ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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CANNES 2013 - La vie d’Adèle, di Abdellatif Kechiche

25/6/2013

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Far dimenticare il cinema che avete visto e quello che vedrete: La vie d’Adèle ha questo potere, questa forza singolare e unica, che quando si materializza non si può non gridare al miracolo. Perché il film di Abdellatif Kechiche parla semplicemente un’altra lingua, forte di un lessico impuro e scolpito nella realtà autentica, quella più vera e odorosa: tre ore e sette minuti di vita che scorre come acqua tra le dita, piene e irripetibili, sfrontate e liberissime.
Il moccio al naso, i capelli della protagonista raccolti in una coda selvaggia mentre si dimenano al suono della hit di Lykke Li I follow rivers, languori, lacrime di piacere, di sincera euforia e profonda tristezza, aloni di salsa sulle labbra torride e affamate, quanto di più carnale la vita ha da offrire. Quella vita da cui Kechiche ruba incalzando la realtà da vicinissimo, tanto da sgranare la nostra percezione, costringendoci a un’immedesimazione totale. C’è talmente tanta vita vera, nel film, che l’aforisma di Cocteau secondo cui il cinema sarebbe la morte al lavoro potrebbe anche essere messo in discussione. 
Qui infatti sono le pulsioni del vitalismo più assoluto a zufolare nel fango limaccioso delle cose, alimentandosi a una sorgente inesauribile di piaceri e sensazioni brucianti. A scorrere sullo schermo è un processo di maturazione di cui avvertiamo fisicamente le singole fasi, tanto che alla fine di tutto Adèle - ma anche la sua compagna di vita e di letto Emma (Léa Seydoux) - si ha la sensazione di conoscerle da sempre, come vecchie amiche i cui palpiti ti sembrano così reali che potresti stringerli al cuore come fai col tuo cuscino mentre t’addormenti. Familiari, lontanissime perché relegate nel regno della finzione, eppure mai così vicine all’esperienza diretta da parte dello spettatore.
La vie d’Adèle con quella sua divisione in capitoli si fa già saga truffautiana e doineliana della quale attendiamo frementi i successivi sviluppi. Con dolcezza, senza effettismi né cinematografici né letterari - sebbene il film s’ispiri idealmente a La vie de Marianne di Marivaux - Kechiche ci ha regalato un frammento fluviale e torrenziale di verità assoluta che ha il pregio di non mimare le scorciatoie del cinema dal vero, aggirando l’ostacolo delle definizioni rigide. Delle due protagoniste e del loro amore lesbico e universale quei primi piani onnipresenti che concedono pochissimi totali ci restituiscono la presa diretta, lo sbocciare inarginabile di due fiori bellissimi e preziosi, quasi a scrutarne gli organi interni ed esterni anche meno “letterariamente” nobili del cuore ma senza mai mostrarceli, negando secrezioni e isole del piacere in un meccanismo di reticenze che sublima il sesso come plastica opera d’arte, lontana dalla pornografia e dall’asservimento a un immaginario a uso e consumo del pensiero masturbatorio maschile.
Kechiche si limita a mostrare questa storia nella sua semplicità, per quel che è; un girl meets girl fatto di sorrisi che mutano in baci simili a morsi, di sesso meraviglioso, di corpi che si sfiorano violentemente e si sovrappongono ansanti come portali di erotismo gioioso. Il cibo, le pagine di un libro, una panchina, due volti vicini nella luce di un sole tiepido: tutto questo è La vie d’Adèle, un film che simula la percezione del bergsoniano “tempo della vita”, senza ellissi e trucchetti, che dura tre ore ma potrebbe durare per sempre e non ce ne stancheremmo affatto.
Camera a mano, focali lunghe, un bum bum continuo di assalto ai sensi, cinema liminale che travalica il confine della finzione abbattendolo con la stessa furiosa, rassodata dolcezza dei bellissimi amplessi delle protagoniste. Il sesso dopotutto è una questione prima mentale che fisica e non può esistere nella sua forma più travolgente e passionale senza prima aver sposato una comune visione del mondo, o senza prima essere stati incorniciati dallo stesso raggio di luce abbagliante che fende un prato durante un picnic. “Non pensare a chi è l’oggetto dell’amore, pensa all’amore”. Così come in questo caso non si pensa al cinema e alla letteratura come oggetti da plasmare ad abuso e consumo dell’autore, ma come detto si va direttamente alla vita, nel film e più in generale nell’idea di cinema di Kechiche, che mai come in questo caso aveva trovato una materializzazione tanto luminosa e irrinunciabile.
Nella protagonista Adèle Exarchopoulos, “contorta e pazza” eppure tenera e banalissima nell’affogare il dolore nel cioccolato, così come nell’apertura della sua bocca carnosa a rivelare i denti sporgenti, si insinua tutta il fascino traspirante e arioso di un film che non ha paura di sfogarsi e donarsi e che lo fa senza chiedere nulla in cambio, impudico e trionfante nella sua generosità assoluta. La carne, il grasso che cola, il sugo della vita che bolle e ribolle. E poi il bagnarsi dei pianti dell’amata, loro due e nessun altro, così vicine da toccarsi nel profondo. Belle e morbide, vedersi e respirarsi. Lo sguardo stuprato dalla stanchezza e dal peso della propria arte di Emma, i suoi capelli blu. Il muscolo della mandibola di Adèle che si contrae in una fossetta divertita o accompagna il rossore spregiudicato di un volto imbarazzato o contorto e sfigurato da una sensualità ferina, a seconda dei momenti. Il debolissimo ma incantato mistero dei visi e delle creature umane, a svettare sopra ogni altra cosa.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Cannes 2013


Scheda tecnica

Regia: Abdellatif Kechiche 
Sceneggiatura: Abdellatif Kechiche, Ghalia Lacroix (dal romanzo grafico Le bleu est une couleur chaude di Julie Maroh)
Fotografia: Sofian El Fani 
Montaggio: Camille Toubkis, Albertine Lastera, Jean-Marie Lengelle,Ghalya Lacroix
Scenografia: Julia Lemaire 
Anno: 2013
Durata: 179’
Uscita in Italia: 24 ottobre 2013
Interpreti: Léa Seydoux, Adèle Exarchopoulos, Jeremie Laheurte, Catherine Salée, Aurélien Recoing

