Alexander Payne è uno di quei registi che al terzo o quarto film diventano in qualche modo familiari, un po’ come quei vecchi amici di lunga data che rivedi magari una volta ogni due o tre anni ma dei quali potresti benissimo prevedere sempre mossette e comportamenti, atteggiamenti e opinioni. Li conosci così bene che la sorpresa e lo spiazzamento da parte loro ormai non le pretenderesti mai e poi mai e in nessuna occasione, a meno di non voler suonare irreale prima di tutto alle tue stesse orecchie.
È anche vero però che a questa tipologia di amici non sapresti in alcun modo rinunciare, perché rientrare nel loro mondo di piccole, grandi cose sempre uguali a se stesse è ogni volta un esercizio familiare e nostalgico non da poco. A stare con loro ti senti in qualche modo a casa, ed entri in un clima ovattato e carezzevole che altrove è pressoché irripetibile.
Ecco, il cinema di Alexander Payne è proprio così. Costruito su luoghi e allitterazioni nella provincia americana, scenari e personaggi che si ripetono, situazioni e umori che ritornano e si rincorrono. Il viaggio come pretesto per re-indagare i misteri delle proprie origini culturali e identitarie, per ritrovare se stessi, banalmente, senza andare troppo lontano. Semplicemente risalendo a quei territori del paesaggio a stelle e strisce più sepolti e periferici, quelli delle highways e dei motel scalcinati, delle villette a schiera dai giardini sproporzionati e dai volti così peculiari. Il road movie di Jack Nicholson in A proposito di Schmidt aveva proprio questa precisa valenza, era un recupero e una riappropriazione di sé, un percorso a ritroso in un'intimità del protagonista sepolta chissà dove, tra scorie e recriminazioni, delusioni e ammaccamenti di vario tipo che a quell’età avanzata, ormai, invocano a gran voce l’urgenza di essere superati una volta per tutte.
Un ritorno alla vita, insomma. Una dimensione che ritorna con la stessa malinconia e un’identica levità tanto buffa quanto goffa anche in Nebraska, l’ultimo lavoro di Payne passato in concorso a Cannes 2013, che proprio come il film con Nicholson non disdegna neanche lo humour obliquo e lo sguardo sgraziato sugli abitanti delle lande dell’America manifatturiera e piccolo borghese, inquadrandoli con un’ironia che spesso e volentieri sfocia nel satirico, nella messa alla berlina tagliente ma sempre e comunque addolcita dall’affetto e dall’indulgenza che Payne mette nell’accarezzare i suoi personaggi.
In Nebraska l’on the road alla ricerca delle radici profonde del sogno americano è quello fuori tempo massimo di Woody Grant, anziano alcolista con una moglie che lo detesta cordialmente e un figlio che vorrebbe provare a regalargli un ultimo barlume d’illusione prima che gli acciacchi fisici crescenti e l’abuso di alcol lo prostrino completamente nello spirito e nella mente, rendendolo ancora più incosciente della realtà di quanto già non sia.
Ecco che allora quella convinzione impossibile di dover andare a ritirare un milione di dollari in quanto destinatario di un premio che altro non è che una bislacca letterina per ingannare qualche anziano credulone si tramuta nell’ultima delle utopie possibili, da inseguire col corpo e col cuore dal Montana fino a Lincoln, in Nebraska, a (ennesima) riprova del carattere fondativo di quest’avventura che percorre delle strade e degli spazi che fin dai nomi rievocano la quintessenza originaria degli Stati Uniti. L'America, quella cantata da Bruce Springsteen nelle sue ballate ruvide e popolari, così affini allo spirito di una middle class lavorativa e sfatta, consumata dagli anni e dalle stagioni che passano inesorabili, portatrice sana di un sogno ammaccato e scalfito dal tempo ma non per questo defunto. Un sogno che vive nella densità colma di malinconia del bianco e nero saturo in cui Payne avvolge la sua storia, una scelta espressiva piacevole e sorprendente per un regista che fino ad ora aveva sempre prediletto colori medi e intermedi, mai così autunnali.
Nebraska è probabilmente il suo film migliore, il più compiuto ed equilibrato, il più profondo e poetico, in cui l’ironia delle situazioni rocambolesche fa il paio con alcune fortunose sequenze di Sideways (la scena del furto nella dimora degli onesti vicini ricorda da non molto lontano quella di Paul Giamatti che si industriava per recuperare le fedi con i nomi incisi in sanscrito dell’amico Thomas Haden Church). Negli occhi da talpa miope, vitrei e nerissimi dello strepitoso protagonista Bruce Dern, gran vecchia colonna del cinema americano e premiato come miglior attore a Cannes (scelta irreprensibile che uno col vissuto e il background di Spielberg non avrebbe potuto non compiere), c’è tutta l’incompiutezza intristita di speranze e visioni idilliache non realizzate, la consapevolezza di aver vissuto in un Eden negato di promesse non mantenute, in cui è di fatto solo la gioia derivante dalle cose modeste e all'apparenza non così importanti a poter regalare un’ultima, preziosa e in fondo non così effimera soddisfazione.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Cannes 2013, Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: Nebraska
Anno: 2013
Regia: Alexander Payne
Sceneggiatura: Bob Nelson
Fotografia: Phedon Papamichael
Montaggio: Kevin Tent
Colonna sonora: Mark Orton
Durata: 110'
Uscita italiana: 16 gennaio 2014
Attori: Bruce Dern, Will Forte, June Squibb, Bob Odenkirk, Stacy Keach
È anche vero però che a questa tipologia di amici non sapresti in alcun modo rinunciare, perché rientrare nel loro mondo di piccole, grandi cose sempre uguali a se stesse è ogni volta un esercizio familiare e nostalgico non da poco. A stare con loro ti senti in qualche modo a casa, ed entri in un clima ovattato e carezzevole che altrove è pressoché irripetibile.
