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AMERICAN HONEY - We found love in a hopeless place

23/1/2017

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Foto
​ “She grew up on a side of the road
Where the church bells ring and strong love grows
She grew up good
She grew up slow
Like American honey.
”
​
American Honey, Lady Antebellum

Star, diciottenne dell'Oklahoma, fa parte di quel tessuto suburbano che vegeta ai margini della società americana. Sin dalla prima inquadratura, che la immortala nell'intento di rovistare nella spazzatura in cerca di cibo per due fratellini di cui si prende cura, colpisce il pubblico per la sua esuberante spontaneità e per il volto, di straordinaria bellezza, dell'attrice esordiente Sasha Lane. Star è insomma una stella che brilla di luce propria, una creatura ribelle che mal sopporta la condizione di miserabile con la quale è costretta a convivere. Ecco perché decide di abbandonare ogni cosa e di fuggire con una combriccola sgangherata di ragazzi che incontra nel parcheggio di un supermarket Walmart. 
Il gruppo, che si sposta attraverso gli Stati Uniti con un minibus per vendere riviste porta a porta, è alle dipendenze di Krystal (Riley Keough, nipote di Elvis Presley), che riscuote il denaro incassato giorno per giorno e che si occupa di trovare un luogo dove trascorrere la notte. Una prospettiva davvero poco allettante, ma che rappresenta per Star la speranza in un nuovo inizio, l'occasione per costruirsi un futuro meno squallido, che non si riduca ad accudire dei bambini mentre la loro madre prende lezioni di danza country e il padre, ubriaco, tenta di sedurla. E poi, tra i nuovi compagni d'avventura, furoreggia Jake (Shia LaBeouf), che la conquista subito, quando improvvisa all'interno del supermercato un balletto sulle note di We Found Love di Rihanna. 
Con un bagaglio pieno soltanto di sogni, affamata d'amore e di voglia di vivere, Star intraprende allora un viaggio on the road che la porterà alla scoperta di se stessa e della decadenza, nemmeno tanto ben nascosta sotto il tappeto, di un'America che, mai come in questa storia, appare inesorabilmente giunta al capolinea. 
​
Vincitore del Premio della Giuria allo scorso Festival di Cannes, il quarto film di Andrea Arnold, il primo girato negli USA, prende spunto da un’inchiesta del New York Times del 2007 che si occupava del fenomeno “mag crew” (ovvero il reclutamento, al limite della legalità, di adolescenti per la vendita di riviste porta a porta). In American Honey, dall'omonimo pezzo della band country Lady Antebellum, ritornano gli elementi presenti nei lavori della Arnold sin dai suoi cortometraggi d'esordio: addentrandoci nelle periferie degradate incappiamo nei disadattati che le abitano, rassegnati a un’esistenza che il luogo da dove provengono ha già stabilito, ma pure coloro che “non ci stanno”, che si ribellano a una condizione che li riduce a sub-umani e che annaspano alla ricerca di un sacrosanto riscatto. Come la giovanissima Star.
La regista inglese, camera in spalla, gira un road movie che punta su un forte coinvolgimento dello spettatore, il quale diventa parte integrante della strampalata comitiva in viaggio. È un racconto delicato quello della Arnold, anche nella narrazione delle vicende più squallide e violente. Non resta dunque che abbandonarsi alle emozioni e immergersi nei primi piani mozzafiato di Sasha Lane, merito dell'utilizzo del formato 4:3 e della bellissima fotografia di Robbie Ryan. 
Senza nulla togliere alla regia, un dovuto plauso va alla debuttante interprete di Star: un personaggio con una potentissima componente empatica, che sprizza carica vitale da ogni poro della pelle, che affascina e persino seduce il pubblico. Lo stesso dicasi per gli altri protagonisti di American Honey, quasi tutti attori non professionisti senza alcuna passata esperienza cinematografica. Com'era già accaduto per Katie Jarvis (Mia) in Fish Tank, la Lane è stata notata per caso dalla Arnold e quindi scritturata. Se Mia e Star si assomigliano per freschezza, spontaneità e sfrontatezza, diventa comunque inevitabile il confronto anche con le eroine che popolano i lavori di Céline Sciamma. Ma i paragoni non si fermano qui. Come infatti non riscontrare delle analogie tra i giovani, tossici e alcolizzati, venditori porta a porta di American Honey con i personaggi che si incontrano nelle opere di Larry Clark, Gregg Araki e Harmony Korine?
​
Al cast principale si aggiunge il campionario di rara bestialità umana che Star e compagni incrociano lungo il loro cammino: ricchi cowboys vecchi e arrapati, ragazzine poco più che decenni che si atteggiano a prostitute, mamme drogate, operai che non si fanno scrupoli a chiedere un rapporto sessuale a un'adolescente. E il paesaggio, elemento fondamentale del road movie, contribuisce a mostrare tutta la sporcizia che si cela dietro le casette a schiera, già di per sé desolanti, della middle class. Attraverso i finestrini del minibus scorrono immagini di silos, parcheggi con giganteschi tir, complessi industriali, impianti petroliferi, centri commerciali e fast food. 
Tra tanto degrado, soltanto Star conserva un rapporto privilegiato con la natura. Quando si stende con Jake su un prato oppure quando un orso le si avvicina o, ancora, quando il vento le soffia tra i capelli, l'ambiente che la circonda diventa improvvisamente magico. E riesce addirittura a concedersi un tocco di poesia nei momenti in cui la bassezza morale sfiora il limite del sopportabile. Splendida la scena che vede un terzetto di vecchi cowboys vestiti di bianco dalla testa ai piedi (cappello compreso) abbordare la ragazza per poi condurla in una villa lussuosa di proprietà di uno dei tre. Mentre le offrono birra e la incitano a ingurgitare del mescal, verme compreso, lei si preoccupa di un insetto che sta annegando in piscina e lo salva. 
Tuttavia, anche se Star ha le carte in regola per intravedere la luce in fondo al tunnel (o almeno lotterà per aggrapparsi a un'ancora di salvezza), il destino non appare certo roseo.  Esiste il rischio, infatti, di far ritorno al punto di partenza. Emblematico, sotto quest'ultimo aspetto, l'incontro con due bambini che vivono con la madre tossica: dapprima li aiuta portando loro la spesa, ma poi li abbandona a se stessi, spaventata dal circolo vizioso in cui stava cadendo. 
Quali sorprese riserverà il futuro a Star? Forse, nella migliore delle ipotesi, si accontenterà di trovare l'amore in a hopeless place, come canta Rihanna. Ma vada come vada, quel che emerge dal film della Arnold è che il famigerato American dream non abita più nella putrescente suburbia degli USA. 