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CANNES 2013 - Like Father, Like Son, di Hirokazu Kore-eda

24/6/2013

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Legame di sangue o legame di vita? È la domanda ricorrente che fa capolino in Like father, like son di Hirokazu Kore-eda, prima tra le pieghe dell'osservazione della quotidianità di un nucleo familiare, poi come un fulmine a ciel sereno quando Ryota Nonomiya (Masaharu Fukuyama) e la moglie Midori (Machiko Ono) scoprono che Keita, il figlio che hanno cresciuto sino ad allora, è stato scambiato alla nascita col loro vero figlio.
A chi somiglia Keita? Cos'ha preso dalla madre? E da suo padre? Sono interrogativi che ci risuonano familiari; quello che però ci stranisce, immergendoci nella cultura nipponica e in particolare nello status della famiglia Nonomiya, è il renderci conto che queste domande sono poste nel contesto di un esame per l'accesso alla scuola elementare. Inutile negare la rigidità del sistema scolastico giapponese; Kore-eda, attraverso questo primo elemento, inizia a restituirci il contesto della nostra famiglia: un architetto benestante devoto al mondo del lavoro e una donna che di “mestiere” fa la madre cercando di seguire/controllare suo figlio in ogni attività affinché sia il primo tra tutti.
«Bisogna avere disciplina. Se ti prendi un giorno libero te ne servono tre per recuperare». È questo l'imperativo categorico a cui Ryota è stato abituato e che restituisce al figlio, un bambino di sei anni diviso tra compiti ed esercizio del piano e a cui non è concessa la dimensione del gioco.
In questo idillio da famiglia perfetta in cui anche la casa sembra un albergo (e il geometrismo delle linee lo marca ancor di più), una notizia inaspettata romperà l'equilibrio mettendo tutto in discussione. Sono proprio le analisi di abilitazione alla scuola elementare che rivelano il non legame di sangue e, con una piccola nota di sorpresa (pensando anche al nostro modus vivendi), cogliamo l'onestà dell'ospedale nel comunicare alle famiglie “vittime” l'errore commesso il giorno della nascita di Keita e di Ryusei, il 28 luglio.
Con un tatto che ormai contraddistingue il cineasta giapponese, Like father, like son va a toccare le corde anche più nascoste della nostra anima. Colpisce per la misura e la delicatezza con cui lo fa, affonda nelle maglie dei personaggi scalfendo soprattutto la corazza dell'uomo “perfetto”, e affonda in noi interrogandoci su questioni che sembrerebbero assodate e forse scontate, ma che umanamente non lo sono. Senza banalità, ma con semplicità, Kore-eda ci mostra il contrasto tra le due famiglie: l'una benestante, l'altra - quella dei Saiki – poco abbiente, ma attenta nel condividere con i tre figli la quotidianità (il bagno in vasca tutti insieme o il padre che ripara il giocattolo rotto).
«Come ho fatto a non accorgermene? Sono una madre» - si chiede Midori. Ma cosa vuol dire essere una madre?
Per quanto il regista di Nobody knows mostri con una raffinata messa in quadro il dramma delle due famiglie, è evidente la sua scelta di concentrare l'attenzione sul rapporto padre-figlio puntando l'obiettivo della macchina da presa (e non il dito), in particolare, su Ryota. Intuiamo come per l'uomo sia importante il legame di sangue, ed è difficile descrivere l'impatto emotivo che le reazioni dei due piccoli hanno provocato; solo la pregnanza di quelle immagini e parole possono restituirlo.
Il cinema ha una forza particolare e Kore-eda sa tirarla tutta fuori pietrificando chi è davanti allo schermo con quadri familiari in apparenza semplici.  Si può trapiantare un bambino in un nucleo nuovo e dirgli: “ora siamo noi i tuoi genitori e devi chiamarci mamma e papà?” Il piccolo ti (e si) chiederà “perché?” e anche se glielo si ponesse come un gioco alla lunga il perché tornerà.
Guardando a Ozu non solo nei temi, ma anche in alcune scelte di regia (un esempio è la decisione di riprendere di spalle e a distanza Midori e sua suocera, inginocchiate mentre pregano davanti all'altare in casa), Kore-eda continua a tracciare il suo percorso legato alla famiglia con cui già era andato a segno con Nobody knows (la storia di quattro fratelli e sorelle abbandonati dalla madre in un appartamento di Tokyo), Still walking (una famiglia che si riunisce per commemorare la morte di Junpei, il figlio maggiore scomparso anni prima in un tragico incidente di mare) e I wish (il ricongiungimento di due fratelli, separati dal divorzio dei genitori).
Like father, like son arriva a commuovere profondamente toccando punte di intensità emotiva che Il figlio dell'altra di Lorraine Lévy aveva sfiorato (e forse sognato); è difficile trattenere la commozione quando è provocata da uno sguardo così sincero e mai retorico. Non si può restare indifferenti di fronte a un film di questa portata, che va oltre la cultura giapponese, domandandoci se si possa valutare un rapporto affettivo sul legame di sangue, sul benessere che si può dare o se valgono gli anni di vita trascorsi insieme. Si può misurare tutto questo?

