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TORINO 31 - Only Lovers Left Alive, di Jim Jarmusch

2/12/2013

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Un disco in vinile gira sul piatto, ripreso dall’alto, alternato alle immagini dei due protagonisti, sdraiati nell’estasi del pasto ematico appena consumato: si apre così, con questa ripresa mesmerizzante e seduttiva, Only Lovers Left Alive, ultima e splendida opera del regista naturalizzato newyorkese Jim Jarmusch, anteprima italiana alla trentunesima edizione del Torino Film Festival e poi finalmente nelle sale a maggio.
Adam (Tom Hiddleston) ed Eve (Tilda Swinton) sono una coppia di vampiri, amanti da secoli, diametralmente opposti nell’aspetto e nel modo d’essere: lui è cupo, musicista e collezionista di magnifiche chitarre d’epoca, ancorato al passato e nero negli abiti e nell’anima, mentre Eve è di un candore abbagliante, nelle pelle e nei capelli, e il suo essere bibliofila la rende curiosa e intellettualmente viva. Opposti e separati sono anche nei luoghi, in quanto Adam vive a Detroit, città che ospita le macerie della gloriosa Motown Records, con una qualità funebre come le sue composizioni; Eve dimora a Tangeri, della quale evita (ovviamente) il sole assorbendo però la calma riflessiva di un ambiente che avverte come proprio.
Only lovers left alive ruota attorno a due concetti fondamentali: l’amore, inteso nel senso più ampio, anche come passione verso l’arte e il Bello, e l’eternità. Il legame che unisce Adam ed Eve, figure quasi archetipiche come i nomi che portano, trascende il tempo e lo spazio, si colloca al di sopra delle debolezze umane poiché è in primo luogo mentale, una liaison telepatica e indissolubile. Entrambi si appassionano profondamente a una forma d’arte: Eve, come già si diceva, alla letteratura, e Adam alla musica, artista solitario che rifiuta di diffondere ciò che compone ma che, suo malgrado, può essere ascoltato ovunque. Gli oggetti che colleziona, gli strumenti antichi, il mobilio vintage, sono i residui di un passato che non riesce a lasciare andare; Eve, per contro, è proiettata in avanti, utilizza i mezzi tecnologici, si adegua alla società del presente pur stentando a riconoscersi in essa.
La vera decadenza non è vampiresca, bensì umana: gli uomini sono definiti zombies, automi che vivono per inerzia, senza assaporare realmente l’esistenza, facili da comprare con mazzette di dollari in cambio di sangue fresco e qualche favore necessario. Sono un tramite, come Ian (Anton Yelchin), che procura ad Adam ciò di cui ha bisogno, e non cibo, come la tradizione vampirica vorrebbe, anche se il sangue che sgorga da graffi e taglietti occasionali provoca, inevitabilmente, qualche sussulto. La paura dell’infezione di cui può farsi veicolo un plasma sempre più intossicato è un altro segno dei tempi, ennesimo sintomo del crollo che porta Adam (e anche Eve) a rimpiangere un passato in cui si intratteneva con Byron e Shelley, in cui il loro mondo era impregnato da quella cultura ora ridotta in videopillole su YouTube.
Il personaggio di Christopher Marlowe, interpretato da un grandissimo John Hurt, è eredità vivente di quell’epoca, poeta e drammaturgo controverso nella Gran Bretagna del 1500, che anticipò Shakespeare nel perfezionare il blank verse, figura che è citazione fatta carne in mezzo alle molteplici sparse nel corso della narrazione, un vortice di riferimenti tra cultura alta e bassa mai gratuiti o messi a caso, bensì sempre mirati e precisi. Così come il Johnny Depp di Dead Man portava il nome di William Blake, assumendo una sorta di doppia identità, allo stesso modo Adam ed Eve utilizzano pseudonimi, dalla Daisy Buchanan de Il Grande Gatbsy a Faust, che campeggia sul finto tesserino da medico del vampiro, utilizzato per infiltrarsi in ospedale e procurarsi il nutrimento.
La coppia vampirica forma un piccolo universo in equilibrio, che viene temporaneamente stravolto dall’arrivo di Ava (Mia Wasikowska), sorella minore di Eve, la quale rappresenta il lato ancora animalesco e selvaggio dei succhiatori di sangue; una tempesta tanto inarrestabile quanto inconsapevolmente dannosa.
Il vampirismo, dunque, è solo metafora e superficie di un racconto complesso e profondo, raffinato e articolato, che si lascia metabolizzare lentamente per essere poi accolto e amato. La splendida fotografia di Yorick Le Saux e lo score composto da Jozef van Wissem, unito a scelte musicali eccelse come da tradizione nel cinema di Jim Jarmusch, completano un’opera crepuscolare e vitale al tempo stesso; un vero e proprio atto d’amore verso la Settima Arte.