Serena Casagrande

Sezioni di riferimento: America Oggi, Cannes 69


Scheda tecnica 

Titolo originale: American Honey
Anno: 2016
Regia: Andrea Arnold
Sceneggiatura: Andrea Arnold
Fotografia: Robbie Ryan
Montaggio: Joe Bini
Colonna sonora: AA. VV.
Durata: 163'
Attori: Sasha Lane, Shia LaBeouf, Riley Keough, McCaul Lombardi, Arielle Holmes

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SICARIO - Oltre il confine

3/2/2016

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Durante un'operazione l'agente dell'FBI Kate Macer (Emily Blunt) scova oltre trenta cadaveri putrefatti, nascosti tra le pareti di una casa di proprietà di Manuel Diaz, affiliato al cartello messicano di Sonora. In seguito all'atroce scoperta, Kate viene reclutata dalla CIA per partecipare a una missione interdipartimentale top secret, che ha per l'appunto lo scopo di smantellare il traffico di droga che si svolge al confine tra Stati Uniti e Messico. Fanno parte della squadra anche Matt Graver (Josh Brolin), che dirige la task force, e Alejandro (Benicio Del Toro), due personaggi di cui si sa poco o nulla, che sin da subito daranno filo da torcere all'agente Macer. 
Kate, idealista e non ancora contaminata dalle logiche di potere, rifiuta infatti la visione priva di scrupoli dei suoi superiori, per i quali conta soltanto il successo della missione, a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo (poco importa se legale o meno). Troppo tardi l'agente capirà di essere caduta in un'insidiosa trappola. Pedina impotente di un gioco ben congegnato, Kate Macer prenderà allora coscienza di un'amara verità: non esiste una netta linea di demarcazione tra giusto e sbagliato se i buoni possono diventare molto cattivi. Non occorre quindi varcare il confine messicano per stanare i delinquenti, perché spesso il male è al di qua della frontiera. 
​
Settimo lungometraggio del regista canadese Denis Villeneuve, thriller cupo e freddo, Sicario è un un atto di d'accusa nei confronti dei metodi sconsiderati, e spesso illegali, adottati dal governo degli Stati Uniti d'America per preservare la famigerata sicurezza nazionale. Come già accadeva in Prisoners (2013), suo primo lungometraggio americano, Villeneuve fotografa una nazione allo sbando, in preda al caos e alla paranoia collettiva, che agisce senza valutare gli effetti “collaterali” dei propri interventi, salvo poi dover correre ai ripari per limitare i danni. E, pure in questo caso, le procedure (il protocollo di cui si riempiono la bocca i portavoce ufficiali) non vengono mai rispettate. In realtà non esistono né regole né leggi da osservare e anche la tortura può tornare utile.
​Ecco dunque che, al cospetto di una Kate che si preoccupa di muoversi sempre nell'ambito della legalità, il suo capo (Victor Garber) le spiega come funzionano davvero le cose: “Kate, guarda, non è una cosa che mi sono inventato io... Io non ho l'autorità per ingaggiare consulenti o per autorizzare missioni congiunte o per far partire agenti dalle basi aeree. Capisci cosa dico? Queste decisioni vengono prese lontano da qui, da funzionari che sono lì perché eletti non nominati. E se tu hai timore di operare oltre i limiti... Te lo posso garantire: non è così. I limiti li hanno spostati. Siamo intesi?”.
Villeneuve dipinge un quadro impietoso di un Paese che si sente in diritto di agire come meglio crede per perseguire i propri interessi. Se in Prisoners il cineasta canadese concedeva allo spettatore un barlume di lieto fine, in Sicario non lascia spazio a false speranze. Perché coloro che vogliono salvare il mondo dal (loro personale concetto di) male sono i primi a incarnare il lato oscuro dell'umanità. 

La prova, di alto livello, di un Villeneuve sempre convincente supera gli ostacoli causati da una sceneggiatura a volte confusionaria. Alla riuscita di Sicario, in concorso a Cannes nel 2015, contribuiscono inoltre la pregevole fotografia di Roger Deakins, una più che positiva interpretazione di Emily Blunt (oltre che del resto del cast) e la notevole colonna sonora, che è valsa all'islandese Jóhann Jóhannsson la nomination agli Oscar 2016.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: America Oggi


Scheda tecnica

Titolo originale: Sicario
Anno: 2015
Regia: Denis Villeneuve
Sceneggiatura: Taylor Sheridan
Montaggio: Joe Walker
Fotografia: Roger Deakins
Musica: Jóhann Jóhannsson
Durata: 121'
Interpreti principali: Emily Blunt, Benicio Del Toro, Josh Brolin, Victor Garber, Jon Bernthal, Jeffrey Donovan

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LOVE & MERCY - Brian Wilson in due atti

14/12/2015

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​“I keep looking for a place to fit
Where I can speak my mind
I’ve been trying hard to find the people
That I won’t leave behind”
(I just wasn’t made for these times – The Beach Boys)

Come affrontare la straordinaria vita privata ed artistica di un personaggio così importante come Brian Wilson, mente – stralunata, sognante e, perché no, perduta nelle nebbie lisergiche degli anni 60’ – dei Beach Boys, forse il più importante gruppo musicale statunitense del dopoguerra?
​Il “biopic” cinematografico, certamente, è la risposta più adeguata, grazie alle sfaccettature che immagini, testo e musica sanno offrire al pubblico, e Love & Mercy, film di un eccellente Bill Pohlad, riesce nella gigantesca impresa di raccontare le vicissitudini personali del musicista californiano prima e dopo Pet Sounds (1966): l’uso e l’abuso di droghe, le voci e i suoni che Wilson “sentiva” nella sua mente, ma anche il dopo, la depressione degli anni 70’ e la prigionia degli anni '80, di cui lo psicologo Eugene Landy fu responsabile.

Love & Mercy tradisce in senso positivo la grandezza anche commerciale che la band californiana ebbe durante la carriera e non si presenta sotto le mentite spoglie del blockbuster; piuttosto, e per fortuna, è un’opera minimale e calibrata sulle schizofrenie e sull’immenso talento che Brian Wilson ha avuto durante tutta la propria vita, un dono che gli ha permesso di sentire suoni e voci che non potevano essere e che non potevano appartenere al suo mondo; una sorta di materializzazione di “oggetti” rubati a un ipotetico aldilà.
Bill Pohlad costruisce il proprio film attorno alle fantastiche prove attoriali di Paul Dano, che conferma tutto il suo talento, e del sempre affidabile John Cusack, il quale sembra mantenere quell’aura sinistra acquisita in Maps to the Stars (David Cronenberg, 2014). Il primo, ingrassato per il ruolo, interpreta il giovane Wilson, che dopo le sbornie del surf rock vuole intraprendere un percorso diverso, personale e raffinato, soprattutto dopo aver ascoltato Rubber Soul dei Beatles, fruizione spartiacque della sua carriera; il secondo impersona il “sopravvissuto” cantante e musicista, salvato dalle dipendenze di droga e alcool ma idealmente relegato all’interno di una prigione dal proprio salvatore/aguzzino Eugene Landy, dottore che ha de facto utilizzato il paziente Brian Wilson per acquisire ricchezza e notorietà al di fuori delle regole e delle leggi.
Per fortuna la salvezza arriva, ed è incarnata nelle fattezze di Melinda Ledbetter, donna bella, forte e intelligente: invaghita di Wilson, comprende come la terapia 24 ore su 24 ideata da Landy sia solo una prigione, da cui è necessario far fuggire l’indifeso paziente. Pohland non usa mezzi termini e mostra le violenze fisiche e psicologiche adottate quotidianamente dallo psicologo, terapie estreme di cui pochissimi erano a conoscenza poiché Wilson, negli anni 80’, viveva ormai isolato e nessuno – ex-moglie, figlie e fratelli – si occupava più di lui da tempo. La solitudine, infatti, è uno dei caratteri precipui di tutto Love & Mercy e della vita di Wilson, una condizione scaturita dall’incomprensione che spesso caratterizzava i rapporti sociali del genio californiano.
La divisione – dualità, specchi che si affacciano l’uno sull’altro – che il regista americano impone alla sua opera è una pregevole scelta che dona freschezza al genere biografico, tralasciando il consueto e ortodosso rispetto del testo, qui inteso come pura linea di eventi e di fatti, per offrire una sfera di emozioni unica. Il personaggio Brian Wislon, il Dano/Cusack, viene calato in scene toccanti e profonde in cui piange per eventi futuri o veglia se stesso in ere differenti della sua vita.
Lo specchio e la sua dualità sono quindi le chiavi di lettura per questo splendido Love & Mercy, in cui tutte le superfici, le vite e gli eventi si toccano e si sfiorano per offrire il ritratto di un uomo, della sua arte e del suo immenso e tragico dono.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: America Oggi, Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Love & Mercy
Anno: 2014
Regia: Bill Pohlad
Sceneggiatura: Oren Moverman, Michael A. Lerner
Musica: Atticus Ross
Fotografia: Robert D. Yeoman
Durata: 121’
Attori principali: Paul Dano, John Cusack, Elizabeth Banks, Paul Giamatti
Uscita italiana: 31 marzo 2016

