Ripensando alla visione di
Un risultato oggi più unico che raro, parlare in termini di denuncia senza utilizzare gli strumenti della denuncia classica, tale da giustificare a occhi chiusi l’inclusione in quello che è ancora il massimo cine-concorso del mondo (in quanto a prestigio e nomi ospitati). Faceva la stessa cosa, anche se con una dose di follia anarcoide ben maggiore, così gaia da risultare spiazzante e – per qualcuno – addirittura irricevibile, l’ultimo film di Pedro Almodovar , Gli amanti passeggeri, non a caso sbertucciato e sottovalutato un po’ da chiunque proprio perché si concedeva il peccato mortale di una leggerezza fuori di testa che non era per una volta né mélo macchiettistico né commedia scorrettissima, ma una brillante, pungente fusione dei due aspetti. Un ibrido forse imperdonabile, ma che al di là della scatologia e di molte gag imbarazzanti era in grado di servirsi della sua inclassificabile libertà per sparare a zero su qualsiasi bersaglio gli capitasse a tiro.
Il film di Damian Szifron , che non a caso dai fratelli Almodovar è prodotto, non dista di molto da tali parametri, ma vi aggiunge una struttura episodica solo apparentemente sfilacciata, una corrosività che incenerisce ogni sana istanza di politicamente corretto e, last but not least, un controllo registico impressionante e spericolato. La sovrapposizione di questi elementi produce esiti famelici: il prologo, come il succitato film di Almodovar, è ambientato su un aereo, in cui pian piano tutti i passeggeri rivelano di aver avuto a che fare con un tizio di nome Gabriel Pasternak; nel primo episodio una donna si ritrova nel suo ristorante l’usuraio che ha indotto il padre al suicidio e dovrà reprimere l’istinto fortissimo di vendicarsi a morte; nel secondo un duello tra un automobilista e un balordo assume le sembianze di una lotta a due senza esclusione di colpi, tra violenza parossistica e scontri corpo a corpo; nel terzo il personaggio di Ricardo Darìn, attore simbolo della nueva ola argentina, un pompiere di nome Bombita (!), si ritroverà a fare i conti con un’odissea kafkiana a seguito di un parcheggio in divieto di sosta; infine, rispettivamente nel quarto e nel quinto, una famiglia benestante tenterà di coprire il figlio pirata della strada e omicida ma gli interessi di ognuno si metteranno di mezzo, e una giovane coppia vedrà il proprio matrimonio passare dall’idillio a un grottesco e ghignante scempio all’insegna dei torti reciproci, delle recriminazioni e delle ritorsioni.
Posto così pare già tutto molto incline a premere sul pedale dell’acceleratore, ma la realtà del film è anche peggio: l’andamento incessante e caleidoscopico insegue il ritmo di un tango mortifero, e lo specchio deformante proprio della commedia e dei suoi mostruosi abitanti, un aspetto che nel cinema comico di casa nostra ha purtroppo smesso di esistere da tempo, diventa l’unica chiave di lettura per parlare di contraddizioni sociali, di vizi capitali e di cancrene morali, di una società media al collasso, post-globalizzata e quasi post-umana. La messa alla berlina è dunque tanto caustica quanto puntuale e focalizzata sull’oggi, attaccata alle strutture del mondo, alle maschere d’ipocrisia che gli uomini più ordinari si tatuano sulla faccia e all’idiozia generalizzata che consente loro di portare a compimento i loro deprecabili scopi.
I titoli di testa ci mostrano, non a caso, animali rapaci e pericolosi, e l’equazione è così presto risolta: i racconti selvaggi di Szifron, sotto la verniciata di commedia dark che può portare molti a liquidare il film come un esercizio di stile in maniera tanto comoda quanto frettolosa, nascondono gli ingranaggi consolidati e i motori ideologici tristemente noti di un’umanità succube di un istinto animalesco applicato un po’ ovunque, come se l’anti-illuminismo predatore fosse l’unico parametro comportamentale oggigiorno accettato, nei rapporti sociali e nelle scelte che includono la collettività. Essere divertiti e inchiodati alla poltrona, in casi e con film come questi, è un’esperienza spettatoriale sì eccellente ma in definitiva tutt’altro che piacevole.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Cannes 67, Film al cinema
Scheda tecnica
Regia: Damian Szifron
Sceneggiatura: Damian Szifron
Fotografia: Javier Julia
Musiche: Gustavo Santaolalla
Anno: 2014
Durata: 122’
Attori: Ricardo Darín, Leonardo Sbaraglia, Darío Grandinetti, Erica Rivas, Julieta Zylberberg
Uscita italiana: 11 dicembre 2014
Relatos Salvajes (Storie pazzesche) di Damian Szifron, presentato in concorso all’ultimo festival di Cannes, torna alla mente non solo l’originalità stralunata e obliqua di molto cinema argentino contemporaneo (una cinematografia in crescita, senza ombra di dubbio), ma anche la forza dirompente di un film che riesce nell’impresa di dire qualcosa sulla società e perfino sui rapporti di classe attraverso l’utilizzo sfrontato di un’ironia a tutto campo, che fa non sconti e trova un palese piacere nell’ostentare la propria irriducibile cattiveria. Un risultato oggi più unico che raro, parlare in termini di denuncia senza utilizzare gli strumenti della denuncia classica, tale da giustificare a occhi chiusi l’inclusione in quello che è ancora il massimo cine-concorso del mondo (in quanto a prestigio e nomi ospitati). Faceva la stessa cosa, anche se con una dose di follia anarcoide ben maggiore, così gaia da risultare spiazzante e – per qualcuno – addirittura irricevibile, l’ultimo film di Pedro Almodovar , Gli amanti passeggeri, non a caso sbertucciato e sottovalutato un po’ da chiunque proprio perché si concedeva il peccato mortale di una leggerezza fuori di testa che non era per una volta né mélo macchiettistico né commedia scorrettissima, ma una brillante, pungente fusione dei due aspetti. Un ibrido forse imperdonabile, ma che al di là della scatologia e di molte gag imbarazzanti era in grado di servirsi della sua inclassificabile libertà per sparare a zero su qualsiasi bersaglio gli capitasse a tiro.