Chiara Pani

Sezione di riferimento: Torino 31, Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Only Lovers Left Alive
Anno: 2013
Regia: Jim Jarmusch
Sceneggiatura: Jim Jarmusch
Fotografia: Yorick Le Saux
Musiche: Jozef van Wissem
Durata: 123’
Uscita italiana: 15 maggio 2014
Attori: Tilda Swinton, Tom Hiddleston, John Hurt, Mia Wasikowska, Anton Yelchin, Jeffrey Wright

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TORINO 31 - Vandal e La bataille de Solférino

1/12/2013

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Anche in questa edizione del Torino Film Festival la Francia ha avuto un ruolo da protagonista, con la presenza di tre film in concorso, tutti di ottima qualità, a confermare per l'ennesima volta la piena salute di una cinematografia assolutamente primaria nel panorama mondiale per solidità e quantità di prodotti di notevole fattura. Insieme all'affascinante 2 automnes 3 hivers di Betbeder, vincitore del Premio Speciale della giuria capitanata da Guillermo Arriaga, il pubblico torinese ha potuto visionare e applaudire anche Vandal e La bataille de Solférino, debutti nel lungometraggio di Hélier Cisterne e Justine Trier, rispettivamente classe 1981 e 1978.

In Vandal assistiamo alla storia di Chérif, quindicenne problematico che viene mandato a vivere dagli zii a Strasburgo, con la speranza che cambiando città il ragazzo possa maturare e tranquillizzarsi. Di fronte al nuovo ambiente, il protagonista assume su di sé i consueti conflitti legati alla famiglia e ai primi amori, fino a quando non scopre il mondo dei graffiti, entrando a far parte di una banda che di notte esce furtiva nelle strade per ricoprire i muri con fantasiose scritte e creativi disegni. Questa nuova fonte di sfogo diventa per lui un veicolo indispensabile per scaricare la propria irrequietezza e cercare una vera identità.
Non particolarmente originale dal punto di vista narrativo, il film di Cisterne, adeso al volto timido e incerto del suo protagonista (Zinedine Benchenine), si lascia comunque apprezzare per una concretezza strutturale che schiva ogni forma di retorica adolescenziale, componendo un ritratto sofferto e fremente, in cui la durezza della quotidianità si dissolve nell'abbandono estatico di una doppia vita in cui rampanti guerrieri della notte sfidano le convenzioni per espiare il desiderio di libertà e affermazione personale. Ne esce un quadro d'insieme ritmato, dolente, ipnotico, che non sa e non vuole offrire soluzioni, ma si limita a descrivere con discreta enfasi il cuore pulsante di un ragazzo che attraverso quelle bombolette e quei disegni esplica un graduale e difficoltoso transito verso l'età adulta. Da segnalare, in piccoli ruoli, le presenze di Sophie Cattani e di Corinne Masiero, quest'ultima lo scorso anno protagonista di Louise Wimmer, film amatissimo dal pubblico francese e premiato ai César.

Le difficoltà relazionali sono al centro anche di La bataille de Solférino, questa volta però mescolate con eventi di carattere pubblico e sociale. L'intero racconto si svolge infatti nel giorno delle elezioni presidenziali del 2012, nelle ore in cui François Hollande ottiene la sua vittoria a scapito di Sarkozy. Tra i giornalisti accalcati nella via dove ha sede il quartier generale del partito socialista c'è anche Laetitia, combattuta tra la necessità di coprire in tempo reale l'evento e la preoccupazione per le due figlie, lasciate a casa nelle mani di un baby sitter disturbato però dal padre delle bambine, separato dalla moglie e intenzionato a voler vedere a tutti i costi le figlie nonostante il tribunale gli abbia intimato di poterlo fare solo in presenza della madre.
Serrato, concitato, il film della Triet rapisce l'occhio dello spettatore grazie a una regia che brilla per intensità e viscerale trasporto, catapultando la fruizione nel caos devastante che accompagna la gente presente in strada da un lato e la “battaglia” tra i due genitori dall''altro, in un coacervo di sensazioni che sanno unire con sapienza l'emozione collettiva e l'esplosione del conflitto privato, il lavoro e l'amore, la paura e l'istinto, gli schiaffi e le schermaglie dialettiche. Una guerra di fatti e parole, ripicche e accuse, attacchi e difese, nella quale svettano i due bravi protagonisti, Laetitia Dosch e ancora una volta Vincent Macaigne, già primo attore nel film di Betbeder, qui alle prese con un ruolo più denso e complesso, interpretato peraltro con il giusto vigore.
Da notare, come spiegato dalla regista e dal produttore durante l'incontro con il pubblico post-visione, che molte scene sono state realmente girate in Rue de Solférino in quella giornata, con otto macchine da presa piazzate ovunque e gli attori mescolati (e sballottati) tra la folla inconsapevole: un azzardo ben riuscito, per un convincente esempio di parziale docu-fiction utile a esemplificare come in ogni luogo, durante qualsiasi evento di massa, ci siano tante piccole e grandi microstorie nascoste nel buio e pronte per essere vissute, raccontate e consumate dallo spietato e indispensabile sguardo del cinema. 

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Torino 31


Schede tecniche

Vandal

Regia: Hélier Cisterne
Sceneggiatura: Hélier Cisterne, Gilles Taurand, Katell Quillévéré
Fotografia: Hichame Alaouié 
Montaggio: Thomas Marchand
Musiche: Ulysse Klotz
Attori: Zinedine Benchenine, Chloé Lecerf, Emile Berling, Kévin Azaïs, Jean-Marc Barr, Brigitte Sy
Anno: 2013
Durata: 90'

La bataille de Solférino

Regia, sceneggiatura: Justine Triet
Fotografia: Tom Harari 
Montaggio: Damien Maestraggi 
Attori: Laetitia Dosch, Vincent Macaigne, Arthur Harari, Virgil Vernier
Anno: 2013
Durata: 94'

