Il moccio al naso, i capelli della protagonista raccolti in una coda selvaggia mentre si dimenano al suono della hit di Lykke Li I follow rivers, languori, lacrime di piacere, di sincera euforia e profonda tristezza, aloni di salsa sulle labbra torride e affamate, quanto di più carnale la vita ha da offrire. Quella vita da cui Kechiche ruba incalzando la realtà da vicinissimo, tanto da sgranare la nostra percezione, costringendoci a un’immedesimazione totale. C’è talmente tanta vita vera, nel film, che l’aforisma di Cocteau secondo cui il cinema sarebbe la morte al lavoro potrebbe anche essere messo in discussione.
Qui infatti sono le pulsioni del vitalismo più assoluto a zufolare nel fango limaccioso delle cose, alimentandosi a una sorgente inesauribile di piaceri e sensazioni brucianti. A scorrere sullo schermo è un processo di maturazione di cui avvertiamo fisicamente le singole fasi, tanto che alla fine di tutto Adèle - ma anche la sua compagna di vita e di letto Emma (Léa Seydoux) - si ha la sensazione di conoscerle da sempre, come vecchie amiche i cui palpiti ti sembrano così reali che potresti stringerli al cuore come fai col tuo cuscino mentre t’addormenti. Familiari, lontanissime perché relegate nel regno della finzione, eppure mai così vicine all’esperienza diretta da parte dello spettatore.
La vie d’Adèle con quella sua divisione in capitoli si fa già saga truffautiana e doineliana della quale attendiamo frementi i successivi sviluppi. Con dolcezza, senza effettismi né cinematografici né letterari - sebbene il film s’ispiri idealmente a La vie de Marianne di Marivaux - Kechiche ci ha regalato un frammento fluviale e torrenziale di verità assoluta che ha il pregio di non mimare le scorciatoie del cinema dal vero, aggirando l’ostacolo delle definizioni rigide. Delle due protagoniste e del loro amore lesbico e universale quei primi piani onnipresenti che concedono pochissimi totali ci restituiscono la presa diretta, lo sbocciare inarginabile di due fiori bellissimi e preziosi, quasi a scrutarne gli organi interni ed esterni anche meno “letterariamente” nobili del cuore ma senza mai mostrarceli, negando secrezioni e isole del piacere in un meccanismo di reticenze che sublima il sesso come plastica opera d’arte, lontana dalla pornografia e dall’asservimento a un immaginario a uso e consumo del pensiero masturbatorio maschile.
Kechiche si limita a mostrare questa storia nella sua semplicità, per quel che è; un girl meets girl fatto di sorrisi che mutano in baci simili a morsi, di sesso meraviglioso, di corpi che si sfiorano violentemente e si sovrappongono ansanti come portali di erotismo gioioso. Il cibo, le pagine di un libro, una panchina, due volti vicini nella luce di un sole tiepido: tutto questo è La vie d’Adèle, un film che simula la percezione del bergsoniano “tempo della vita”, senza ellissi e trucchetti, che dura tre ore ma potrebbe durare per sempre e non ce ne stancheremmo affatto.
Camera a mano, focali lunghe, un bum bum continuo di assalto ai sensi, cinema liminale che travalica il confine della finzione abbattendolo con la stessa furiosa, rassodata dolcezza dei bellissimi amplessi delle protagoniste. Il sesso dopotutto è una questione prima mentale che fisica e non può esistere nella sua forma più travolgente e passionale senza prima aver sposato una comune visione del mondo, o senza prima essere stati incorniciati dallo stesso raggio di luce abbagliante che fende un prato durante un picnic. “Non pensare a chi è l’oggetto dell’amore, pensa all’amore”. Così come in questo caso non si pensa al cinema e alla letteratura come oggetti da plasmare ad abuso e consumo dell’autore, ma come detto si va direttamente alla vita, nel film e più in generale nell’idea di cinema di Kechiche, che mai come in questo caso aveva trovato una materializzazione tanto luminosa e irrinunciabile.
Nella protagonista Adèle Exarchopoulos, “contorta e pazza” eppure tenera e banalissima nell’affogare il dolore nel cioccolato, così come nell’apertura della sua bocca carnosa a rivelare i denti sporgenti, si insinua tutta il fascino traspirante e arioso di un film che non ha paura di sfogarsi e donarsi e che lo fa senza chiedere nulla in cambio, impudico e trionfante nella sua generosità assoluta. La carne, il grasso che cola, il sugo della vita che bolle e ribolle. E poi il bagnarsi dei pianti dell’amata, loro due e nessun altro, così vicine da toccarsi nel profondo. Belle e morbide, vedersi e respirarsi. Lo sguardo stuprato dalla stanchezza e dal peso della propria arte di Emma, i suoi capelli blu. Il muscolo della mandibola di Adèle che si contrae in una fossetta divertita o accompagna il rossore spregiudicato di un volto imbarazzato o contorto e sfigurato da una sensualità ferina, a seconda dei momenti. Il debolissimo ma incantato mistero dei visi e delle creature umane, a svettare sopra ogni altra cosa.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Cannes 2013
Scheda tecnica
Regia: Abdellatif Kechiche
Sceneggiatura: Abdellatif Kechiche, Ghalia Lacroix (dal romanzo grafico Le bleu est une couleur chaude di Julie Maroh)
Fotografia: Sofian El Fani
Montaggio: Camille Toubkis, Albertine Lastera, Jean-Marie Lengelle,Ghalya Lacroix
Scenografia: Julia Lemaire
Anno: 2013
Durata: 179’
Uscita in Italia: 24 ottobre 2013
Interpreti: Léa Seydoux, Adèle Exarchopoulos, Jeremie Laheurte, Catherine Salée, Aurélien Recoing
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