Maria Lucia Tangorra

Sezione di riferimento: Cannes 2013



Scheda tecnica

Titolo originale: Soshite chichi ni naru
Anno: 2013
Regia: Hirokazu Kore-eda
Sceneggiatura: Hirokazu Kore-eda
Fotografia: Mikiya Takimoto
Montaggio: Hirokazu Kore-eda
Scenografia: Keiko Mitsumatsu
Sonoro Yutaka Tsurumaki
Durata: 120'
Interpreti: Masaharu Fukuyama, Machiko Ono, Yoko Maki, Lily Franky

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CANNES 2013 - A Touch of Sin, di Jia Zhang-ke

23/6/2013

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Un minatore, esasperato per la corruzione che dilaga senza controllo nel suo villaggio, decide di farsi giustizia da sé; un lavoratore migrante torna nel paese d'origine, ritrova la famiglia ma scopre anche le possibilità offerte da un'arma da fuoco; una donna, receptionist in una sauna, si difende dal tentativo di stupro di un facoltoso cliente; un ragazzo, in cerca di sicurezze per il futuro, si sposta da un luogo all'altro in cerca di un minimo di stabilità.
Storie, frammenti, intarsi; organismi sfibrati dall'incertezza, bagnati dal dolore, consumati dalla lotta per la vita; attimi di passione, esplosioni di ferocia, rivoli di sangue e disperazione; microcosmi alterati dalla realtà sociale di un paese, la Cina, mai come ora soffocato dalle contraddizioni. Tutto questo, e molto altro, in A Touch of Sin, accolto da forti entusiasmi e premiato a Cannes con il riconoscimento per la miglior sceneggiatura, a confermare ancora una volta la stima di cui gode Jia Zhang-ke, autore molto amato dal pubblico cinefilo occidentale, e già trionfatore a Venezia sette anni fa con Still Life. È proprio al Leone d'Oro che A Touch of Sin pare avvicinarsi di più nella sua pregevole filmografia, per come riesce a incanalare con efficacia piccoli torrenti di (tanta) sventura e (poca) speranza nell'ampio quadro di una realtà enorme, indecifrabile, logorante, impietosa. 
La Cina di oggi si nutre di un liberismo economico fuori controllo, adagiato sul potere distruttivo del capitale. Ricchezza e immoralità gettano sempre più ai margini reietti senza possibilità di scampo, e l'uomo in quanto tale altro non è (diventato) se non un animale da trattare con disprezzo, un mezzo per accumulare denaro o all'opposto uno strumento inutile da scartare come spazzatura. In questo clima desolante i personaggi di Jia Zhang-ke cercano di volta in volta un afflato di giustizia, vendetta, rassicurazione, scontrandosi con il demone oscuro del vizio e della sopraffazione individuale e sociale. Non rimane che l'istintualità dell'atto estremo, folle, incurabile; una via senza ritorno, ma in fondo l'unica possibile. 
Nel dialogo forse più significativo dell'intera pellicola, si chiede “perché non te ne vai da qui?”, e si risponde “andare dove? All'estero? Gli altri paesi sono tutti in bancarotta, sono gli stranieri a venire da noi”. In queste parole si esprime il senso di una comunità chiusa agli occhi del mondo, prigioniera di errate certezze e condannata a orripilanti derivazioni e deviazioni culturali (le prostitute del bordello che si presentano ai clienti marciando come soldatesse con tanto di divisa militare). La consolazione del sangue, con cui trovare l'impossibile volo verso la libertà, riassume l'unico istante di potere racchiuso nel globo soffocante della sconfitta.
Se vogliamo, per paradosso, il premio alla sceneggiatura, pure solidissima e intelligente, non rende merito alla qualità dell'opera di Jia Zhang-ke. È infatti soprattutto l'acume registico a imporsi per la capacità di giocare con impressionanti contrasti di sguardo e colore, durante i quali ogni soffio consolatorio risulta defenestrato a vantaggio di una messinscena tanto rude quanto indispensabile. Il rosso vivo del sangue appena versato si erge a simbolo universale di una provincia ammazzata ogni giorno dal potere centrale, e lo stordimento dei personaggi al tramonto della pazzia racchiude la definitiva implosione di un sistema marcio che al momento non trova alcun appiglio per l'avvenire. 
Non resta che l'abbraccio tagliente della violenza, padrona del giorno e della notte; un fuoco d'artificio da sparare alla Luna, o un'opera da cantare durante una rappresentazione per le strade; una triste litania rivolta a un domani senza più luce.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Cannes 2013


Scheda tecnica

Titolo originale: Tian zhu ding
Anno: 2013
Regia: Jia Zhang-Ke
Sceneggiatura: Jia Zhang-Ke
Fotografia: Yu Lik-wai
Montaggio: Matthieu Laclau, Lin Xudong
Scenografia: Liu Weixin
Colonna sonora: Lim Giong
Durata: 133'
Attori: Jiang Wu, Li Meng, Luo Lanshan, Wang Baoqiang, Zhang Jiayi

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CANNES 2013 - Salvo, di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia