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TORINO 31 - Inside Llewyn Davis, di Ethan e Joel Coen

30/11/2013

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Inside Llewyn Davis, che è valso ai fratelli Coen il Grand Prix della giuria al Festival di Cannes 2013, prende il via in primo luogo dalla loro personale passione per la musica folk, dunque una nicchia delimitata in modo specifico. La figura di Llewyn Davis (ottima l’interpretazione di Oscar Isaac, qui di nuovo al fianco di Carey Mulligan dopo il ruolo di Standard, il marito di Irene, in Drive) è ispirata a quella del cantautore Dave Van Ronk, scomparso nel 2002, e alla sua autobiografia, pubblicata dopo la sua morte; il titolo del film si rifà a quello di un album dell’artista, Inside Dave Van Ronk. 
Il ritratto di Davis va di pari passo con quello della scena musicale folk del Greenwich Village newyorkese all’inizio degli anni ’60, lo stesso humus culturale che ha visto l’ascesa di Bob Dylan, a cui si fa riferimento nella figura di un cantautore che sale sul palco subito dopo il protagonista. Il destino di Davis però è stato ben diverso: già parte di un duo insieme all’amico Mike, galleggiando sempre nella mediocrità di una fama minuscola, tenta la carriera solista dopo il suicidio dell’ex partner, evento che lo segna irrimediabilmente. 
Llewyn incide per la piccola etichetta gestita dall’anziano Mel (Jerry Grayson, qui alla sua ultima interpretazione prima della scomparsa), discografico caotico e un po’ cialtrone; il personaggio del cantautore è spigoloso, irascibile, sarcastico, estremamente idealista e non disposto al compromesso. Ogni cosa pare andare nel verso sbagliato ma, in realtà, è lui stesso l’artefice dei propri fallimenti: sostanzialmente immaturo, perennemente ospitato sul divano di qualcuno e sempre squattrinato, Davis incarna lo stereotipo dell’artista bohemien a tutto tondo, con un eccesso di retorica che finisce per sconfinare in una vena moralistica che risulta fastidiosa. 
La presenza felina del film, Ulisse, il micio dei Gorfein, coppia di facoltosi intellettuali del Village che ospita Llewyn probabilmente più per moda (dopotutto, è un artista) che per reale affetto, ha un ruolo diverso rispetto alle precedenti pellicole dei due registi: il gatto è spesso centrale nelle produzioni dei Coen, quasi una figura chiave, mentre qui appare più un pretesto narrativo che un filo conduttore. Davis ha non pochi problemi anche nei rapporti interpersonali, in primis con le donne, ad esempio Jean (Carey Mulligan) sposata con un suo amico, Jim (Justin Timberlake), il che però non ha impedito ai due di finire a letto insieme con una conseguenza che potrebbe essere ingombrante. 
L’audizione improvvisata al cospetto di Bud Grossmann (vedere recitare F. Murray Abraham fa sempre piacere) che potrebbe lanciarlo definitivamente, si rivela anch’essa fallimentare: “ciò che canti, ormai, è vecchio”. Un sorta di epitaffio psicologico per Llewyn, non uno sprone al cambiamento bensì un’ulteriore spinta verso il basso. 
Inside Llewyn Davis, nonostante stia ricevendo molte critiche entusiastiche, è per lo più un esercizio di stile, impeccabile nella tecnica e nella confezione, ma privo di una vera anima, di quel cuore pulsante che caratterizzava le pellicole più riuscite degli autori; è come se il narrato rimbalzasse su un muro prima di arrivare allo spettatore, non giungendo così in maniera diretta. In tutto questo però, ci sarebbe un solo, unico motivo per vedere il film: il ritorno di John Goodman davanti alla macchina da presa dei Coen. Il lasso di tempo, pur se relativamente breve, occupato dall’ingombrante e istrionica presenza dell’attore sullo schermo, col suo accento impastato, le battute caustiche, la fisicità unica, vale probabilmente l’intera pellicola, e ne rappresenta il lato più autentico e viscerale.
Un lavoro egregiamente eseguito, che ha i suoi buoni momenti ma con una freddezza di fondo che non può convincere e, soprattutto, non è in grado di coinvolgere. 

Chiara Pani

Sezione di riferimento: Torino 31


Scheda tecnica

Titolo originale: Inside Llewyn Davis
Anno: 2013
Regia: Joel e Ethan Coen
Sceneggiatura: Joel e Ethan Coen
Fotografia: Bruno Delbonnel
Musiche: T-Bone Burnett
Durata: 105’
Uscita in Italia: 20 Febbraio 2014 
Interpreti principali: Oscar Isaac, Carey Mulligan, Justin Timberlake, Max Casella, Ethan Phillips, John Goodman

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TORINO 31 - The Stone Roses: Made of Stone, di Shane Meadows

30/11/2013

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“I'm standing warm against the cold
Now that the flames have taken hold
At least you left your life in style

And for far as I can see
Ten twisted grills grin back at me
Bad money dies I love the scene

Sometimes I fantasise
When the streets are cold and lonely
And the cars they burn below me
Don't these times fill your eyes

When the streets are cold and lonely
And the cars they burn below me
Are you all alone
Is anybody home?”