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MISTRESS AMERICA - Deconstructing Greta Gerwig

24/9/2015

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Poco tempo fa abbiamo avuto il piacere di ospitare su queste pagine il bel While we’re young. A circa due mesi di distanza sentiamo la premura di tornare sul cinema di Noah Baumbach per parlare della sua nuova opera filmica, intitolata Mistress America, una commedia sofisticata di stampo moderno ma degna della più celebre tradizione screwball. Il regista originario di Brooklyn ha ottenuto molta risonanza con Frances Ha, di cui Mistress America è idealmente il seguito, non solo per la presenza della magnifica Greta Gerwig, ma anche e soprattutto per un intelligibile interesse nei riguardi di personaggi femminili particolarissimi che sanno veicolare sclerotizzazioni ed eterodossie di una città intera: New York.
Baumbach, come Woody Allen e Martin Scorsese, all’interno dei confini newyorkesi sa esprimere al meglio se stesso e lo spirito di una comunità, dando vita a un cinema lontano dagli aspetti più tecnici di Scorsese ma molto vicino a quello verbale di Allen – a lui e al suo Harry a pezzi (Deconstructing Harry, 1997) è infatti dedicato il titolo della presente recensione. Il tutto mantenendo un’originalità e una modernità invidiabili.

Mistress America narra l’avvicinamento da parte di Tracy alla Grande Mela, una metropoli che seduce e tradisce allo stesso tempo. La protagonista è infatti delusa dalla sua breve esperienza in città: l’università si rivela noiosa, la vita mondana è priva del glamour e del divertimento sperato e, infine, la sfera amorosa e sentimentale non offre altro che disappunto. Rifiutata anche dal club letterario di cui tanto ha desiderato far parte, Tracy (Lola Kirke) decide di mettersi in contatto con la futura sorellastra, Brooke (Greta Gerwig), figlia di un tedioso geologo prossimo a sposare sua madre. Questo incontro rappresenta una nuova opportunità per Tracy, che finalmente è presa per mano e trascinata all’interno della New York che ha sempre desiderato.
Scena centrale per l’economia del film di Baumbach è il momento in cui, nella piazza/palcoscenico di Time Square, Tracy e Brooke si incontrano per la prima volta: Brooke – sguaiata e appariscente come saprà mostrarsi nel prosieguo del film – entra da una lunga scalinata, come se incarnasse una famosa soubrette, ma questa discesa, ripresa con una azzeccatissima fissità della macchina da presa, appare esageratamente lunga e goffa. Questa piccola ma preziosissima sequenza ha il valore di un establishing shot in cui tutto viene ricontestualizzato mostrando legami tra personaggi e luoghi.
Proprio da questa porzione filmica i ruoli si chiarificano e la commedia brillante e sofistica di Baumbach prende il volo, definendo dinamiche e relazioni che indicano quanto Tracy, protagonista, scrittrice e voce narrante necessiti di un’amica come Brooke che, suo malgrado, diventerà personaggio centrale per un racconto in via di stesura. Non più amiche – o non solo amiche – quindi, ma autore e creazione in una subordinazione che nulla ha a che vedere con il possesso, ma piuttosto con la necessità di spiegare una città intera.

Brooke – nata durante le innumerevoli chiacchierate tra la Gerwig e Baumbach – incarna in maniera piuttosto appariscente le frenesie e le voglie di tutta una città in cui i rapporti umani sono lontani dalla sincerità e dove tutti appaiono come attori di una grande pièce; è un istruttore di fitness in procinto d’aprire un ristorante, è una designer d’interni che ha idee per un fumetto dal titolo Mistress America, è interessata a tutto e tutti, ma nessuno sembra conoscerla per davvero.
Tracy, da aspirante scrittrice quale è, comprende che questo egocentrico personaggio non è credibile per come si presenta e inizia quindi a scrivere un racconto su – e attorno – a lei: Mistress America, ancora una volta. Tracy scrive quindi di ciò che sa e conosce direttamente, prende spunto dal reale per generare una finzione in grado di smascherare un’altra finzione. E di questo gioco si assume ogni responsabilità fino alla fine, come ogni autore dovrebbe fare.
L’ultima opera di Baumbach è in bilico tra presentazione e rappresentazione di sé, del proprio cinema e di questo brillantissimo metatesto che lo rappresenta. È un oggetto che appena accosta le complicazioni del meta-dramma si scosta immediatamente per offrire una commedia sofisticata e intellettuale che, anche grazie a una colonna sonora “eighties” di pregevole fattura – affidata alla coppia Dean Wareham e Britta Philips, entrambi ex Luna –, si fa eterea.
Per ora privo di una data di uscita fissata per il suolo italiano, Mistress America è la continuazione di un discorso che Noah Baumbach porta avanti con coerenza. Un film da non perdere.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: America Oggi


Scheda tecnica

Titolo originale: Mistress America
Anno: 2015
Regia: Noah Baumbach
Sceneggiatura: Noah Baumbach, Greta Gerwig
Musica: Dean Wareham, Britta Philips
Fotografia: Sam Levy
Durata: 84’
Attori principali: Greta Gerwig, Lola Kirke, Michael Chernus

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BEFORE WE GO - Strangers in the Night

31/8/2015

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Due sconosciuti, l’incontro di una notte, New York. Sono questi gli ingredienti, non originali ma ottimamente mischiati, di Before We Go, opera prima in veste di regista di Chris Evans. L’attore che ha trovato il successo di pubblico grazie a Captain America e The Avengers sembra avere deciso di coltivare anche il gusto del cinema indipendente, o comunque alternativo a quello mainstream; ne abbiamo avuto prova con Puncture (2011), ma a suo modo anche con Snowpiercer (2013).
In Before We Go, girato nel 2013 – in soli diciannove giorni – e che solo adesso trova spazio nelle sale statunitensi, Chris Evans smette l’armatura del supereroe per diventare regista e interprete di una storia piccola e delicata in cui sono i dialoghi e l’atmosfera a creare la magia; un inaspettato effetto speciale per lo spettatore.