Il film di Damian Szifron , che non a caso dai fratelli Almodovar è prodotto, non dista di molto da tali parametri, ma vi aggiunge una struttura episodica solo apparentemente sfilacciata, una corrosività che incenerisce ogni sana istanza di politicamente corretto e, last but not least, un controllo registico impressionante e spericolato. La sovrapposizione di questi elementi produce esiti famelici: il prologo, come il succitato film di Almodovar, è ambientato su un aereo, in cui pian piano tutti i passeggeri rivelano di aver avuto a che fare con un tizio di nome Gabriel Pasternak; nel primo episodio una donna si ritrova nel suo ristorante l’usuraio che ha indotto il padre al suicidio e dovrà reprimere l’istinto fortissimo di vendicarsi a morte; nel secondo un duello tra un automobilista e un balordo assume le sembianze di una lotta a due senza esclusione di colpi, tra violenza parossistica e scontri corpo a corpo; nel terzo il personaggio di Ricardo Darìn, attore simbolo della nueva ola argentina, un pompiere di nome Bombita (!), si ritroverà a fare i conti con un’odissea kafkiana a seguito di un parcheggio in divieto di sosta; infine, rispettivamente nel quarto e nel quinto, una famiglia benestante tenterà di coprire il figlio pirata della strada e omicida ma gli interessi di ognuno si metteranno di mezzo, e una giovane coppia vedrà il proprio matrimonio passare dall’idillio a un grottesco e ghignante scempio all’insegna dei torti reciproci, delle recriminazioni e delle ritorsioni.
Posto così pare già tutto molto incline a premere sul pedale dell’acceleratore, ma la realtà del film è anche peggio: l’andamento incessante e caleidoscopico insegue il ritmo di un tango mortifero, e lo specchio deformante proprio della commedia e dei suoi mostruosi abitanti, un aspetto che nel cinema comico di casa nostra ha purtroppo smesso di esistere da tempo, diventa l’unica chiave di lettura per parlare di contraddizioni sociali, di vizi capitali e di cancrene morali, di una società media al collasso, post-globalizzata e quasi post-umana. La messa alla berlina è dunque tanto caustica quanto puntuale e focalizzata sull’oggi, attaccata alle strutture del mondo, alle maschere d’ipocrisia che gli uomini più ordinari si tatuano sulla faccia e all’idiozia generalizzata che consente loro di portare a compimento i loro deprecabili scopi.
I titoli di testa ci mostrano, non a caso, animali rapaci e pericolosi, e l’equazione è così presto risolta: i racconti selvaggi di Szifron, sotto la verniciata di commedia dark che può portare molti a liquidare il film come un esercizio di stile in maniera tanto comoda quanto frettolosa, nascondono gli ingranaggi consolidati e i motori ideologici tristemente noti di un’umanità succube di un istinto animalesco applicato un po’ ovunque, come se l’anti-illuminismo predatore fosse l’unico parametro comportamentale oggigiorno accettato, nei rapporti sociali e nelle scelte che includono la collettività. Essere divertiti e inchiodati alla poltrona, in casi e con film come questi, è un’esperienza spettatoriale sì eccellente ma in definitiva tutt’altro che piacevole.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Cannes 67, Film al cinema
Scheda tecnica
Regia: Damian Szifron
Sceneggiatura: Damian Szifron
Fotografia: Javier Julia
Musiche: Gustavo Santaolalla
Anno: 2014
Durata: 122’
Attori: Ricardo Darín, Leonardo Sbaraglia, Darío Grandinetti, Erica Rivas, Julieta Zylberberg
Uscita italiana: 11 dicembre 2014