(Made of Stone)

Un viaggio a ritroso nel tempo, attraverso il Mito: quello impersonificato da una band, gli Stone Roses, la cui stella brillò poco, ma – come si suol dire – intensamente. Autori di soli due album in studio, più una serie di raccolte, B-sides e varie: The Stone Roses (soprattutto) e Second Coming sono il biglietto di benvenuto e di addio di uno dei gruppi più significativi della scena inglese del periodo a cavallo tra gli anni Ottanta e quelli Novanta. Dopo il punk, dopo la new wave e prima del ciclone britpop (Oasis, Blur), del quale avrebbero gettato le basi ma che, ironia della sorte, li avrebbe definitivamente messi all’angolo. 
Il regista Shane Meadows parte dal presente, dall’avvio di una nuova serie di concerti a più di venti anni di distanza da quel miracoloso disco di esordio: nel 2011 i quattro musicisti annunciano il loro rientro sul palco, dopo anni di litigi, incomprensioni e progetti solisti. E subito si ritorna indietro nel tempo, nella Manchester dei primi anni Ottanta, quando tutto sembrava sul punto di cambiare, e lo avrebbe fatto davvero: un momento epocale del quale gli Stone Roses furono indiscussi protagonisti, con una serie di singoli pubblicati tra il 1985 e il 1989, anno di uscita del memorabile LP omonimo. Meadows li filma con l’occhio del fan sfegatato, e si vede: nel 2011 sono quattro uomini invecchiati dalla vita e dal successo, ma con ancora la voglia e la grinta che solamente il rock (quello vero) può dare. Ed eccoli quindi affrontare nuovamente le prove per la reunion, dapprima incerti e spaventati, poi sempre più convinti e sicuri delle proprie potenzialità, esattamente come un tempo. Parallelamente al presente, inoltre, il documentario racconta l’importanza storica rappresentata da questi quattro ragazzi impertinenti e presuntuosi, incapaci di esprimersi compiutamente a parole durante le prime interviste, ma in grado di partorire un disco assolutamente perfetto, idolatrato indistintamente da pubblico e critica: un oggetto epocale. 
The Stone Roses: Made of Stone si infiamma poi quando il gruppo annuncia a sorpresa, tramite facebook e twitter, una sorta di concerto-anteprima gratuito, per un numero limitato di persone, in uno dei locali storici della loro città: la voce si diffonde nel giro di pochissime ore, e ben presto l’evento diventa sold out. Meadows filma le reazioni della gente nelle strade, in coda nell’attesa di ottenere l’ambito biglietto, e rende chiarissimo l’obiettivo principale della sua intera operazione: non tanto costruire un’agiografia intorno ai componenti della band, quanto invece sottolineare l’importanza delle loro canzoni nelle vite della gente comune, a dimostrazione dello statuto indiscusso raggiunto dagli Stone Roses nella storia della musica. 
Un documentario generoso e incredibilmente travolgente, quindi, e non solamente il resoconto per immagini delle loro esibizioni dal vivo: per i fan è un regalo lungamente atteso per anni; per tutti gli altri, invece, l’occasione per colmare una lacuna musicale che infonde nuova vita a un gruppo oggi colpevolmente dimenticato. 

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Torino 31


Scheda tecnica

Titolo originale: The Stone Roses: Made of Stone
Anno: 2013
Regia: Shane Meadows
Fotografia: Laurie Rose
Musiche: The Stone Roses
Durata: 97’
Interpreti principali: Shane Meadows, Ian Brown, Gary Mounfield, Alan Wren, John Squire

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TORINO 31 - 2 Automnes 3 Hivers, di Sébastien Betbeder

28/11/2013

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All'alba del 2013, si può ancora fare un film che sembra uscito dalla Nouvelle Vague senza apparire fuori tempo massimo? Certo, si può, a patto che dietro alla macchina da presa ci sia un autore che abbia idee, intelligenza, umiltà e la giusta sensibilità. Da questo punto di vista possiamo stare tranquilli, perché Sébastien Betbeder di tocco ne ha da vendere, come già avevamo avuto modo di appurare lo scorso anno con il notevole Les nuits avec Théodore, presentato sempre a Torino. 
Allora ecco 2 Automnes 3 Hivers, promosso stavolta al concorso ufficiale; un film che riesce a riportarci indietro, all'epoca delle insistite voci fuori campo, per raccontarci con volontà e passione il percorso di crescita di un trentenne a caccia di una propria strada nella vita.
Lui è Arman, impersonificato dal bravo Vincent Macaigne; espressione perennemente stordita e un po' ebete, sempre meno capelli in testa, lavori saltuari, case prestate dagli amici, valigie sempre pronte, corse nel parco, birre in compagnia, zero risparmi, tanti buoni propositi e pochissime certezze; una vita da eterno adolescente vagabondo smarrito tra le vie di Parigi, perlomeno sino a quando davanti a lui appare l'intrigante Amélie e il sentimento esplode. Qualche settimana dopo Arman, con parecchia goffaggine e prendendosi una coltellata, salva la ragazza da un'aggressione; da quel momento il rapporto tra i due nasce, si solidifica e matura. Passano i mesi e le stagioni, la relazione attraversa momenti di dura crisi e prova a ricomporsi. In parallelo Benjamin, il miglior amico di Arman, viene colpito da un ictus; a seguito di un lungo periodo di riabilitazione riesce però a riprendersi, e trova pure lui l'amore legandosi a un'ortofonista. 
Così i personaggi principali del film diventano quattro, e le loro microstorie si alternano e si incrociano in piccole sequenze accompagnate da didascalie che scandiscono lo scorrere del tempo; gli attori ci guardano negli occhi, ci parlano, ci raccontano in prima persona gli accadimenti, anticipano le immagini che stiamo per vedere, le descrivono, le smitizzano, senza filtri né barriere, come fossero nostri amici da sempre. L'empatia si spreca, la vicinanza emotiva ci trafigge, il senso di comunione e appartenenza ci conquista, il meccanismo si reitera e funziona: 2 Automnes 3 Hivers parla di noi e con noi, attraverso lievi profumi truffautiani che guardano al passato rotolandosi nel presente, rispettosi di una tradizione omaggiata con freschezza e arguzia, in maniera non troppo dissimile da come è solita fare anche la nostra adorata Valérie Donzelli. 
Il mondo filmico di Betdeber è questo, lo avevamo già intuito e qui ne abbiamo la netta conferma: un panorama di figurine in miniatura, fragili e insicure, dolci e oneste, sofferenti e sognatrici; rivolgendosi direttamente al pubblico, occhi contro occhi, questi personaggi tremolanti cercano un abbraccio che dia loro la forza per superare timori e imbarazzi: noi glielo diamo volentieri, sorridendo di fronte a un cinema di ieri che per fortuna vive e respira ancora oggi, coccolando la bellezza dell'inverno e aspettando che magari prima o poi arrivi anche un'estate.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Torino 31