Apertura. È quasi notte. Due i personaggi: Brooke (Alice Eve) e Nick (Chris Evans). Lei è ferma a Grand Central Terminal, le hanno rubato il portafogli, ha perso il treno per Boston e deve assolutamente farvi rientro prima dell’alba. Lui sta suonando la tromba proprio a pochi passi da lei, una manciata di spiccioli e una grande passione per la musica jazz. Non c’è quasi altro che dobbiamo sapere sui protagonisti. Le loro strade si incrociano e legano, accidentalmente o forse perché così voleva il destino. Brooke e Nick trascorreranno la notte più intensa della loro vita, camminando per New York in cerca di una maniera per far tornare Brooke a casa.
La sceneggiatura di Ronald Bass (Oscar per Rain Man) si snoda sulla base di un plot che ha un ovvio ed evidente punto di riferimento. È inevitabile, infatti, il ricordo di Prima dell’alba (Before Sunrise) di Richard Linklater, e con un titolo come Before We Go, l’allusione non è nemmeno velata.
Tuttavia, le molteplici e dinamiche svolte narrative fanno del film di Evans un’opera a suo modo originale e sicuramente meritevole. Nell'odissea dentro la notte newyorchese, una notte di anime disperate di trovare un approdo, ogni scena è una fermata, un porto, una sosta significativa perché i personaggi possano imparare a conoscersi, prendere consapevolezza di sé, capire quale strada sia quella da percorrere per ritrovare finalmente non solo la propria casa, ma anche il senso della propria vita.
Before We Go è infatti come un breve, dolce viaggio nei sentimenti e nella scoperta di sé. Brooke vive una relazione complicata che sembra dover esplodere da un momento all’altro, e forse in questa sua impossibilità di fare ritorno all’ovile c’è qualcosa di metaforico, quasi che le difficoltà, le paure, la rabbia, abbiano bloccato la giovane in una gabbia mentale e emotiva che ora è diventata anche una prigione materiale. Da parte sua Nick deve superare la paura del fallimento (o del successo?); è un jazzista che teme il rifiuto, anche se non è questo ciò che conta davvero nel suo personaggio. Nick è un po’ un traghettatore di anime dalla notte alla luce del sole, e ancora una volta Chris Evans finisce con il diventare l’eroe silenzioso del racconto, se eroi sono le persone buone, gentili e cortesi, prodighe di attenzioni e di cura verso l’altro, anime poetiche che regalano la musica migliore a chi sa ascoltare.
New York, terzo personaggio della storia e cornice unica per ogni esperienza cinematografica, offre i suoi scorci migliori e i suoi colori, mostrandosi oscura e deserta di notte, magari romantica tra i riflessi della luna e improbabili serenate, e poi ancora calda tra le vetrate degli interni e le luci artificiali. Fino a che sbiadisce, si rasserena e poi quasi albeggia sul finale. È una New York che si addormenta lentamente e, sulle note di una malinconica melodia jazz, si desta. Complimenti a Chris Evans regista per aver saputo cogliere certe sfumature della metropoli, quelle più soffici e pacifiche, e anche per averle sapute tradurre in emozione sul viso, sulle parole e sulle azioni degli interpreti.
Before We Go è una bella storia romantica da vedere e da leggere, un po’ come un romanzo. È la notte bianca di Dostoevskij che porta due sconosciuti a incrociarsi, tenersi per mano, stringersi e magari anche innamorarsi, prima che il destino si compia. Sullo sfondo, l’immagine-tempo (per usare, forse impropriamente, Deleuze) è scandita come si potrebbe scorgere su una meridiana. Consuma gli sguardi, spegne le ombre, accende le luci.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: America Oggi


Scheda tecnica

Regia: Chris Evans
Interpreti: Chris Evans, Alice Eve
Sceneggiatura: Ronald Bass
Musica: Chris Westlake
Anno: 2013
Durata: 97'
Uscita: 4 settembre 2015 (USA)

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EDMOND - Tutto in una notte

3/8/2015

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Edmond Burke (William H. Macy) è un anonimo impiegato che si destreggia tra un'occupazione mediocre e un rapporto di coppia deprimente e stantio. Una sera, uscito dall'ufficio, entra in un negozio dove una veggente gli legge i tarocchi. Le carte scoperte non gli sono propizie e l'indovina lo congeda con una sentenza inappellabile: “Lei vive una vita che non le appartiene”. 
Colpito dall'affermazione della maga, Edmond torna a casa e lascia la moglie (Rebecca Pidgeon). Dopodiché parte all'avventura, intenzionato a riprendere in mano le redini della propria esistenza e a ricominciare tutto daccapo. Ma la notte metropolitana lo inghiotte all'improvviso e la sua personale ricerca di riscatto si trasforma in un incubo. 
Anche se Edmond ancora non lo sa, ha comprato un biglietto di sola andata per l'inferno. Il bestiario umano che incontra, i luoghi malfamati che frequenta e le situazioni grottesche in cui viene coinvolto servono soltanto a sviscerare gli aspetti più biechi dell'indole di un individuo da poco. Le paure che si celano dietro la facciata di un “colletto bianco qualunque” affiorano in superficie rivelando un essere meschino, attratto da ciò che gli crea repulsione e che sa disprezzare e odiare. Così la lotta per la libertà e la fuga dalla quotidianità finiscono per mostrare un nuovo Edmond, se possibile ancor più insignificante di quello “vecchio”. Un omino di nessun conto, capace però di atti feroci e spregevoli. 

La collaborazione tra David Mamet e Stuart Gordon, autori che non hanno bisogno di presentazioni, dà vita a un'opera godibile, bizzarra e fastidiosa allo stesso tempo. In Edmond è infatti quasi impossibile non nutrire una certa avversione nei confronti del protagonista. Inizialmente si prova ammirazione per la scelta coraggiosa di lasciare lavoro e moglie, ma nel corso del film le cose prendono una piega ben diversa. La ribellione di Edmond sortisce un effetto opposto rispetto a quel che ci si poteva aspettare poiché emergono lati inediti e ripugnanti della sua personalità, troppo a lungo tenuti nascosti. La rivolta dunque non conduce sempre verso la libertà. Inutile “disobbedire” alle regole imposte dalla società se poi si rimane imprigionati da preconcetti e paure. Edmond non sarà mai davvero libero perché è un individuo frustrato e represso. 
Piaghe profonde del mondo contemporaneo, frustrazione e repressione non possono che generare mostri. E sebbene Gordon e Mamet non cadano nella trappola del facile moralismo, lo strepitoso finale ha il sapore di una beffarda, ma quanto mai sacrosanta, legge del contrappasso.
Adattamento cinematografico dell'omonima pièce di Mamet del 1982, Edmond è un film vorticoso, che si svolge in una sola lunga notte. Caratteristica questa che lo accomuna a due capolavori come I Guerrieri della notte di Walter Hill e Fuori Orario di Martin Scorsese, con i quali condivide inoltre un'ambientazione tipicamente metropolitana. Grazie ai dialoghi brillanti e a una regia pulita, il pubblico segue con trasporto le vicende dello sprovveduto impiegato, interpretato da un William H. Macy che incarna alla perfezione lo stereotipo del fallito. Lo affianca un cast di tutto rispetto che va da Joe Mantegna a Julia Stiles, da Denise Richards a Rebecca Pidgeon (moglie di Mamet), senza dimenticare il cameo di Jeffrey Combs, l'attore feticcio di Stuart Gordon e dell'amico Brian Yuzna, protagonista, tra gli altri, di ottimi horror come From Beyond e dell'indimenticabile saga di Re-Animator.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: America Oggi


Scheda tecnica

Titolo originale: Edmond
Anno: 2005
Regia: Stuart Gordon
Sceneggiatura: David Mamet
Fotografia:  Denis Maloney
Durata: 82'
Interpreti principali:, William H. Macy, Julia Stiles, Denise Richards, Joe Mantegna, Rebecca Pidgeon, Mira Suvari

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COSMOPOLIS - Asimmetrie del reale

18/7/2015

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Uscito nelle sale nel 2012, Cosmopolis si colloca pienamente, sia a livello temporale sia tematico, nel contesto di quelle (rare) opere contemporanee che tentano di far luce sulle dinamiche aberranti della finanza mondiale, anche e soprattutto in quanto cause della crisi sistemica in atto. Eppure molti conti non tornano; o meglio, tornano in modo tangente, obliquo, periferico.