23/6/2013

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Salvo di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia è quanto di più coraggioso si possa chiedere a un esordio, è l’affermazione potenziata di uno sguardo risoluto e consapevolmente diverso, è la dimostrazione matematica che la radicalità di una visione e di un’idea che appassiona i suoi realizzatori può traghettare un film verso territori impervi e rischiosi dando però allo stesso tempo - ed è ciò che più conta - tutte le chiavi per aprire le serrature più difficili.
Salvo ha infatti nell’arsenale delle sue risorse tutti gli strumenti adeguati per venir fuori egregiamente da buona parte di quelle paludi che l’innegabile ambizione di un esordio così d’impatto unita all’inesperienza di chi sta dietro una macchina da presa per la prima volta può recare con sé. Ha convinzione, e soprattutto personalità da vendere. Tanto da poter quasi risultare supponente, nella sue pose oltranziste e immobili, nella sacralità registica esasperata che si concede un (bellissimo) piano-sequenza di venti minuti per introdurre i due protagonisti e un inseguimento iniziale che sorprende in positivo per la classe e la ruvida raffinatezza con cui è girato, immerso come meglio non si potrebbe nel brullo e ingiallito paesaggio siciliano. Una sensazione che però è bello (e necessario) provvedere subito a smentire: in Salvo non c’è gratuità e lo stile è funzionale a un preciso discorso esistenziale e filosofico sui tempi e i modi del racconto, sulla valenza straniante delle location e del fuori campo utilizzato con ricercata efficacia.
È un’opera che toglie, toglie, toglie. Non aggiunge nulla, scarnifica all’ennesima potenza e lega a sé lo spettatore trascinandolo nella partecipata condivisione di un’essenzialità che da formale diventa anche e soprattutto emotiva e istintiva. Man mano che il film prosegue - e s’inceppa anche girando un po’ a vuoto, perché è comunque un’opera prima e di sicuro è ben lontana dalla perfezione - si ha l’impressione di pensare e guardare sempre più al film con gli occhi non più della mente ma della pancia e del cuore. Al rigido e ragionativo approccio iniziale, veicolato dagli stessi registi, si sostituisce uno strato epidermico e profondo di sonorità alle quali si reagisce rimanendo tesi e guardinghi, aspettando lo sparo, la mazzata, il lampo, la stoccata, l’accensione improvvisa, il mutare dell’abbaiare del cane più vicino, affinché si tramuti in qualcosa di diverso e minaccioso. Lo scagnozzo della mafia che dà il nome al titolo si muove in quest’arazzo come uno squalo predatore, come certi eroi del polar transalpino o del western, silenti e stringatissimi, che danno l’idea di essere concentrati solo e soltanto sul rivoletto di sudore dell’avversario o peggio ancora sulla tensione bassa del proprio baricentro, come gli attori di teatro professionisti.
Qualcosa nella vita di Salvo è però destinata a cambiare e il senso di quel fato che non si può evitare è tutto nei lividi e nelle tumefazioni della fotografia di Daniele Ciprì, di fatto un terzo autore del film con la sua somma maestria nella creazione della consistenza interna e cromatica delle immagini e un collaboratore di primo piano anche nella gestione dei movimenti di macchina, in particolar modo per quel che riguarda la simulazione della cecità di Rita, interpretata dalla giovane Sara Serraiocco: un’attrice semplicemente divina in quanto a mimesi recitativa, eccezionale nel trasformarsi in un angelo delle tenebre ostile alla luce e straordinaria nel far propria sulla sua pelle martoriata ed escoriata il miracolo che le ha fatto riottenere la vista dopo l’assassinio del fratello da parte di Salvo e a seguito del quale il killer, di fatto, non la lascerà più. 
Lo scontro fisico che Salvo e Rita intrattengono, il primo dei tanti, apre una breccia nel cuore di entrambi che pian piano si dilaterà sempre più come delle progressive contrazioni uterine, aprendo i due personaggi al miracolo altrettanto grande della vita partecipata e di un amore impossibile e post-apocalittico da condividere. Una love story di soli sussurri e grida, di silenzi e gesti mancati che danno il triplo del valore a quei pochi attimi d’intimità che invece ci sono eccome, veri e significanti come non mai. Del loro mondo interiore nulla ci viene raccontato ed è meglio così: perché al cinema le pennellate e gli archetipi funzionano meglio delle spiegazioni viste e riviste cento volte, e una storia di patimenti languidi, accennati e struggenti che penetrano nel rapporto tra i due innamorati solo alla fine, dopo tanti momenti di riottosa ostilità, è una preziosa rarità da accogliere a braccia spalancate.
Tant’è che Salvo, oltre a raccontare di un’epifania, è epifanico esso stesso, e non solo perché è una delle opere prime italiane più importanti degli ultimi dieci anni e più (e all’estero, dove forse masticano più cinema vero che da noi, se ne sono infatti già accorti e anche da un bel pezzo). Piuttosto perché sa superare l’obbligo della scrittura e dei suoi diktat oppressivi e spesso castranti con l’universalità delle maschere che propone e con la bellezza altrettanto universale di un tramonto visto e percepito dal balcone di una terrazza in diverse gradazioni di colore, perché riesce perfino a rendere simpatici e necessari i Modà, perché allude a ciò che non si vede in ogni sua inquadratura e proprio per questo motivo rende ogni immagine pressoché irripetibile.
Salvo è insomma la quintessenza del film tattile, da vivere e toccare con mano sequenza per sequenza, nero come la pece ma luminoso come il bianco di una colomba che fende l’oscurità. 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Cannes 2013   


Scheda tecnica  

Anno: 2013
Regia: Antonio Piazza e Fabio Grassadonia
Sceneggiatura: Antonio Piazza e Fabio Grassadonia
Fotografia: Daniele Ciprì
Montaggio: Desideria Rayner
Scenografia: Marco Dentici
Musiche: Philippe Rombi
Durata: 103’
Interpreti: Saleh Bakri, Sara Serraiocco, Luigi Lo Cascio, Giuditta Perriera, Mario Pupella, Redouane Behache, Jacopo Menicagli

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CANNES 2013 - Un chateau en Italie, di Valeria Bruni Tedeschi

