Salvo di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia è quanto di più coraggioso si possa chiedere a un esordio, è l’affermazione potenziata di uno sguardo risoluto e consapevolmente diverso, è la dimostrazione matematica che la radicalità di una visione e di un’idea che appassiona i suoi realizzatori può traghettare un film verso territori impervi e rischiosi dando però allo stesso tempo - ed è ciò che più conta - tutte le chiavi per aprire le serrature più difficili.
Salvo ha infatti nell’arsenale delle sue risorse tutti gli strumenti adeguati per venir fuori egregiamente da buona parte di quelle paludi che l’innegabile ambizione di un esordio così d’impatto unita all’inesperienza di chi sta dietro una macchina da presa per la prima volta può recare con sé. Ha convinzione, e soprattutto personalità da vendere. Tanto da poter quasi risultare supponente, nella sue pose oltranziste e immobili, nella sacralità registica esasperata che si concede un (bellissimo) piano-sequenza di venti minuti per introdurre i due protagonisti e un inseguimento iniziale che sorprende in positivo per la classe e la ruvida raffinatezza con cui è girato, immerso come meglio non si potrebbe nel brullo e ingiallito paesaggio siciliano. Una sensazione che però è bello (e necessario) provvedere subito a smentire: in Salvo non c’è gratuità e lo stile è funzionale a un preciso discorso esistenziale e filosofico sui tempi e i modi del racconto, sulla valenza straniante delle location e del fuori campo utilizzato con ricercata efficacia.
È un’opera che toglie, toglie, toglie. Non aggiunge nulla, scarnifica all’ennesima potenza e lega a sé lo spettatore trascinandolo nella partecipata condivisione di un’essenzialità che da formale diventa anche e soprattutto emotiva e istintiva. Man mano che il film prosegue - e s’inceppa anche girando un po’ a vuoto, perché è comunque un’opera prima e di sicuro è ben lontana dalla perfezione - si ha l’impressione di pensare e guardare sempre più al film con gli occhi non più della mente ma della pancia e del cuore. Al rigido e ragionativo approccio iniziale, veicolato dagli stessi registi, si sostituisce uno strato epidermico e profondo di sonorità alle quali si reagisce rimanendo tesi e guardinghi, aspettando lo sparo, la mazzata, il lampo, la stoccata, l’accensione improvvisa, il mutare dell’abbaiare del cane più vicino, affinché si tramuti in qualcosa di diverso e minaccioso. Lo scagnozzo della mafia che dà il nome al titolo si muove in quest’arazzo come uno squalo predatore, come certi eroi del polar transalpino o del western, silenti e stringatissimi, che danno l’idea di essere concentrati solo e soltanto sul rivoletto di sudore dell’avversario o peggio ancora sulla tensione bassa del proprio baricentro, come gli attori di teatro professionisti.
Qualcosa nella vita di Salvo è però destinata a cambiare e il senso di quel fato che non si può evitare è tutto nei lividi e nelle tumefazioni della fotografia di Daniele Ciprì, di fatto un terzo autore del film con la sua somma maestria nella creazione della consistenza interna e cromatica delle immagini e un collaboratore di primo piano anche nella gestione dei movimenti di macchina, in particolar modo per quel che riguarda la simulazione della cecità di Rita, interpretata dalla giovane Sara Serraiocco: un’attrice semplicemente divina in quanto a mimesi recitativa, eccezionale nel trasformarsi in un angelo delle tenebre ostile alla luce e straordinaria nel far propria sulla sua pelle martoriata ed escoriata il miracolo che le ha fatto riottenere la vista dopo l’assassinio del fratello da parte di Salvo e a seguito del quale il killer, di fatto, non la lascerà più.