Girato prevalentemente a Toronto – elemento tutt’altro che casuale, giacché si tratta di una palese presa di distanza dall’epicentro ambientale reale in cui la crisi del 2008 ha iniziato a svilupparsi – Cosmopolis non vuole essere né cronaca né storia, tanto più che il romanzo di Don DeLillo, da cui il film è tratto, viene pubblicato nel 2003 e risulta ambientato nel 2000, quindi molto prima che la crisi stessa, almeno così come viene raccontata dai media, iniziasse. 
Lo spazio metropolitano, lungi dal risultare mera ricostruzione documentaria della Grande Mela, diviene, nel film, spazio qualsiasi, privo di qualunque connotato o riferimento riconoscibile. La vicenda narrata assume, almeno in superficie, le strutture e le dinamiche di una folle allegoria del potere finanziario contemporaneo, al di là, lo si è detto, di qualsiasi individuazione spazio-temporale precisa. I diagrammi, gli schemi e i numeri, che si affacciano dagli schermi dei computer installati nella limousine di Eric (Robert Pattinson), sono l’unico effettivo contatto con l’evanescente mondo della finanza, oltre a molti dei deliranti dialoghi che punteggiano l’opera.
La limo appare come un’automobile-santuario che custodisce (e protegge, essendo blindata e insonorizzata) i feticci e i simulacri di un mondo astratto, freddo, opaco e distante – ancorché letale per l’uomo – insieme a uno dei loro sacerdoti. È all’interno di essa che si svolge gran parte della vicenda narrata. La crisi c’è, ma non si vede, e la sua essenza forse si colloca nella sua assenza. Al limite essa viene psicoticamente verbalizzata ed evocata dai personaggi che transitano attraverso l’immensa automobile di Eric (tra i quali spicca una sensualissima Juliette Binoche): una cattedrale, un confessionale o, per certi versi, lo studio di uno psicanalista. È attraverso questa verbalizzazione dell’assente che prende forma l’effettiva distanza esistenziale, oltre che fattuale, fra l’uomo e l’astratto, ottuso universo finanziario. Più che un film sulla crisi economica, Cosmopolis è, in realtà, un’opera sulla crisi d’identità e sulle aberrazioni psichiche che caratterizzano gli uomini di potere dell’epoca contemporanea.

L’ossessione di controllo che pervade Eric e i suoi collaboratori (esperti informatici e di matematica finanziaria, “filosofi monetari”, uomini del suo personale apparato di security) trova un ostacolo insormontabile nell’impenetrabilità e imprevedibilità del reale e degli eventi che vi accadono. Se la realtà concreta è permeata da tale imponderabilità, altrettanto, se non di più, lo è la realtà virtuale dei numeri e degli astrusi calcoli probabilistici, statistici e delle ermetiche equazioni che regolano i flussi dei mercati finanziari. Eric, i suoi sottoposti e il suo impero vedono sgretolarsi le proprie fondamenta per non aver saputo prevedere l’andamento sul mercato dello yuan cinese. Ogni possibilità di calcolo e di conseguente controllo del mondo si è inceppata di fronte alle variabili impazzite di un universo solo apparentemente regolare e ordinato come quello matematico. L’Io di Eric e degli altri personaggi che gli ruotano attorno, così come le loro identità, vengono perciò a frantumarsi e a frammentarsi per non aver saputo reggere il peso dell’evanescenza dei loro saperi, delle loro concezioni del mondo e delle loro friabili certezze. Ecco perché l’intero film può essere letto come un’ipertrofica seduta psicanalitica dei vari personaggi presso il guru Eric, ma anche di quest’ultimo presso quell’attento e a tratti beffardo osservatore entomologico che è David Cronenberg.
Il viaggio di Eric nell’arco di una giornata, (1) attraverso la metropoli newyorchese, diviene quindi un percorso regressivo che tocca tutti i personaggi della corte di cui è sovrano indiscusso, impegnati a riscoprire la loro fase orale (li vediamo sovente impegnati a suggere cannucce, sgranocchiare noccioline, trangugiare bevande) e il linguaggio, che nel loro caso è, come nell’infanzia, carico di significati mitici e ludici. I monitor dei computer, con i loro arabeschi digitali, costituiscono l’unico mondo di riferimento, costruito su un incorporeo controllo a distanza che identifica denaro, potere, frenetica e meccanica ambizione: uno smisurato campo da gioco, evocato attraverso un vero e proprio gergo semi-esoterico per iniziati, esattamente come accade in quelle gang giovanili dove si gioca, appunto, a fare gli adulti.

1) Il racconto rispetta l’unità spazio-temporale aristotelica della tragedia e, oltre a ciò, esprime i caratteri di una narrazione (anti)epica in cui il viaggio, anziché essere radicalmente formativo e portatore di conoscenza ed esperienza di sé, non è altro che l’espressione della dissoluzione del soggetto protagonista.

Ancora più complesso risulta il percorso di (ri)scoperta e ridefinizione del sé da parte di Eric. Tale personaggio, individuato somaticamente dai tratti anodini di Robert Pattinson, appare fin da subito come un essere alieno in un ambiente similmente alieno (grattacieli e palazzi anonimi accanto alle altrettanto anonime limousine in fila e tutte uguali) e disumanizzato, perciò perfettamente organico ad esso. L’ostinato viaggio verso il salone di barbiere della sua infanzia, dall’altra parte della città – il pretesto narrativo che consente lo sviluppo dell’intreccio – non è altro che l’indizio più immediato, fra i molti che punteggiano il film, della vera e propria patologia che interessa il protagonista: il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, che si esplica come la ripetizione rituale, maniacale e meccanica di azioni che hanno lo scopo sia di esprimere il proprio controllo sul mondo, per ristabilirne un ordine che si paventa come perennemente compromesso, sia in definitiva di esorcizzare l’imprevedibilità e l’ostilità del reale.
Cosmopolis, per molti versi, può essere a tal proposito definito come un torbido trip dal razionale all’irrazionale o dalla com-pulsione alla (riscoperta della) pulsione, attraverso una serie di tappe che gradualmente portano il protagonista a liberarsi delle proprie ossessioni per riabbracciare, almeno fin dove gli riesce, la dimensione originaria e libera del caos, l’esperienza della propria corporeità attraverso il piacere, il dolore e, magari, la morte. L’obiettivo ultimo, probabilmente inconsapevole, di Eric è quello di fronteggiare l’irrazionalità del reale attraverso una altrettanto prepotente riaffermazione folle del Sé o, meglio, del proprio Es.

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Due vie parallele possono essere determinate, nel corso del film, per individuare questo percorso di mutazione psicofisica. La prima può essere identificata come il passaggio dai segni dell’ordine ai segni del disordine. Tutta la vita di Eric è scandita, fino allo svolgersi degli eventi narrati nel film, dal controllo maniacale di ogni fase e aspetto, sia pubblico che privato, della sua giornata. Il suo stile è impeccabilmente elegante, asettico, così come il suo viso e il suo taglio di capelli, e non a caso il racconto inizia in medias res, proprio mentre egli sta per recarsi dal suo barbiere di sempre, perché a Eric non piace cambiare le proprie abitudini, costi quel che costi. La ripetitività ossessiva delle sue azioni risulta confermata e acuita allorché lo si ritrova sottoposto al suo check-up giornaliero completo, per monitorare lo stato della sua salute.
In ogni suo spostamento il protagonista è seguito da un complesso apparato di security, che egli, controllato da esso, a sua volta controlla (fino all’indistinguibilità del controllore e del controllato). Eric pare inoltre minacciato da un oscuro individuo che vuole la sua morte: ecco anche perché le maglie delle difese approntate dalle guardie del corpo risultano estremamente spesse. La gran parte della sua frenetica esistenza è, comunque, soprattutto dedicata all’ispezione certosina dell’andamento del suo dominio finanziario tramite i propri apparati informatici.