Scheda tecnica

Regia e sceneggiatura: Sébastien Betbeder 
Fotografia: Sylvain Verdet 
Montaggio: Julie Dupré
Musiche: Bertrand Betsch
Attori: Vincent Macaigne, Maud Wyler, Bastien Bouillon, Audrey Bastien
Anno: 2013
Durata: 93'

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TORINO 31 - Noche, di Leonardo Brzezicki

27/11/2013

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Miguel è morto. Miguel si è suicidato, in una grande casa di campagna in mezzo ai boschi. Prima di farlo ha registrato con un microfono i suoi pensieri, il suono della natura e quello degli oggetti di uso quotidiano intorno a lui. Ora sei tra i suoi migliori amici sono là, in quella abitazione lontana dal resto del mondo (lontana dai vivi), per ascoltare le sue parole di quegli ultimi giorni, e per mettere a posto gli oggetti abbandonati tra mura che non ospiteranno più nessuno. 
Dall’Argentina arriva a Torino il magnifico Noche, opera prima di Leonardo Brzezicki, e basta un attimo per essere catapultati in un altro mondo, immateriale e lontano. Perché Noche è un ponte diretto con l’aldilà, con chi non è più tra noi. Il cinema di Brzezicki si inserisce perfettamente all’interno della nuova cinematografia sudamericana, la stessa dei vari Pablo Larrain e Lisandro Alonso, giovani cineasti coraggiosi che cercano di fare i conti con le storie recenti dei propri paesi, utilizzando il cinema come arma di distruzione e resistenza. Elaborando il passato per cercare di venire a patti con il presente, attraverso le immagini. E anche i suoni, nel caso di Noche. Un’opera assolutamente astratta e priva di una logica consequenziale, dove allo spettatore viene chiesto di compiere un percorso attraverso un’esperienza estremamente ipnotica ed affascinante. 
Tramite quella necessaria ambizione scriteriata che è propria solamente degli esordienti, Brzezicki guarda a modelli alti: a Tarkovskij, per esempio. A Sokurov, a Lynch; persino a Il grande freddo di Kasdan, se si vuole. Ma è un’ambizione che va inseguita e accettata, perché dietro la fascinazione delle basi comunicative (immagine e suono), Noche conferma uno sguardo vero e doloroso sulla realtà; si parla di morte, certo, ma il risultato è sorprendentemente vivo. Perché è un film sulla percezione di ciò che è stato e che non si ripeterà, e che riguarda tutti, indistintamente. Lavorando sul contrasto tra immagine (il presente) e suoni (il passato), il cineasta argentino cerca di afferrare l’invisibile e l’imponderabile. E se ci riesce è appunto perché sappiamo tutti quanto sia impossibile: ascoltando continuamente le registrazioni dell’amico defunto, e ripetendole a loro volta, i protagonisti tentano disperatamente di ricostruire un passato che non esiste più.  Per sconfiggere la morte, o per cercare quantomeno di attribuirgli quel senso che invece non ha. 
Immerso in una natura selvaggia ed estranea, Noche è uno sguardo alieno su un mondo in disfacimento, un film di fantascienza popolato da fantasmi che non si possono vedere. Gli elementi primordiali (l’acqua del fiume, il fuoco appiccato per bruciare gli oggetti di Miguel) contraddistinguono questo luogo concreto e materiale, mentre è da altrove che provengono quelle voci e quei suoni attraverso i quali si deve tentare di capire, di vedere, di accettare. Anche non riuscendoci, anche abbandonandosi ai propri istinti primordiali e brutali. E così, in un lento susseguirsi di dissolvenze e suggestioni ipnotiche, chi è sopravvissuto non può far altro che prendere coscienza dell’arrivo della notte. Dopo, sarà solo silenzio. 