Lo scontro fisico che Salvo e Rita intrattengono, il primo dei tanti, apre una breccia nel cuore di entrambi che pian piano si dilaterà sempre più come delle progressive contrazioni uterine, aprendo i due personaggi al miracolo altrettanto grande della vita partecipata e di un amore impossibile e post-apocalittico da condividere. Una love story di soli sussurri e grida, di silenzi e gesti mancati che danno il triplo del valore a quei pochi attimi d’intimità che invece ci sono eccome, veri e significanti come non mai. Del loro mondo interiore nulla ci viene raccontato ed è meglio così: perché al cinema le pennellate e gli archetipi funzionano meglio delle spiegazioni viste e riviste cento volte, e una storia di patimenti languidi, accennati e struggenti che penetrano nel rapporto tra i due innamorati solo alla fine, dopo tanti momenti di riottosa ostilità, è una preziosa rarità da accogliere a braccia spalancate.
Tant’è che Salvo, oltre a raccontare di un’epifania, è epifanico esso stesso, e non solo perché è una delle opere prime italiane più importanti degli ultimi dieci anni e più (e all’estero, dove forse masticano più cinema vero che da noi, se ne sono infatti già accorti e anche da un bel pezzo). Piuttosto perché sa superare l’obbligo della scrittura e dei suoi diktat oppressivi e spesso castranti con l’universalità delle maschere che propone e con la bellezza altrettanto universale di un tramonto visto e percepito dal balcone di una terrazza in diverse gradazioni di colore, perché riesce perfino a rendere simpatici e necessari i Modà, perché allude a ciò che non si vede in ogni sua inquadratura e proprio per questo motivo rende ogni immagine pressoché irripetibile.
Salvo è insomma la quintessenza del film tattile, da vivere e toccare con mano sequenza per sequenza, nero come la pece ma luminoso come il bianco di una colomba che fende l’oscurità.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Cannes 2013
Scheda tecnica
Anno: 2013
Regia: Antonio Piazza e Fabio Grassadonia
Sceneggiatura: Antonio Piazza e Fabio Grassadonia
Fotografia: Daniele Ciprì
Montaggio: Desideria Rayner
Scenografia: Marco Dentici
Musiche: Philippe Rombi
Durata: 103’
Interpreti: Saleh Bakri, Sara Serraiocco, Luigi Lo Cascio, Giuditta Perriera, Mario Pupella, Redouane Behache, Jacopo Menicagli
Salvo ha infatti nell’arsenale delle sue risorse tutti gli strumenti adeguati per venir fuori egregiamente da buona parte di quelle paludi che l’innegabile ambizione di un esordio così d’impatto unita all’inesperienza di chi sta dietro una macchina da presa per la prima volta può recare con sé. Ha convinzione, e soprattutto personalità da vendere. Tanto da poter quasi risultare supponente, nella sue pose oltranziste e immobili, nella sacralità registica esasperata che si concede un (bellissimo) piano-sequenza di venti minuti per introdurre i due protagonisti e un inseguimento iniziale che sorprende in positivo per la classe e la ruvida raffinatezza con cui è girato, immerso come meglio non si potrebbe nel brullo e ingiallito paesaggio siciliano. Una sensazione che però è bello (e necessario) provvedere subito a smentire: in Salvo non c’è gratuità e lo stile è funzionale a un preciso discorso esistenziale e filosofico sui tempi e i modi del racconto, sulla valenza straniante delle location e del fuori campo utilizzato con ricercata efficacia.
È un’opera che toglie, toglie, toglie. Non aggiunge nulla, scarnifica all’ennesima potenza e lega a sé lo spettatore trascinandolo nella partecipata condivisione di un’essenzialità che da formale diventa anche e soprattutto emotiva e istintiva. Man mano che il film prosegue - e s’inceppa anche girando un po’ a vuoto, perché è comunque un’opera prima e di sicuro è ben lontana dalla perfezione - si ha l’impressione di pensare e guardare sempre più al film con gli occhi non più della mente ma della pancia e del cuore. Al rigido e ragionativo approccio iniziale, veicolato dagli stessi registi, si sostituisce uno strato epidermico e profondo di sonorità alle quali si reagisce rimanendo tesi e guardinghi, aspettando lo sparo, la mazzata, il lampo, la stoccata, l’accensione improvvisa, il mutare dell’abbaiare del cane più vicino, affinché si tramuti in qualcosa di diverso e minaccioso. Lo scagnozzo della mafia che dà il nome al titolo si muove in quest’arazzo come uno squalo predatore, come certi eroi del polar transalpino o del western, silenti e stringatissimi, che danno l’idea di essere concentrati solo e soltanto sul rivoletto di sudore dell’avversario o peggio ancora sulla tensione bassa del proprio baricentro, come gli attori di teatro professionisti.