L’elemento di rottura dell’equilibrio, che probabilmente innesca la mutazione di Eric, è la caduta vertiginosa del suo impero. Ecco allora cominciare la proliferazione dei segni del disordine. Dapprima egli comincia a smarrire alcuni oggetti-chiave del suo look: occhiali da sole, giacca, cravatta; poi è la volta della sua limousine, che viene a più riprese lordata dai manifestanti che riempiono le strade; successivamente è il suo faccino indolente e viziato a subire l’oltraggio di una torta in faccia da parte di un manifestante particolarmente fantasioso; infine è egli stesso a contribuire al prevalere del caos, quando uccide il capo della sua sicurezza (Mathieu Amalric) e poi quando, una volta dal barbiere, interrompe la seduta, uscendo col taglio incompleto. Da questo punto in poi, Eric manifesta apertamente quella che Freud indicherebbe come pulsione di morte. Tale atteggiamento da cupio dissolvi crea però un cortocircuito nella definizione del personaggio, che appare, paradossalmente e per la prima volta, libero e vivo, anche se pur sempre in una deriva mentale ormai irreversibile.
L’altra via per comprendere la mutazione psicofisica di Eric è, invece, di matrice più strettamente psicanalitica. La vita ossessivamente programmata e ordinata del protagonista mostra degli indizi di squilibrio là dove cominciano ad affacciarsi dei segni di regressione psichica e di predominio della pulsione. L’intrecciarsi e il sovrapporsi confuso delle tre fasi formative originarie dell’Io nell’infanzia (orale, anale, fallica) conducono Eric a liberarsi progressivamente dei propri legami istituzionali da adulto, per proiettarlo verso un’orgia di sensazioni progressivamente più estreme, che sembrano risvegliarlo dal suo meccanico torpore portandolo, però, a una dimensione di totale e allucinato spaesamento. Anch’egli, come gli altri personaggi, trae diletto dall’oralità (sugge, beve, sgranocchia e ha sempre fame) e soprattutto risulta erotizzato dal proprio logos, dal piacere di agitare la lingua per modulare suoni armoniosi, estremamente selezionati e dal significato suggestivo; appare inebriato dal gusto di parlare e di ascoltarsi, in una dimensione in cui la parola non ha ancora raggiunto la maturità del dia-logos, ma appare ancora fortemente ancorata alle sue possibilità evocative e ipnotiche.
L’esame prostatico, durante il suo check-up giornaliero, rivela invece, da parte di Eric, l’espressione di una libido legata anche all’analità, oltre a fargli scoprire l’asimmetricità della sua prostata (elemento decisivo che riassume in sé molti dei significati del film). Infine, gli svariati rapporti sessuali avuti nel corso della giornata, con donne di varie forme ed età, evidenziano una sua propensione fallocentrica, nella quale non c’è posto per un’autentica reciprocità fra persone vive, ma in cui, invece, egli si percepisce come soggetto assoluto, esattamente come accade nella corrispondente fase psicosessuale freudiana.

L’ultimo tassello per completare il complesso quadro si situa nella ricerca, da parte di Eric, dell’uomo che lo minaccia, che altri non è se non un suo ex sottoposto, ormai licenziato e ai margini della società, che si fa chiamare Benno Levin (uno straordinario Paul Giamatti). Forse, inconsciamente, Eric è da quest’ultimo che, fin dall’inizio, sente l’urgenza di andare. Una volta abbandonato il salone del barbiere, egli vaga per il vecchio e solitario quartiere fino a quando non vengono esplosi dei colpi di pistola nella sua direzione: è Benno, ed Eric intuisce che è giunto il momento di confrontarsi con lui. Sale così fino al fatiscente appartamento di quest’ultimo, per incontrarlo e, magari, per cominciare a capire.
Ciò a cui si assiste nella sequenza finale, vale a dire il “duello” fra Eric e Benno, è una grottesca rappresentazione della “fase dello specchio” psicanalitica. (2) Eric si trova di fronte a un’immagine fortemente deformata di sé: Benno, invecchiato, brutto, sporco, incattivito, ma soprattutto vivo. Anch’egli ha, come Eric, la prostata asimmetrica e anch’egli, per molto tempo, ha creduto nei numeri, nella loro assolutezza e regolarità. Ora, però, ha smesso di credere e si è rassegnato all’asimmetria del reale, alla sua irregolarità, come a un destino ineluttabile. Forse vorrebbe solo che qualcuno lo ascoltasse per capire. 

2) Secondo Freud e Lacan, il momento originario dell’infanzia in cui il piccolo d’uomo inizia ad assumere coscienza della propria soggettività e della propria identità si situa, appunto, nella “fase dello specchio”, cioè quando il bambino si trova di fronte a una superficie riflettente, insieme a un adulto, e riconosce, nell’immagine riflessa, se stesso.

È come se Benno, novello ritratto di Dorian Gray, avesse per molto tempo accumulato tutto lo squallore, la turpitudine, la bruttezza e l’abiezione del suo capo per preservarlo e mantenerlo integro e perfetto, caricandosi anche del fardello della vita di Eric e del peso della sua coscienza. Ed è come se, fino ad allora, Eric non avesse realmente vissuto, delegando inconsciamente a Benno di subire gli oltraggi del tempo e di un’esistenza dissipata, frenetica e folle.
Ora, forse, Eric si trova in quella stanza cadente per recuperare, tutto in una volta, il tempo perduto; ma si sa, il tempo è una pistola puntata alla testa…

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: America Oggi


Scheda tecnica

Anno: 2012
Durata: 105’
Soggetto: Don DeLillo
Regia e sceneggiatura: David Cronenberg
Fotografia: Peter Suschitzky
Montaggio: Ronald Sanders
Interpreti principali: Robert Pattinson, Juliette Binoche, Sarah Gadon, Mathieu Amalric, Kevin Durand, Paul Giamatti

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THE SKELETON TWINS - Uniti per sempre

8/6/2015

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All’apparenza, The Skeleton Twins (uscito in Italia direttamente in Dvd con il titolo Uniti per sempre), di Craig Johnson, si propone come un prodotto targato «Saturday Night Live», grazie alla presenza di Bill Hader e Kristen Wiig, le due star del programma. In realtà, il film annulla qualsiasi pregiudizio per proporsi da subito come una piccola, dolce commedia drammatica su una coppia di gemelli a un punto di svolta (o di crisi) della propria vita. 
I protagonisti della storia, Milo (Bill Hader) e Maggie (Kristen Wiig), sono caratteri diversi, ai lati opposti della realizzazione e maturità esistenziale. Milo, aspirante suicida, attore senza sbocchi, è imprigionato in una relazione segreta e infelice con un uomo sposato. Maggie ha un lavoro stabile ed è sposata con Lance (Luke Wilson), che tradisce con l’insegnante di nuoto. Milo e Maggie non si vedono da anni, eppure sono (sempre stati) intimamente connessi. Un evento traumatico finirà con il farli ritrovare e confrontare non solo sulle rispettive vite, ma sull’importanza di avere qualcuno cui appoggiarsi, per salvarsi reciprocamente.