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Torino 31


Scheda tecnica

Regia: Leonardo Brzezicki
Sceneggiatura: Leonardo Brzezicki
Fotografia: Max Ruggieri
Montaggio: Robert Dalva
Attori: Flavia Noguera, Jair Toledo, Marìa Soldi, Gaston Re, Pablo Matias Vega
Anno: 2013
Durata: 85’

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TORINO 31 - Sweetwater, di Logan Miller

27/11/2013

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Non è più tempo di eroi. Resta solo la vendetta, atto finale necessario che peraltro mai potrà restituire ciò che è stato tolto. Rimane il desiderio di rivalsa, impetuoso e inarrestabile, che spinge a cercare il colpevole, braccarlo, inseguirlo, fiutarlo, sino a divorarne l'anima impura per gettarlo senza pietà tra le fauci dell'inferno. Mirare, sparare, colpire, ammazzare, per poi gettare le vesti nel fuoco e ballare nudi intorno alle fiamme della purificazione, cercando di dare un senso al presente monco e al futuro che forse bisognerà vivere.
Sweetwater, diretto da Logan Miller, scritto insieme al fratello gemello Noah e presentato fuori concorso al Torino Film Festival, conferma per l'ennesima volta una delle poche leggi intoccabili dell'Arte che più amiamo: il western non morirà mai. Non può morire. La sua essenza totemica e universale ne impedisce l'estinzione. Passano le mode, cambia la fruizione, si evolvono i gusti e i generi, ma il cuore pulsante del vecchio West resiste, inossidabile, perché tra cavalli, polvere e pistole ci sarà sempre una storia da raccontare, nel tempo e fuori dal tempo.
E allora eccoci, stavolta in una piccola città nelle colline del New Mexico, alla fine del diciannovesimo secolo. Lì, tra terra e stivali, coltelli e bordelli, campi da coltivare e ruoli da conservare, c'è un predicatore che da un lato invoca il nome di Dio e dall'altro opera costantemente nell'abominio, copulando regolarmente con le donne assoggettate al suo potere e macchiandosi di tre delitti; c'è uno sceriffo squinternato e impavido che sospetta di lui e porta avanti le sue indagini sino ad accertare l'amara verità; c'è una giovane vedova, moglie di uno dei tre uomini assassinati, che indossa il suo vestito più bello, abbandona le sementi e si tramuta in una spietata killer colorata di viola e mossa da un odio incontrollabile. Uno contro tutti, tutti contro uno; i proiettili volano, il sangue si sparge, la resa dei conti si avvicina e si consuma; nessuno però uscirà realmente vittorioso, perché le cicatrici del dolore talvolta non hanno più speranza di essere rimarginate.
Potente, arguto, spassoso, solidissimo: Sweetwater è cinema che guarda al passato desacralizzando il presente, soffiando nel vento il residuo senso della perduta moralità a (s)vantaggio di un racconto ebbro di malinconia nella sostanza e ricco di ironia nella forma, dove tutti loro malgrado devono subire gli eventi, impossibilitati a nascondersi o fuggire, condannati a nuotare tra le viscere del peccato e dell'oscenità. 
Diretto con mano ferma, rispettoso della tradizione di riferimento e mai autocompiaciuto, l'ottimo lavoro dei Miller (possibili eredi dei Coen? Chissà...) consegna agli annali un capelluto e mai così gigioneggiante Ed Harris, alle prese con un personaggio delirante e irresistibile, capace di dar vita a sequenze memorabili (il pestaggio dello sceriffo abusivo, la rovina del tavolo pregiato) con irrisoria facilità. Accanto a lui la bella e decisa January Jones e un mistico e luciferino Jason Isaacs, convinti e convincenti.
Peraltro, attori a parte, è tutto l'insieme a funzionare: tra inquadrature in controluce volte a creare effetti fotografici d'indubbio fascino e soluzioni scenografiche azzeccatissime (il confronto finale nel recinto delle pecore), ogni dettaglio della messinscena contribuisce infatti a sottolineare la magniloquente scorrevolezza e precisione di un film lineare, certo non originale, ma capace di essere esemplare e perfetto nella sua essenzialità. Un pregio che in pochi si possono permettere.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Torino 31


Scheda tecnica

Regia: Logan Miller 
Sceneggiatura: Logan Miller, Noah Miller 
Fotografia: Brad Shield 
Montaggio: Robert Dalva 
Musiche: Martin Davich 
Attori: January Jones, Jason Isaacs, Ed Harris, Eduardo Noriega, Jason Aldean, Stephen Root
Anno: 2013
Durata: 95'

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TORINO 31 - Frances Ha, di Noah Baumbach