23/6/2013

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Il terzo film da regista di Valeria Bruni Tedeschi dopo E’ più facile per un cammello… e l’ancora inedito sui nostri schermi Attrici è un’opera sul disfacimento di un impero familiare e dei legami che implodono al suo interno, venato come spesso accade nell’immaginario registico dell’attrice da un personalissimo autobiografismo un po’ invasivo, sorretto in questo caso da atmosfere più vicine al brio surreale che alla drammaticità vera e propria. Tutte le ansie di soddisfacimento che contraddistinguono i protagonisti e le incompiutezze del film tendono infatti proprio a respingere e a indirizzare quanto più lontano possibile quest’aura luttuosa ormai negata e mutatasi dunque in noia e inedia affettiva.
Un chateau en Italie racconta di un’ex attrice (non a caso) che evidentemente non sta soltanto nel film. La Bruni Tedeschi infatti, oltre a prestarle corpo e voce (e smorfie), utilizza il suo personaggio anche come veicolo per insinuarsi nelle pieghe di un mondo altoborghese e quasi proto-nobiliare, per fingere di smascherarne i vizi e i vezzi scrutandoli da dietro la macchina da presa. C’è un tono altezzoso e borioso, da cinema eletto, fastidioso quasi quanto le pose che lo animano come una trottola impazzita e sragionata, narcisistiche e a dir poco velleitarie: la Bruni Tedeschi ha sicuramente un discreto talento interpretativo tutt’altro che da buttare, ma lo serve malissimo, come sottolineando la contrizione e lo sforzo dietro ogni espressione e postura.
Il collage di scene fintamente provocatorie a sfondo sessuale-religioso, quasi il bignamino di un illustratore bunueliano per catechisti e bambini d’asilo, contribuisce non poco a definire i contorni di un’operetta che avrebbe anche un leggero e gradevole ritmo andante se non fosse per il suo prendersi troppo sul serio. Didascalico e pressoché fastidioso, per di più, il ricorso a brani iconici del patrimonio musicale nazionale italiano (Viva la pappa col pomodoro e Eri piccola così), una sottolineatura sulle proprie origini che sa di ruffiano e stucchevole ammiccamento. Si cerca di smorzare la pesantezza di certi angoli della vicenda con delle polverine leggerine e fatate, ma l’esilità è in agguato, così come l’irritazione per l’imitazione vuota e retorica degli stilemi di un cinema d’autore deteriore e di una poetica borghese tutt’altro che indiscreta e per di più priva del benché minimo fascino.
Un chateau en Italie si perde così nel rifiuto del dramma e nella sua esaltazione/distruzione in forma di farsa, nel posticcio rifugiarsi in corde espressive dal ritmo fin troppo indiavolato, tanto più inadatte al carattere fortemente sentito della storia (il film è dedicato a Virginio, il fratello della Bruni Tedeschi scomparso nel 2006 dopo una lunga lotta contro l’AIDS e incarnatosi in qualche modo nel personaggio di un Filippo Timi sempre più in caduta libera). A quell’arietta ruffiana che contribuisce a mettere in viso ai personaggi dei sorrisi spesso fuori luogo e implausibili verrebbe da rivolgere il più classico degli “spostati e fammi vedere il film”, tanto sono ostentati in ogni dove e senza un attimo di tregua.
La Bruni Tedeschi guarderà pure a Salto nel vuoto di Marco Bellocchio, ma farebbe meglio piuttosto a tenere a mente in modo letterale il titolo di un altro film del regista di Bobbio al quale ha anche preso parte, ossia La balia: ciò che manca al suo film è infatti proprio un sostegno anche solo minimamente stabile in grado di sorreggere per quanto possibile le sue pretese fuori misura e salvare il salvabile evitando il naufragio e portando a casa almeno il minimo sindacale. Un supporto qui del tutto assente. Ragion per cui il film si sgretola come un castello di sabbia, con una velocità pari soltanto a quella con la quale lo si vede e provvidenzialmente lo si dimentica.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Cannes 2013


Scheda tecnica

Titolo originale: Un chateau en Italie 
Anno: 2013
Regia: Valeria Bruni Tedeschi
Sceneggiatura: Valeria Bruni Tedeschi, Noémie Lvovsky, Agnès de Sacy 
Fotografia: Jeanne Lapoirie Montaggio: Anne Weil 
Scenografia: Emmanuelle Duplay 
Musiche: Elise Luguern 
Durata: 104'
Interpreti: Valeria Bruni Tedeschi, Filippo Timi, Louis Garrel, Marisa Bruni Tedeschi, Xavier Beauvois, Pippo Delbono, Silvio Orlando

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CANNES 2013 - Nebraska, di Alexander Payne

21/6/2013

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Alexander Payne è uno di quei registi che al terzo o quarto film diventano in qualche modo familiari, un po’ come quei vecchi amici di lunga data che rivedi magari una volta ogni due o tre anni ma dei quali potresti benissimo prevedere sempre mossette e comportamenti, atteggiamenti e opinioni. Li conosci così bene che la sorpresa e lo spiazzamento da parte loro ormai non le pretenderesti mai e poi mai e in nessuna occasione, a meno di non voler suonare irreale prima di tutto alle tue stesse orecchie. 
È anche vero però che a questa tipologia di amici non sapresti in alcun modo rinunciare, perché rientrare nel loro mondo di piccole, grandi cose sempre uguali a se stesse è ogni volta un esercizio familiare e nostalgico non da poco. A stare con loro ti senti in qualche modo a casa, ed entri in un clima ovattato e carezzevole che altrove è pressoché irripetibile.
Ecco, il cinema di Alexander Payne è proprio così. Costruito su luoghi e allitterazioni nella provincia americana, scenari e personaggi che si ripetono, situazioni e umori che ritornano e si rincorrono. Il viaggio come pretesto per re-indagare i misteri delle proprie origini culturali e identitarie, per ritrovare se stessi, banalmente, senza andare troppo lontano. Semplicemente risalendo a quei territori del paesaggio a stelle e strisce più sepolti e periferici, quelli delle highways e dei motel scalcinati, delle villette a schiera dai giardini sproporzionati e dai volti così peculiari. Il road movie di Jack Nicholson in A proposito di Schmidt aveva proprio questa precisa valenza, era un recupero e una riappropriazione di sé, un percorso a ritroso in un'intimità del protagonista sepolta chissà dove, tra scorie e recriminazioni, delusioni e ammaccamenti di vario tipo che a quell’età avanzata, ormai, invocano a gran voce l’urgenza di essere superati una volta per tutte. 
Un ritorno alla vita, insomma. Una dimensione che ritorna con la stessa malinconia e un’identica levità tanto buffa quanto goffa anche in Nebraska, l’ultimo lavoro di Payne passato in concorso a Cannes 2013, che proprio come il film con Nicholson non disdegna neanche lo humour obliquo e lo sguardo sgraziato sugli abitanti delle lande dell’America manifatturiera e piccolo borghese, inquadrandoli con un’ironia che spesso e volentieri sfocia nel satirico, nella messa alla berlina tagliente ma sempre e comunque addolcita dall’affetto e dall’indulgenza che Payne mette nell’accarezzare i suoi personaggi. 
In Nebraska l’on the road alla ricerca delle radici profonde del sogno americano è quello fuori tempo massimo di Woody Grant, anziano alcolista con una moglie che lo detesta cordialmente e un figlio che vorrebbe provare a regalargli un ultimo barlume d’illusione prima che gli acciacchi fisici crescenti e l’abuso di alcol lo prostrino completamente nello spirito e nella mente, rendendolo ancora più incosciente della realtà di quanto già non sia. 
Ecco che allora quella convinzione impossibile di dover andare a ritirare un milione di dollari in quanto destinatario di un premio che altro non è che una bislacca letterina per ingannare qualche anziano credulone si tramuta nell’ultima delle utopie possibili, da inseguire col corpo e col cuore dal Montana fino a Lincoln, in Nebraska, a (ennesima) riprova del carattere fondativo di quest’avventura che percorre delle strade e degli spazi che fin dai nomi rievocano la quintessenza originaria degli Stati Uniti. L'America, quella cantata da Bruce Springsteen nelle sue ballate ruvide e popolari,  così affini allo spirito di una middle class lavorativa e sfatta, consumata dagli anni e dalle stagioni che passano inesorabili, portatrice sana di un sogno ammaccato e scalfito dal tempo ma non per questo defunto. Un sogno che vive nella densità colma di malinconia del bianco e nero saturo in cui Payne avvolge la sua storia, una scelta espressiva piacevole e sorprendente per un regista che fino ad ora aveva sempre prediletto colori medi e intermedi, mai così autunnali. 
Nebraska è probabilmente il suo film migliore, il più compiuto ed equilibrato, il più profondo e poetico, in cui l’ironia delle situazioni rocambolesche fa il paio con alcune fortunose sequenze di Sideways (la scena del furto nella dimora degli onesti vicini ricorda da non molto lontano quella di Paul Giamatti che si industriava per recuperare le fedi con i nomi incisi in sanscrito dell’amico Thomas Haden Church). Negli occhi da talpa miope, vitrei e nerissimi dello strepitoso protagonista Bruce Dern, gran vecchia colonna del cinema americano e premiato come miglior attore a Cannes (scelta irreprensibile che uno col vissuto e il background di Spielberg non avrebbe potuto non compiere), c’è tutta l’incompiutezza intristita di speranze e visioni idilliache non realizzate, la consapevolezza di aver vissuto in un Eden negato di promesse non mantenute, in cui è di fatto solo la gioia derivante dalle cose modeste e all'apparenza non così importanti a poter regalare un’ultima, preziosa e in fondo non così effimera soddisfazione. 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Cannes 2013, Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Nebraska
Anno: 2013
Regia: Alexander Payne
Sceneggiatura: Bob Nelson
Fotografia: Phedon Papamichael
Montaggio: Kevin Tent
Colonna sonora: Mark Orton
Durata: 110'
Uscita italiana: 16 gennaio 2014
Attori: Bruce Dern, Will Forte, June Squibb, Bob Odenkirk, Stacy Keach