The Skeleton Twins racconta una storia un po’ scontata, forse, ma tutt’altro che banale, esplorando con delicatezza come e perché le reti familiari e affettive ci influenzano, determinano, cambiano, mentre noi ne subiamo gli effetti. Come in ogni dramma familiare che si rispetti, non mancano i flashback: raccontati e mostrati, i frammenti del passato di Milo e Maggie emergono attraverso forti monologhi e delicate immagini della sofferenza e dell’amore salvifico che da sempre, per sempre, lega i fratelli uniti dalla condivisione di esperienze ed eventi. E proprio qui, in questa dinamica narrativa, intervengono efficaci scelte di sceneggiatura che aggirano la retorica dell’abbraccio o del lieto fine e, al contrario, mettono i personaggi di fronte alle proprie scelte, a una nuova consapevolezza, a una fine che è un ricongiungimento nel grembo emozionale.
Craig Johnson strizza l’occhio al mumblecore, affrontando tematiche simili ma in una luce molto personale. L'influenza produttiva dei fratelli Duplass si fa sentire, ma sempre nell’arco di quella libertà espressiva che caratterizza la corrente mumblecore e i loro autori/produttori. Johnson, qui alla sua seconda regia dopo True adolescents, chiama a sé il pubblico del Sundance Film Festival e può contare su un gruppo di star popolari comunque disposte a mettersi in gioco. La carta vincente, in effetti, perché lo spettatore possa ricordarsi di The Skeleton Twins, è il cast. Ecco, allora, che risulta non solo felice ma fondamentale la scelta di due attori così in sintonia, empatici, in grado di sospendere se stessi per far spazio all’altro in una interazione dialogica ed emotiva costante.
Bill Hader e Kristen Wiig, alle prese con personaggi brillanti ma dalle sfumature estremamente drammatiche, riescono a far trasparire un’alchimia naturale così forte da farci credere che tra i due esista davvero un rapporto di stretta parentela. Ma chi si aspetta la comicità dissacrante del «Saturday Night Live» rimarrà deluso: The Skeleton Twins è un piccolo film che affronta, con delicatezza, temi importanti sul filo della tragicità. È un'opera che si interroga sull’identità di genere e sull’identità più in generale, sul tipo di persona che siamo spinti a diventare quando genitori disfunzionali ci hanno fatto del male, o quando siamo stati traumatizzati dal non-amore, dalla precarietà, dalla solitudine. Quando siamo stati bambini soli, abbandonati, incapaci di chiedere aiuto, e ci siamo convinti di doverci far male per sentirci vivi. Le maschere che indossiamo ogni giorno nel quotidiano ci definiscono meno di quelle calzate durante la notte di Halloween, quando dagli abiti di una improbabile Marilyn / Drag Queen o di un cowboy possiamo dire al mondo la forma della nostra anima.
Non si tratta di un racconto di formazione, ma di uno spaccato dell’età adulta raggiunta, conquistata più per scommessa che non per volontà, dalla quale si osserva indietro riflettendoci nel nostro gemello. L’unico e più forte, indissolubile legame con chi siamo stati e chi abbiamo paura di essere. Milo e Maggie si scrutano e si scoprono, comprendendo se stessi e l’altro per il solo fatto di essere nati e vissuti insieme. La rappresentazione del nodo che stringe insieme i fratelli, la loro storia e il loro destino, è data da alcune scene esemplari: la notte di Halloween e il travestitismo rivelatore, le immersioni in piscina come a voler sprofondare negli abissi di sé, gli incontri clandestini della vergogna e quella danza sulle note di Nothing’s Gonna Stop Us Now, che è molto più di un momento musicale divertente.
Quando Maggie e Milo interpretano lo storico brano degli Starship non stanno solo facendo il verso a se stessi. Si stanno dichiarando. Stanno rivelando che la sola forma d’amore che ti tiene in piedi, che non ti abbandona, che ti sarà sempre vicino e non avrà paura di averti vicino, comunque tu decida di essere, è la famiglia. E la famiglia è una persona, ed è il tuo sangue. Chi non ti mente, la persona in cui puoi specchiarti senza mai essere respinto. La famiglia si stritola, ti esaurisce, ti sfibra. Ma, in fin dei conti, ti salva.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: America Oggi


Scheda tecnica

Titolo originale: The Skeleton Twins
Anno: 2014
Regia: Craig Johnson
Interpreti: Bill Hader, Kristen Wiig, Luke Wilson, Ty Burrell
Sceneggiatura: Mark Heyman, Craig Johnson
Durata: 93 min.
Musiche: Nathan Larson
Uscita italiana: 29 aprile 2015 (Home Video)

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THE ONE I LOVE - In cerca della felicità perduta

22/5/2015

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Ethan (Mark Duplass) e Sophie (Elisabeth Moss) sono sposati ormai da un po’ di tempo. Si vogliono bene, ma forse non ricordano più le ragioni del loro amore; così seguono una terapia coniugale. Intelligenti, abbastanza intellettuali ma senza spocchia, i due sono la tipica coppia americana della middle class, borghesia comune ma non chic sprofondata, senza ragione apparente, nell’apatia delle emozioni. Sembra quasi che il rapporto sia giunto alla fine, consumato senza fiamme. 
Il terapeuta suggerisce un ultimo tentativo: cosa c’è di meglio di qualche giorno in campagna per ritrovare se stessi, isolarsi dallo stress inesauribile della vita moderna, riprendere contatti con l’altro e cercare di offrirsi un’ultima occasione per stare davvero insieme? Ethan e Sophie acconsentono, ma il tranquillo week-end si tinge inaspettatamente di giallo quando strani eventi iniziano a verificarsi. Presenze? Gioco di specchi? Storture della vita? Del sogno? Incastrati in una dimensione per metà psicanalitica per metà onirica, Ethan e Sophie scopriranno che è tremendamente difficile uscire dalla gabbia nella quale si sono rinchiusi.
Una casa di bambola contemporanea fa da sfondo alla curiosa vicenda dei due protagonisti, alle prese con il proprio alter ego, con la manifestazione dei propri desideri, e coinvolti nella scoperta del proprio doppio, di un altro da sé che sembra - letteralmente - vivere una vita tutta sua. Perfino migliore.

È difficile parlare di quest'opera originalissima di Charlie McDowell senza rivelare dettagli significativi e rivelatori della trama. Basti dire che nulla è come sembra ma che le risposte sono sempre davanti agli occhi dei personaggi, appannati dai propri pregiudizi e dalle false verità, costruzioni mentali dalle quali bisogna liberarsi per sopravvivere.
The One I Love è un piccolo, adorabile giallo romantico tutto giocato attorno al dialogo e all’esplorazione interiore di due personaggi. L’impianto teatrale, l’ambiente chiuso e la suggestione onirica favoriscono le performance dei due attori (anche autori delle proprie battute) ma soprattutto forniscono spazio e tempo utili per una profonda, intima discussione sull’esistenza di coppia, sull’essere insieme e sull’amore dopo il matrimonio. Il film propone un ritratto originale (per descrizione) e realistico (per argomenti) dei piccoli grandi dubbi che attanagliano ogni coppia in crisi d’identità. Cosa siamo, seppure siamo qualcosa insieme? E come possiamo tornare ad amarci, a desiderarci, a provare rispetto per l’altro? Cosa eravamo una volta, e cosa siamo diventati ora?
Forse Ethan e Sophie sono solo un ritratto da camera, come abilmente insinua il poster promozionale americano. Forse sono anime verso la deriva. Forse sono verso la riva. Forse.

Queste tematiche, trattate entro 90 minuti di puro piacere cinematografico, già di per sé sarebbero sufficienti per promuovere The One I Love come uno dei migliori film indipendenti prodotti nel 2014. La felice intuizione produttiva di Mark Duplass ha permesso al giovane McDowell di realizzare un’opera libera, intrigante e curiosa, ricca di intenzioni e di partecipazione. Un momento di alta creatività.
Tuttavia, per apprezzare nella sua complessità un’opera come questa, è bene conoscere un poco il mumblecore, corrente ormai radicata nel cinema indipendente americano contemporaneo. Si tratta di un movimento che nasce e si sviluppa attorno al lavoro di alcuni registi e sceneggiatori (Andrew Bujalski, Lynn Shelton, i fratelli Mark e Jay Duplass, Joe Swanberg), che hanno dato vita a un’onda creativa ancora influente e, anzi, sempre più popolare. Il film mumblecore ha una sua precisa struttura basata su personaggi, situazioni, tematiche, e consiste, per riassumere, in un continuo flusso di pensieri e parole portate sullo schermo dagli attori.
“Mumble”, basta il termine. Dialoghi spesso improvvisati su un canovaccio dagli stessi interpreti. Il nucleo è tutto qui. Personaggi molto definiti, giovani tra i venti e i trent’anni nel mezzo della crisi della generazione ‘y’, in un’America indifferente e distaccata, nella quale perdersi è l’abitudine. Ventenni sospesi nella fase del divenire adulti, immersi in relazioni complicate e alle prese con l’elaborazione dei sentimenti d’amore, mentre sullo sfondo la società corre a un ritmo inarrestabile e il senso di estraneità cresce, ponendo altri interrogativi.
Con The One I Love il mumblecore ridiscute i propri archetipi. I giovani incerti sul futuro sono diventati uomini, hanno scelto di sposarsi, si sono inquadrati in una rete sociale accettabile e rassicurante, conoscono il partner a memoria, non si aspettano nulla e nulla chiedono all’altro. Allora perché questa tristezza? Perché l’insoddisfazione? I ventenni di The Puffy Chair sono diventati uomini e donne nella società della crisi valoriale, emotiva, culturale prima che economica. E Mark Duplass, catalizzatore cioè rappresentante simbolico dell’intera corrente, finisce con il rappresentare questo significativo passaggio. Siamo ormai nel tempo della maturità, e siamo sempre in cerca: non è più la felicità mai raggiunta, però, che i personaggi vanno cercando, ma la felicità perduta.
Giocando e divertendosi a manipolare le emozioni e le debolezze umane, The One I Love fotografa la generazione mumblecore al giro di boa e ci invita tutti, autori e spettatori, a non idealizzare il cinema, così come la persona che amiamo, ma a essere un po’ più pragmatici, un po’ sognatori e un po’ eroi nerd del nostro folle mondo interiore.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: America Oggi