27/11/2013

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Frances è ventisettenne e vive a New York. La sua vita è segnata da un senso di incompiutezza e precarietà: aspirante ballerina, è per ora solo consulente in una compagnia e si sposta da un appartamento e relativa zona cittadina a un altro, con brevi viaggi a fare da parentesi (a Sacramento dai genitori, a Parigi in solitaria). Esce da una relazione e il rapporto con la sua migliore amica di nome Sophie rischia di allentarsi quando questa parte per il Giappone col fidanzato Patch. Con pochi soldi in tasca (tant'è che un rimborso di tasse si trasforma in un piccolo evento), ma con uno spirito vitale, un modo di essere al mondo difficilmente incrinabili, Frances vive bene le sue giornate, in attesa di uno scatto in avanti verso una realizzazione. 
Transitato, con riscontri positivi, in numerosi festival mondiali (Berlino compreso) prima di essere meritoriamente scelto anche a Torino, Frances Ha (il perché del titolo si scopre alla fine) potrebbe diventare un cult movie. Scritto dal regista insieme alla protagonista Greta Gerwig, è anche e soprattutto un veicolo attoriale o, se la si vuole porre in modo più poetico, un film costruito da Baumbach con e per la sua musa artistica. Ma non è un male, perché è difficile non rimanere almeno un po' conquistati dal personaggio e dall'attrice che lo incarna, così come ci va uno sforzo di lucidità per non tramutarsi in cinefili che confondono troppo realtà e schermo: la Gerwig ha infatti dichiarato che c'è molto di lei in Frances, pur trattandosi di pura fiction. 
Anima indipendente ma con una visione della vita come un'esperienza resa ricca dagli affetti, aggraziata nel suo essere un po' sgraziata, estroversa con stile, Frances balla, corre a modo suo per le strade newyorchesi, ci fa ridere, compie gesti e dice cose goffe, in un film (dovrebbe arrivare anche in Italia a inizio 2014 per la neonata Whale Pictures, ma il consiglio di cercarlo in originale è inevitabile) composto di molte parole, anche se il personaggio non ha veri e propri monologhi. Nonostante venga definita più volte, da se stessa e da un amico-coinquilino-possibile compagno “undatable”, per il suo essere eccentrica, svagata, non inquadrata e lievemente imbarazzante, è un personaggio (limitiamoci a dire personaggio...) per il quale non si può non provare una notevole empatia.
Ma al di là della protagonista, si tratta di un film che merita un giudizio positivo anche per quanto riguarda le scelte realizzative e stilistiche. Nel filmare, in bianco e nero, l'esistenza dei suoi giovani personaggi “wannabe” artisti, Baumbach, in controtendenza, non cerca l'effetto “rubato”. Niente camera a mano tremolante ma inquadrature perlopiù semplici, aderenti al profilmico ma studiate, evitando quando possibile stacchi e movimenti di macchina. Non c'è nulla di quanto messo in scena che sembri affrettato e al tempo stesso non c'è (quasi) nulla che sembri stare dove sta in funzione della macchina da presa. Il risultato è caratterizzato da una naturalezza realistica, ricercata però (Gerwig dixit) attraverso un lungo lavoro preparatorio e una sceneggiatura precisa. Nei suoi dialoghi a base di small talk, progetti di vita e un po' di sesso, il film evita anche abbastanza bene la trappola di una brillantezza ostentata e stucchevole, mentre arriva senza fatica il coinvolgimento dello spettatore con la protagonista, i luoghi che attraversa e le sue sensazioni (ad esempio, la scena in cui Frances, in taxi, torna da una trasferta poco riuscita ascoltando un messaggio tardivo).
Non necessariamente un grande film Frances Ha, ma uno che sbaglia ben poco, nel quale si respira positività, che si fa voler bene e da cui si esce bene – in tutti i sensi, con le note di Modern Love di Bowie – , aperto alla vita senza mostrarne i lati peggiori ma nemmeno raccontando favole, con un abile minimalismo che va a comporre un modello esistenziale solo apparentemente strampalato. 

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Torino 31


Scheda tecnica

Regia: Noah Baumbach
Sceneggiatura: Noah Baumbach, Greta Gerwig
Fotografia: Sam Levy
Interpreti: Greta Gerwig, Mickey Sumner, Michael Espner, Adam Driver
Anno: 2012
Durata: 86'

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TORINO 31 - Red Family, di Lee Yu-hyoung

26/11/2013

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Kim Ki-duk scrive e produce, l’esordiente Lee Ju-hyoung dirige: il risultato non è una pallida imitazione del cinema del grande regista e produttore, ma fortunatamente si rivela una piccola, preziosa opera prima sul tema del conflitto insanabile tra le due Coree. 
Red Family è la storia di un gruppo di persone che deve fingersi famiglia: dal momento che i loro cari sono infatti prigionieri del governo del Nord, si ritrovano costretti a svolgere il compito di agenti sotto copertura nella vicina Corea del Sud, effettuando atti di spionaggio e omicidi su commissione. I legami e le tensioni raggiungeranno il punto di non ritorno quando verranno a contatto con la disastrata famiglia dei loro vicini di casa, con conseguenze irreparabili per chiunque. Un argomento indubbiamente delicato, condotto con sapienza e mano leggera dal giovane regista esordiente: Red Family ricorda la freschezza della tradizione della grande commedia all’italiana, quando i drammi della Storia si incrociavano con le vite delle persone comuni scatenando un irresistibile attrito tra la drammaticità degli eventi e la leggerezza dello sguardo. 
La chiave del successo del film è questa, in fondo: quello che interessa maggiormente a Lee Ju-hyoung è la componente umana della vicenda, realizzando così un piccolo gioiello poetico sulla ricerca della felicità in condizione assolutamente avverse. Ogni membro della sua famiglia improvvisata è infatti alla ricerca di un qualcosa che è andato perduto: una figlia, una moglie, una sorella, un nipote. Tutti troveranno nella bizzarra compagnia del vicinato un appiglio al quale reggersi per sopravvivere, anche se questo comporterà una drammatica inversione di rotta. Il giovane regista è bravo ad alternare i vari registri, e anche se in alcuni momenti non riesce ad evitare che faccia capolino la retorica (la canzone Arirang nel prefinale, vero e proprio marchio di fabbrica di Kim Ki-duk), il suo film si dimostra comunque in grado di emozionare in maniera sentita e sincera. 
Al centro di tutto, ovviamente, c’è ancora la famiglia, tema quantomeno ricorrente all’interno di questa cinematografia; quella vera, reale, dei vicini è disastrata e sempre sul punto di collassare. Quella fittizia invece è apparentemente perfetta, in completa linea con l’ideologia di un regime che impone una disciplina irreprensibile come le pieghe della divisa militare, ma incapace di trasmettere emozioni vere. E da qui, ovviamente, il dualismo tra le due Coree e le rispettive visioni del mondo: pensieri diversi e contrapposti, capaci però di un piccolissimo, flebile punto di unione rappresentato dalle parole dei due ragazzi più giovani, durante la sequenza della cena. 
Un film che predilige il cuore alla politica, che non vuole esaurire un argomento così vasto e complesso ma, al contrario, utilizza lo strumento del sorriso come arma rivolta contro la repressione e la mancanza di libertà: perché in Red Family si ride, ma è un divertimento di quelli che fanno male. 