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CANNES 2013 - Jeune et Jolie, di François Ozon

21/6/2013

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“Molte donne sognano di prostituirsi. Non vuol dire che lo facciano, ma essere pagate per una relazione sessuale è qualcosa di presente nell'immaginario femminile. È il genere di passività che le donne cercano”. Con queste parole François Ozon ha dato il via a una delle più intense polemiche dell'ultima edizione del festival di Cannes, provocando reazioni stizzite da più parti. Il risultato è che, come spesso accade in simili casi, si è parlato molto più di questo che del film, lasciato ai margini e accolto da una certa trascuratezza, accompagnata da un buon numero di recensioni negative.
Alla vigilia dell'annuncio delle pellicole selezionate per il concorso ufficiale, nella conferenza stampa di presentazione di Dans la Maison (Nella Casa) a Roma, Ozon aveva espresso il timore di non essere nemmeno chiamato a far parte della kermesse. La “telefonata” invece è poi arrivata, anche se si ha l'impressione che la sopracitata polemica abbia in un certo senso rovinato a priori la ricezione del suo ultimo lavoro.
In molte sedi, in passato e in questa occasione, si è detto che Ozon non fa mai “brutti film”, ma che il suo cinema è freddo, meccanico, artificioso, finanche fasullo e manipolatorio. Definizioni che sono state appiccicate anche a Jeune et Jolie (Giovane e Bella), sulle quali però chi scrive si sente di dissentire con forza e convinzione.
Isabelle ha 17 anni e si prostituisce per il puro piacere di farlo; incontra uomini molto più vecchi di lei, e accumula ingenti quantità di denaro; a un certo punto è testimone di un evento tragico, e il suo segreto esce allo scoperto provocando la disperazione della madre; la ragazza interrompe il suo discutibile hobby, poi rischia di ricascarci. 
Sarebbe stato facile, molto facile, realizzare un classico e banalissimo film a tema, visto l'argomento della narrazione. Ozon avrebbe potuto scegliere una motivazione univoca abile a spiegare le scelte della ragazza, spiattellarla ai quattro venti dal primo all'ultimo fotogramma, costringere lo spettatore a prendere una posizione ben definita. Sarebbe stato semplice. E noioso. E soprattutto sbagliato. Perché è impossibile credere che davvero dietro a una storia del genere ci possa essere una sola causa scatenante, una sola via, un'unica soluzione.
Al contrario, Ozon compone una sceneggiatura di raffinato acume, nella quale dissemina una lunga serie di indizi, costruendo tassello dopo tassello un mosaico atto a contenere i numerosi sentieri psicologici e sociali che conducono Isabelle (nome in codice Lea) a scegliere la strada della prostituzione senza averne alcun bisogno. La noia di una giovane donna rappresentante della medio/alta borghesia in cerca di emozioni forti dopo anni trascorsi nella bambagia; la voglia di sentirsi voluta, sognata, desiderata; il malcelato disgusto verso i ragazzi della propria età e la conseguente attrazione rivolta verso l'uomo maturo; la mancanza del padre biologico, lontano dalla quotidianità; il fascino atavico del mistero, della scoperta; il gioco della seduzione; il senso di potere racchiuso tra le sfumature del sesso: tutte ragioni accettabili, ma non per giustificare l'attività della ragazza, sia chiaro, bensì per comporre un intenso quadro strutturale che lascia aperte mille uscite, non esprime giudizi, non affonda nelle censure e non propone sentenze definitive (e stupide).
Jeune et Jolie è almeno il terzo film incentrato sulla prostituzione giovanile realizzato in Francia negli ultimi 2/3 anni, dopo l'interessante ma incompiuto Mes Chères Études di Emmanuelle Bercot (Student Services, con Deborah François) e il troppo caotico e slegato Elles di Malgoska Szumowska (con Juliette Binoche e Anais Demoustier). Dei tre, il lavoro di Ozon è decisamente il migliore, non certo per i tocchi di classe disseminati come petali di rosa qui e là (la poesia di Rimbaud declamata dai ragazzi, le splendide musiche di Françoise Hardy), né per la bellezza della giovane rivelazione Marine Vacht, ennesimo volto nuovo del cinema francese, né per la gustosa apparizione finale di Charlotte Rampling. Lo è invece per il sapore di equidistanza con cui riesce a raccontare una storia, contemporanea e importante, rifuggendo le consuete e pietose inclinazioni morali di tante pellicole inerenti il sesso. Se poi vogliamo accusare l'autore di essere un voyeur per colpa di una brevissima scena di masturbazione femminile con un cuscino, o per i corpi nudi messi in mostra tra le mura domestiche durante sfiziose sequenze ironiche che vedono protagonista il patrigno Frédèric Pierrot, allora davvero non ci siamo.
Come già dimostrato nel recente Dans la Maison, Ozon con il passare degli anni ha ritrovato sempre più il puro piacere della narrazione, solidificando il suo cinema e modellandolo con intarsi preziosi e decorazioni stuzzicanti. Il voyeurismo e la manipolazione sono però ben altra cosa, e Jeune et Jolie è un film d'intelligenza rara.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Cannes 2013