Scheda tecnica

Regista: Charlie McDowell
Sceneggiatura: Justin Lader
Interpreti: Mark Duplass, Elisabeth Moss
Fotografia: Doug Emmett
Musiche: Danny Bensi, Saunder Jurriaans
Anno: 2014
Durata: 90'

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A MOST VIOLENT YEAR -  L’America (im)morale

4/5/2015

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“Quando li guarderai negli occhi, dovrai credere che siamo migliori di loro. E lo siamo”. È uno spirito, questo, che restaura un non più annichilito vigore, tale e quale alla fiducia preesistente il crollo delle ideologie e votato a un sistema di valori, zuppi di nostalgica mancanza: è l’America che ancora soffre. Soffre come di ferita narcisistica per quegli anni dorati di capitalismo rooseveltiano, dello shock di quel rito iniziatico che è stata la prima, mortifera recessione, in coazione a ripetere. Fino a un tempo in cui una nazione s’incatena, per disperazione, o per propensione quasi religiosa, a un sogno forse già morto, ma a cui vuole rimanere fedele, come un incurabile utopista. 
Il terzo capitolo dell’esplorazione socio-politica di J.C. Chandor è, in questo senso, l’ideale prosecuzione di quel Margin Call chiamata d’urgenza per il globo: oltre il crollo, il crimine, se non fosse che il crimine è monumentale e ha pronipoti secolari. La sinossi, sulla carta, è semplice: un imprenditore che gestisce un’azienda distributrice di combustibile ambisce all’espansione della sua attività, ma l’anno più violento del decennio gli si oppone. 
Tutt’altro che semplice, A most violent year. Anzitutto, questa volta Chandor attua una decompressione del ritmo filmico, in una tensione dilatativa che porta alla trasmutazione di quel Margin Call film corale e dialettico, in una parabola esistenziale para-psicologica imperniata essenzialmente su un uomo; A most violent year è il silenzio che ne rimane. Questo il centro nevralgico palpitante e sotterraneo di un’opera che scorre sul filo del rasoio di una perenne quanto sottile linea rossa, con l’accortezza di un funambolo, saldo quanto in vibrante oscillazione tra gli estremi del vuoto. Un film collocato eppure quasi a-temporale, paralizzato in un istante marmoreo e plumbeo, nella calda luce uniforme, quasi lato diurno in antitesi al digitale artificioso dell’opera prima. 
In uno stacco millenario, ora 1981 (ma 1991 e 2001 e oggi), Abel Morales, mistificato come un De Niro mafioso, è un’ambigua sagoma riflettente l’intera superficie inafferrabile dell’opera. Oscar Isaac pare il figlio in carta velina degli eroi decadenti sondati dal cinema degli anni ’70, solo forte di una rinnovata (e ritrovata – o forse mai persa?) affermazione di onestà: meno ludico, più ferreo, mitragliato da una cospirazione criminale che non riesce e non potrà defraudarlo, né disinnescarlo dal suo intatto virtuosismo etico. Per Chandor ha ancora senso parlare di morale, e ne condensa i tratti in un Morales che è imprenditore mirante all’espansione e come tale è portato a strumentalizzare i percorsi molteplici a lui dinnanzi. Eppure, per istinto e per dedizione, si trova a essere outsider di un macrocosmo che lo disconosce e che egli stesso rifugge; è strumento di dinamiche corrotte a cui si ribella con un eroismo straniante, in un atteggiamento di determinazione pari a una cieca e illuministica fede. Sembra investito da un destino ineluttabile, di predestinazione, quello dello scontro con istanze chiaroscurali: le stesse della moglie, di gangsteriana memoria, la gelida e ammaliante Jessica Chastain, che con il clima delinquenziale aveva fatto già fatto i conti. 
Tale è l’enigmaticità messa sullo schermo da Chandor, che l’occhio spettatoriale vaga confuso in libera uscita, in un sistema semantico e di specificità dell’immagine che sfida al labirintico cruciverba, preso a indovinare l’entità morale di ogni modello umano: avvocati, sindacati, aziende concorrenti, bancari, tutti inscindibili. Lo stesso Morales veste come loro (e poco importano le origini immigrate), parla come loro, meglio di loro (come un boss): le sue caratteristiche sono permutate, camuffate, in uno strategico consolidamento di ruoli che gli permette una mobilità imprenditoriale che con il suo status identitario ha ben poco a che fare. Ed è così che pare di trovarsi inglobati in un gioco allo svelamento, e presto in un ribaltarsi delle connotazioni a un primo sguardo così tipizzate. 
Si intrecciano inoltre tematiche di denuncia sociale manipolate in maniera del tutto anti-retorica, come fossero (quali sono) ordinarie sintomatologie del terrorismo psico-mediale americano; basti, a esempio, la morbosa urgenza dell’autodifesa, la stessa che spinge i dipendenti di Abel a procurarsi un’arma – arma che passa, come un testimone, dalla mano dei camionisti a quelli delle bambine, fino alla stessa Anna, per nulla tormentata da perplessità di etica estrazione. E come in ogni storia di crimine, traiettoria discendente (ma con un epilogo in ripresa), il capro espiatorio funzionale al decorso delle dinamiche narrative: l’abnegazione morale del camionista suicida (Elyes Gabel), per nulla dissimile ad Abel, forse suo umano gemellare – non a caso Chandor fa parlar loro la stessa lingua, in una sostanziale scommessa d’identità. 
Il goal di quest’opera calibratissima, dai tempi filmici tiratissimi e studiati, non giace tanto nel verticalismo estetico, nelle geometriche relazioni del quadro, nel riproporsi necessario degli sguardi d’insieme sul paesaggio urbano (New York, prima di notte, ora di giorno), o nei claustrofobici campi degl’interni minimali, formali. Tutt’altro: è la trasversalità della forma a evocare il pregio contenutistico. Il film di genere compatto, che strizza al classico, sfuma e sembra lanciare input in direzioni diversissime tra loro, a dimostrare una potenzialità molteplice solo in parte manifesta. Molti film, in un solo film. L’eccedenza di rimandi e collegamenti extra-testuali viene ricondotta e confezionata in una maschera thriller che però non annienta gli enunciati. È un non-dire che s’insinua, più efficace di qualsiasi programmatica disanima. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: America Oggi

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Scheda tecnica

Titolo originale: A most violent year
Regia: J. C. Chandor
Sceneggiatura: J.C. Chandor
Attori: Oscar Isaac, Jessica Chastain, David Oyelowo, Elyes Gabel, Alessandro Nivola
Anno: 2014
Durata: 125'
Fotografia: Bradford Young
Musica: Alex Ebert
Uscita italiana: --

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