanto a essere vigili, a prestare attenzione a ciò che è solo sulla carta insignificante e perfino ad appassionarsi a esso. L’unico atto di resistenza possibile in un momento storico in cui le sfumature non sembrano più contare nulla (Jo Ann-Ellis non accetta i consigli di Maria per connotare meglio una battuta, nel finale, e la butta lì estemporaneamente), né tanto meno meritare asilo. A nessun livello.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Cannes 67, Film al cinema
Scheda tecnica
Regia: Olivier Assayas
Sceneggiatura: Olivier Assayas
Fotografia: Yorick Le Saux
Montaggio: Marion Monnier
Anno: 2014
Durata: 124’
Attori: Juliette Binoche, Kristen Stewart, Chloë Grace Moretz
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