Scheda tecnica

Titolo originale: Jeune et Jolie
Anno: 2013
Regia: François Ozon
Sceneggiatura: François Ozon
Fotografia: Pascal Marti
Montaggio: Laure Gardette
Scenografia: Katia Wyszkop
Musiche: Philippe Rombi
Durata: 95'
Uscita italiana: 7 novembre 2013
Interpreti: Marine Vacth, Géraldine Pailhas, Frédèric Pierrot, Fantin Ravat, Charlotte Rampling

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CANNES 2013 - Le passé, di Asghar Farhadi

20/6/2013

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I film di Asghar Farhadi odorano di vita vera come ben pochi altri. Lo avevamo sperimentato sulla nostra pelle col pluripremiato e indimenticabile Una separazione, e Le passé per moltissimi aspetti prosegue su quella scia, su quel flusso di emozioni e drammi familiari inarginabile e intricato, capace di far salire progressivamente la tensione fino a raggiungere il proverbiale livello di guardia. 
Il regista iraniano è un maestro ormai conclamato nel dosare il lavoro dei suoi attori e nell’incanalarli in flussi di recitazione quanto più calibrati possibile, ma che all’occorrenza riescono anche a sfoderare la giusta dose di ferocia. Ed è negli interni che la cifra stilistica ed espressiva di Farhadi trova il suo spazio privilegiato e la sua area d’elezione: territori circoscritti, traditi solo in nome di pochi e sorvegliatissimi esterni, in cui far esplodere il realismo coinvolgente delle sue storie e trasformare le pareti, le mura, i corridoi e le stanze in contenitori di scatti d’emozione, d’ira e di rimpianto, sempre pronti ad accendersi come delle micce. 
Il passato non si dimentica, nell’ultimo film di Asghar Farhadi, incentrato su una nuova anche se diversa separazione, in questo caso tra una donna francese e il marito iraniano. Il nuovo compagno di lei, Samir, è invece a sua volta combattuto tra l’amore per la nuova compagna e il parallelo senso di colpa e obbligazione verso la condizione dell’ex moglie, che giace in coma dopo un tentativo non del tutto riuscito di togliersi la vita. I personaggi di Farhadi vivono ancora una volta all’ombra di ciò che è stato, prigionieri di una spada di Damocle che li rende paludati e persino goffi, contratti e in grado di muoversi solo e soltanto in punta di dubbio. 
La verità diventa così l’urgenza principale di Farhadi e dei protagonisti dei suoi assai credibili micro-universi: la ricerca del modo in cui sono realmente andate le cose è vista come il miraggio di una affrancamento dalla dipendenza psicologica verso gli eventi trascorsi, una specie di possibilità di uscire da quella condizione e proiettarsi finalmente verso il futuro, insperatamente liberi e finalmente non più schiavi di un trascorso che è impossibile da lasciarsi alle spalle. “E se fosse impossibile dimenticare?”, si chiede la Marie di Bérénice Bejo (straordinaria e giustamente premiata a Cannes come migliore interprete femminile). Nel suo sguardo lacrimoso e scolpito nel dolore, inutile dirlo, è concentrata tutta l’ineluttabilità di una maledizione insondabile. 
La costruzione drammaturgica di Le passé è sottilissima e precisa al millimetro, agghindata di glaciale premeditazione fin nell’ultimo anfratto e nel più marginale dei dettagli. A tal punto che viene in parte compromesso proprio quel fluviale e incandescente vitalismo che contraddistingueva Una separazione e ne aveva determinato tanto l’unicità quanto la trasversale e strameritata fortuna internazionale. Le passé rispetto all’inarrivabile film precedente sembra essere lievemente più imbalsamato, prigioniero del fiato corto di una struttura programmatica in cui i comportamenti dei protagonisti si ripetono con ciclicità sempre uguale e da quella scatola di ricordi, che farà perfino un’apparizione fisica nel finale, proprio non ci si può più schiodare. 
Farhadi non si è però tramutato in un regista di furberie e scorciatoie, né tantomeno dà l’idea di essere diventato uno smaliziato programmatore di drammoni in provetta. La sua è e resta una messa in scena invidiabile e sensazionale, anche se in molti punti dà la sgradevole sensazione di muoversi con un andamento un po’ a tesi; di queste anime fragili, che non a caso citano testualmente frasi che sembrano uscite da una canzone di Vasco Rossi (“E la vita continua anche senza di noi…”) allo spettatore restano addosso anzitutto le emozioni torrenziali, i gesti estremi, i volti scavati. E la perfezione cupa e avvolgente di certe scene che nonostante la sobrietà registica vivono anche di un’elaborazione che è puramente visiva e fotografica. 
C’è un momento, in particolare, in cui madre e figlia appaiono più simili di quanto non sono in realtà perché le loro rispettive silhouette fisiche vengono illuminate da colori analoghi, accentuati non poco rispetto alla media cromatica del film. Delle tonalità oscillanti tra il nero e l’olivastro che rendono come meglio non si potrebbe la tara familiare in comune, l’unica dalla quale non si può sfuggire e che rende i personaggi di Farhadi dei vinti, sempre e comunque.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Cannes 2013, Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Le passé (The Past)
Anno: 2013
Regia: Asghar Farhadi
Sceneggiatura: Asghar Farhadi                                                                                                                                   
Fotografia: Mahmoud Kalari
Montaggio: Juliette Welfling
Musiche: Evgueni Galperini, Youli Galperine          
Durata: 135'
Interpreti: Bérénice Bejo, Tahar Rahim, Ali Mossafa, Pauline Burlet, Elyes Aguis, Jeanne Jestin