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Torino 31


Scheda tecnica
  
Titolo originale: Bulg-eun Gajog
Regia: Lee Ju-hyoung
Sceneggiatura: Kim Ki-duk
Fotografia: Lee Chun-hee
Attori: Kim Yumi, Jung Woo, Son Byeong-ho, Park So-young
Anno: 2013
Durata: 99’

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TORINO 31 - Blutgletscher (The Station), di Marvin Kren

25/11/2013

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I ghiacciai si sciolgono. Troppo in fretta. Il mondo si sfalda senza più controllo. La scienza ha esaurito le sue risorse. I danni compiuti dall'uomo hanno raggiunto dimensioni incalcolabili. La natura inizia a vendicarsi, com'è giusto che sia.
Alcuni studiosi vivono in una stazione meteorologica sperduta tra le Alpi, per condurre ricerche riferite ai recenti cambiamenti climatici. All'improvviso alcuni blocchi di ghiaccio assumono un inquietante colore rossastro. Qualcosa di nuovo, di diverso e orribile, nasce e prende forma. Mutazioni genetiche, incroci impensabili, creature mutanti capaci di evolversi senza alcun limite. È il momento dell'assedio. Ne fanno le spese gli studiosi stessi, e un gruppo che accompagna un ministro in visita. Il biancore del paesaggio scivola nel nero della paura, generando inqualificabili mostruosità che non hanno pazienza né pietà. Non c'è il tempo di porre un rimedio. È troppo tardi, la resa dei conti è finalmente giunta.
L'austriaco Marvin Kren, classe 1980, aveva già destato un certo interesse tra gli appassionati di cinema di genere un paio d'anni fa, con il convincente esordio intitolato Rammbock, un piccolo zombi movie claustrofobico e ricco di idee non disprezzabili. Per il suo secondo lungometraggio il regista cambia totalmente scenario, immergendo i suoi disgraziati protagonisti tra le fauci crudeli di un paesaggio naturale immenso e ingovernabile. Una varazione repentina, sulla carta, ma non così netta nella sostanza: anche nella maestosità di scenografie naturali i cui confini risultano impossibili da raggiungere per l'occhio umano, Kren riesce infatti a creare microcosmi disturbanti, raccogliendo in più occasioni i suoi attori entro limiti angusti (le grotte, il laboratorio), che ben contrastano l'ineffabile spazio circostante. 
Dipanando non senza confusione una sceneggiatura che spesso muta di tono faticando a mantenere le giuste coordinate, l'autore pone comunque in gioco, ancora una volta, soluzioni non banali, insinuando con buona tecnica significazioni narrative di stampo quasi lovecraftiano (l'ibridazione illimitata), per scatenare un orrore dalle fattezze non del tutto definite. Eco-vengeance, beast movie, creature feature: lo si può definire come si vuole, ma Blutgletscher (The Station) è un prodotto valido per la sua capacità di fondere una lunga tradizione di riferimento (da Mimic a The Mist, ma ci sarebbero mille altri titoli inerenti) commutandola con il peso collettivo di una colpa che travalica la dimensione aliena, per farsi universale e concreto discorso avente come punto focale la rovina della civilizzazione. Siamo tutti colpevoli, in fondo; non ci sono eroi, né speranze, né salvacondotti. Lo scatenamento della bestialità immonda è la logica conseguenza di una scriteriata caccia allo sfruttamento, e l'urlo represso della Madre Terra si può infine espandere dalle profondità del creato per annullare ogni possibilità di cura.
Squinternato, traballante, disequilibrato ma anche molto coraggioso, The Station si nutre dei suoi stessi difetti, scivolando in soluzioni davvero troppo azzardate (la “mutazione finale”) ma riuscendo a intrattenere con buone dosi di ironia, vampate splatter di jacksoniana memoria e momenti di sostenuta e dolente malinconia, per ricordarci che al di là delle facili risate il pericolo esiste davvero, lassù sulle montagne e anche quaggiù, tutto intorno a noi.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Torino 31


Scheda tecnica

Titolo originale: Blutgletscher
Regia: Marvin Kren
Sceneggiatura: Benjamin Hessler
Fotografia: Moritz Schultheiss
Musiche: Stefan Will, Marco Dreckkötter
Attori: Gerhard Liebmann, Edita Malovcic, Hille Beseler, Peter Knaack, Brigitte Kren
Anno: 2013
Durata: 93'

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