Qualcosa nella vita di Salvo è però destinata a cambiare e il senso di quel fato che non si può evitare è tutto nei lividi e nelle tumefazioni della fotografia di Daniele Ciprì, di fatto un terzo autore del film con la sua somma maestria nella creazione della consistenza interna e cromatica delle immagini e un collaboratore di primo piano anche nella gestione dei movimenti di macchina, in particolar modo per quel che riguarda la simulazione della cecità di Rita, interpretata dalla giovane Sara Serraiocco: un’attrice semplicemente divina in quanto a mimesi recitativa, eccezionale nel trasformarsi in un angelo delle tenebre ostile alla luce e straordinaria nel far propria sulla sua pelle martoriata ed escoriata il miracolo che le ha fatto riottenere la vista dopo l’assassinio del fratello da parte di Salvo e a seguito del quale il killer, di fatto, non la lascerà più.
Lo scontro fisico che Salvo e Rita intrattengono, il primo dei tanti, apre una breccia nel cuore di entrambi che pian piano si dilaterà sempre più come delle progressive contrazioni uterine, aprendo i due personaggi al miracolo altrettanto grande della vita partecipata e di un amore impossibile e post-apocalittico da condividere. Una love story di soli sussurri e grida, di silenzi e gesti mancati che danno il triplo del valore a quei pochi attimi d’intimità che invece ci sono eccome, veri e significanti come non mai. Del loro mondo interiore nulla ci viene raccontato ed è meglio così: perché al cinema le pennellate e gli archetipi funzionano meglio delle spiegazioni viste e riviste cento volte, e una storia di patimenti languidi, accennati e struggenti che penetrano nel rapporto tra i due innamorati solo alla fine, dopo tanti momenti di riottosa ostilità, è una preziosa rarità da accogliere a braccia spalancate.
Tant’è che Salvo, oltre a raccontare di un’epifania, è epifanico esso stesso, e non solo perché è una delle opere prime italiane più importanti degli ultimi dieci anni e più (e all’estero, dove forse masticano più cinema vero che da noi, se ne sono infatti già accorti e anche da un bel pezzo). Piuttosto perché sa superare l’obbligo della scrittura e dei suoi diktat oppressivi e spesso castranti con l’universalità delle maschere che propone e con la bellezza altrettanto universale di un tramonto visto e percepito dal balcone di una terrazza in diverse gradazioni di colore, perché riesce perfino a rendere simpatici e necessari i Modà, perché allude a ciò che non si vede in ogni sua inquadratura e proprio per questo motivo rende ogni immagine pressoché irripetibile.
Salvo è insomma la quintessenza del film tattile, da vivere e toccare con mano sequenza per sequenza, nero come la pece ma luminoso come il bianco di una colomba che fende l’oscurità.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Cannes 2013
Scheda tecnica
Anno: 2013
Regia: Antonio Piazza e Fabio Grassadonia
Sceneggiatura: Antonio Piazza e Fabio Grassadonia
Fotografia: Daniele Ciprì
Montaggio: Desideria Rayner
Scenografia: Marco Dentici
Musiche: Philippe Rombi
Durata: 103’
Interpreti: Saleh Bakri, Sara Serraiocco, Luigi Lo Cascio, Giuditta Perriera, Mario Pupella, Redouane Behache, Jacopo Menicagli