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CANNES 2013 - The Immigrant, di James Gray

19/6/2013

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Senza ombra di dubbio, James Gray è uno degli autori più talentuosi del cinema americano. Lo ha dimostrato fin dagli esordi (Little Odessa) e lo ha confermato con forza attraverso lavori di altissimo livello come I padroni della notte e il folgorante Two Lovers. Naturale, dunque, che alta fosse l'attesa per il suo nuovo progetto, The Immigrant, ambientato pochi anni dopo il termine della prima guerra mondiale e incentrato sulla storia di Ewa, ragazza polacca in fuga dal suo paese per approdare in America, la terra dei sogni, con la speranza di poter costruire un futuro di felicità per se stessa e l'amata sorella.
Da sempre affascinato dalle storie della comunità dell'Est di Brighton Beach, a Brooklyn, dove egli stesso è cresciuto, Gray ha deciso di realizzare questo film traendo ispirazione da alcune foto scattate dal nonno, sbarcato a Ellis Island dalla Russia nel 1923. La realtà storica, la finzione scenica e un vago sentore autobiografico si sono così fusi insieme, per dare vita a un'opera che a differenza dei lavori precedenti rifugge la contemporaneità, mettendo però ancora una volta in mostra elementi precipui del cinema di Gray, fondato su decise connivenze morali atte a veleggiare tra i mille sentieri dei sentimenti umani.
La Via Crucis di Ewa assume ben presto i contorni di una lotta feroce, portata avanti con il coltello tra i denti e la forza nel cuore; dopo aver assistito alla morte dei genitori, ghigliottinati dai soldati davanti a suoi occhi, la protagonista prende per mano la sorella Magda, trascinandola su una nave diretta verso la Terra Promessa. All'arrivo, Magda viene rinchiusa in ospedale in quanto malata di tubercolosi, mentre per Ewa, prossima all'immediato rimpatrio per sospetti legati al suo possibile status di donna di malaffare, la salvezza e l'inganno risiedono negli occhi languidi di un impresario teatrale, che la prende con sé promettendole di impegnarsi per farle riabbracciare al più presto la sorella.
Nell'America degli anni Venti la società vive di contrasti, dicotomie, violenza, egoismo, sopraffazione. Esplode il proibizionismo, si devono regolare il consumo di alcoolici e la prostituzione, bisogna difendere la propria posizione sociale, ricoprire i corpi delle donne e porsi nei limiti del rispetto della legge; in realtà, però, basta un'amicizia, il contatto giusto, una mazzetta di denaro, un piccolo inganno, e tutto è permesso come e più di prima. Lo sa bene Bruno Weiss, magnate di Ewa e di altre ragazze fatte esibire in scena e concesse ai clienti dietro le quinte: un personaggio che pare riunire lo Zampanò di Fellini e il ferale Olivier Gourmet della Venere Nera di Kechiche. Ewa, disgustata dall'uomo e da stessa, è comunque costretta ad accettare umiliazioni e vergogna, pur di portare avanti il suo progetto e raccogliere i soldi necessari per liberare Magda. 
Legato all'inizio a una forte impronta di ricostruzione ambientale, The Immigrant (il riferimento chapliniano resta nel titolo e poco più) muta volto e si fa sanguigno melodramma nel momento in cui entra in scena Orlando, mago scapestrato che ben presto si innamora di Ewa. Tra lui e Bruno esplode una volta per tutte un conflitto in corso d'opera già da diversi anni, ed entrambi si azzannano per conquistare il cuore lacrimante della donna. Il film si cala così nei territori di un bizzarro triangolo sentimentale, al cui vertice si pone una protagonista dalle mille risorse e alla base una coppia di uomini sporchi, graffiati dalla vita, feriti dai rimorsi (Bruno in particolare), eppure decisi a raggiungere l'obiettivo a ogni costo.
James Gray, sublime cantore delle infinite sfumature dell'anima, dà il meglio di sé proprio nella seconda parte dell'opera, quando inizia a trascurare lo schema del racconto per scavare con furia oltre i leciti confini dell'amore. Una messinscena ordinata, classica, ammaliante, che trova il modo impennarsi in un finale ipnotico, chiuso da un'inquadratura strepitosa, una sorta di "split screen al naturale" utile per confermare per l'ennesima volta le smisurate capacità di Gray.
A dare volto e anima ai protagonisti di The Immigrant troviamo il feticcio Joaquin Phoenix, bravo a danzare tra riflussi sottotraccia e improvvisi scoppi istintuali e impersonificazione di un personaggio dalle infinite contraddizioni, il bel Jeremy Renner e soprattutto, sopra a tutti, Marion Cotillard, assoluto e inarrivabile punto di forza del film. Un'altra prova memorabile, recitata in doppia lingua (inglese e polacco) senza la benché minima incertezza, per trasformarsi in ogni istante da Madonna a Meretrice, da Santa a Peccatrice, defenestrando qualsiasi resistenza formale ed emotiva; nei suoi occhi e nel suo viso ci si tuffa e ci si perde, fino a non riemergere più. Splendida.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Cannes 2013, Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: The Immigrant
Anno: 2013
Regia: James Gray
Sceneggiatura: James Gray, Ric Menello
Fotografia: Darius Khondji
Montaggio: John Axelrad
Scenografia: Happy Massee
Musiche: Chris Spelman
Durata: 114'
Interpreti: Marion Cotillard, Joaquin Phoenix, Jeremy Renner, Dagmara Dominczyk

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