Ecco, il cinema di Alexander Payne è proprio così. Costruito su luoghi e allitterazioni nella provincia americana, scenari e personaggi che si ripetono, situazioni e umori che ritornano e si rincorrono. Il viaggio come pretesto per re-indagare i misteri delle proprie origini culturali e identitarie, per ritrovare se stessi, banalmente, senza andare troppo lontano. Semplicemente risalendo a quei territori del paesaggio a stelle e strisce più sepolti e periferici, quelli delle highways e dei motel scalcinati, delle villette a schiera dai giardini sproporzionati e dai volti così peculiari. Il road movie di Jack Nicholson in A proposito di Schmidt aveva proprio questa precisa valenza, era un recupero e una riappropriazione di sé, un percorso a ritroso in un'intimità del protagonista sepolta chissà dove, tra scorie e recriminazioni, delusioni e ammaccamenti di vario tipo che a quell’età avanzata, ormai, invocano a gran voce l’urgenza di essere superati una volta per tutte.
Un ritorno alla vita, insomma. Una dimensione che ritorna con la stessa malinconia e un’identica levità tanto buffa quanto goffa anche in Nebraska, l’ultimo lavoro di Payne passato in concorso a Cannes 2013, che proprio come il film con Nicholson non disdegna neanche lo humour obliquo e lo sguardo sgraziato sugli abitanti delle lande dell’America manifatturiera e piccolo borghese, inquadrandoli con un’ironia che spesso e volentieri sfocia nel satirico, nella messa alla berlina tagliente ma sempre e comunque addolcita dall’affetto e dall’indulgenza che Payne mette nell’accarezzare i suoi personaggi.
In Nebraska l’on the road alla ricerca delle radici profonde del sogno americano è quello fuori tempo massimo di Woody Grant, anziano alcolista con una moglie che lo detesta cordialmente e un figlio che vorrebbe provare a regalargli un ultimo barlume d’illusione prima che gli acciacchi fisici crescenti e l’abuso di alcol lo prostrino completamente nello spirito e nella mente, rendendolo ancora più incosciente della realtà di quanto già non sia.
Ecco che allora quella convinzione impossibile di dover andare a ritirare un milione di dollari in quanto destinatario di un premio che altro non è che una bislacca letterina per ingannare qualche anziano credulone si tramuta nell’ultima delle utopie possibili, da inseguire col corpo e col cuore dal Montana fino a Lincoln, in Nebraska, a (ennesima) riprova del carattere fondativo di quest’avventura che percorre delle strade e degli spazi che fin dai nomi rievocano la quintessenza originaria degli Stati Uniti. L'America, quella cantata da Bruce Springsteen nelle sue ballate ruvide e popolari, così affini allo spirito di una middle class lavorativa e sfatta, consumata dagli anni e dalle stagioni che passano inesorabili, portatrice sana di un sogno ammaccato e scalfito dal tempo ma non per questo defunto. Un sogno che vive nella densità colma di malinconia del bianco e nero saturo in cui Payne avvolge la sua storia, una scelta espressiva piacevole e sorprendente per un regista che fino ad ora aveva sempre prediletto colori medi e intermedi, mai così autunnali.
Nebraska è probabilmente il suo film migliore, il più compiuto ed equilibrato, il più profondo e poetico, in cui l’ironia delle situazioni rocambolesche fa il paio con alcune fortunose sequenze di Sideways (la scena del furto nella dimora degli onesti vicini ricorda da non molto lontano quella di Paul Giamatti che si industriava per recuperare le fedi con i nomi incisi in sanscrito dell’amico Thomas Haden Church). Negli occhi da talpa miope, vitrei e nerissimi dello strepitoso protagonista Bruce Dern, gran vecchia colonna del cinema americano e premiato come miglior attore a Cannes (scelta irreprensibile che uno col vissuto e il background di Spielberg non avrebbe potuto non compiere), c’è tutta l’incompiutezza intristita di speranze e visioni idilliache non realizzate, la consapevolezza di aver vissuto in un Eden negato di promesse non mantenute, in cui è di fatto solo la gioia derivante dalle cose modeste e all'apparenza non così importanti a poter regalare un’ultima, preziosa e in fondo non così effimera soddisfazione.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Cannes 2013, Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: Nebraska
Anno: 2013
Regia: Alexander Payne
Sceneggiatura: Bob Nelson
Fotografia: Phedon Papamichael
Montaggio: Kevin Tent
Colonna sonora: Mark Orton
Durata: 110'
Uscita italiana: 16 gennaio 2014
Attori: Bruce Dern, Will Forte, June Squibb, Bob Odenkirk, Stacy Keach