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LOVE & MERCY - Brian Wilson in due atti

14/12/2015

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​“I keep looking for a place to fit
Where I can speak my mind
I’ve been trying hard to find the people
That I won’t leave behind”
(I just wasn’t made for these times – The Beach Boys)

Come affrontare la straordinaria vita privata ed artistica di un personaggio così importante come Brian Wilson, mente – stralunata, sognante e, perché no, perduta nelle nebbie lisergiche degli anni 60’ – dei Beach Boys, forse il più importante gruppo musicale statunitense del dopoguerra?
​Il “biopic” cinematografico, certamente, è la risposta più adeguata, grazie alle sfaccettature che immagini, testo e musica sanno offrire al pubblico, e Love & Mercy, film di un eccellente Bill Pohlad, riesce nella gigantesca impresa di raccontare le vicissitudini personali del musicista californiano prima e dopo Pet Sounds (1966): l’uso e l’abuso di droghe, le voci e i suoni che Wilson “sentiva” nella sua mente, ma anche il dopo, la depressione degli anni 70’ e la prigionia degli anni '80, di cui lo psicologo Eugene Landy fu responsabile.

Love & Mercy tradisce in senso positivo la grandezza anche commerciale che la band californiana ebbe durante la carriera e non si presenta sotto le mentite spoglie del blockbuster; piuttosto, e per fortuna, è un’opera minimale e calibrata sulle schizofrenie e sull’immenso talento che Brian Wilson ha avuto durante tutta la propria vita, un dono che gli ha permesso di sentire suoni e voci che non potevano essere e che non potevano appartenere al suo mondo; una sorta di materializzazione di “oggetti” rubati a un ipotetico aldilà.
Bill Pohlad costruisce il proprio film attorno alle fantastiche prove attoriali di Paul Dano, che conferma tutto il suo talento, e del sempre affidabile John Cusack, il quale sembra mantenere quell’aura sinistra acquisita in Maps to the Stars (David Cronenberg, 2014). Il primo, ingrassato per il ruolo, interpreta il giovane Wilson, che dopo le sbornie del surf rock vuole intraprendere un percorso diverso, personale e raffinato, soprattutto dopo aver ascoltato Rubber Soul dei Beatles, fruizione spartiacque della sua carriera; il secondo impersona il “sopravvissuto” cantante e musicista, salvato dalle dipendenze di droga e alcool ma idealmente relegato all’interno di una prigione dal proprio salvatore/aguzzino Eugene Landy, dottore che ha de facto utilizzato il paziente Brian Wilson per acquisire ricchezza e notorietà al di fuori delle regole e delle leggi.
Per fortuna la salvezza arriva, ed è incarnata nelle fattezze di Melinda Ledbetter, donna bella, forte e intelligente: invaghita di Wilson, comprende come la terapia 24 ore su 24 ideata da Landy sia solo una prigione, da cui è necessario far fuggire l’indifeso paziente. Pohland non usa mezzi termini e mostra le violenze fisiche e psicologiche adottate quotidianamente dallo psicologo, terapie estreme di cui pochissimi erano a conoscenza poiché Wilson, negli anni 80’, viveva ormai isolato e nessuno – ex-moglie, figlie e fratelli – si occupava più di lui da tempo. La solitudine, infatti, è uno dei caratteri precipui di tutto Love & Mercy e della vita di Wilson, una condizione scaturita dall’incomprensione che spesso caratterizzava i rapporti sociali del genio californiano.
La divisione – dualità, specchi che si affacciano l’uno sull’altro – che il regista americano impone alla sua opera è una pregevole scelta che dona freschezza al genere biografico, tralasciando il consueto e ortodosso rispetto del testo, qui inteso come pura linea di eventi e di fatti, per offrire una sfera di emozioni unica. Il personaggio Brian Wislon, il Dano/Cusack, viene calato in scene toccanti e profonde in cui piange per eventi futuri o veglia se stesso in ere differenti della sua vita.
Lo specchio e la sua dualità sono quindi le chiavi di lettura per questo splendido Love & Mercy, in cui tutte le superfici, le vite e gli eventi si toccano e si sfiorano per offrire il ritratto di un uomo, della sua arte e del suo immenso e tragico dono.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: America Oggi, Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Love & Mercy
Anno: 2014
Regia: Bill Pohlad
Sceneggiatura: Oren Moverman, Michael A. Lerner
Musica: Atticus Ross
Fotografia: Robert D. Yeoman
Durata: 121’
Attori principali: Paul Dano, John Cusack, Elizabeth Banks, Paul Giamatti
Uscita italiana: 31 marzo 2016

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COSMOPOLIS - Asimmetrie del reale

18/7/2015

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Uscito nelle sale nel 2012, Cosmopolis si colloca pienamente, sia a livello temporale sia tematico, nel contesto di quelle (rare) opere contemporanee che tentano di far luce sulle dinamiche aberranti della finanza mondiale, anche e soprattutto in quanto cause della crisi sistemica in atto. Eppure molti conti non tornano; o meglio, tornano in modo tangente, obliquo, periferico.

Girato prevalentemente a Toronto – elemento tutt’altro che casuale, giacché si tratta di una palese presa di distanza dall’epicentro ambientale reale in cui la crisi del 2008 ha iniziato a svilupparsi – Cosmopolis non vuole essere né cronaca né storia, tanto più che il romanzo di Don DeLillo, da cui il film è tratto, viene pubblicato nel 2003 e risulta ambientato nel 2000, quindi molto prima che la crisi stessa, almeno così come viene raccontata dai media, iniziasse. 
Lo spazio metropolitano, lungi dal risultare mera ricostruzione documentaria della Grande Mela, diviene, nel film, spazio qualsiasi, privo di qualunque connotato o riferimento riconoscibile. La vicenda narrata assume, almeno in superficie, le strutture e le dinamiche di una folle allegoria del potere finanziario contemporaneo, al di là, lo si è detto, di qualsiasi individuazione spazio-temporale precisa. I diagrammi, gli schemi e i numeri, che si affacciano dagli schermi dei computer installati nella limousine di Eric (Robert Pattinson), sono l’unico effettivo contatto con l’evanescente mondo della finanza, oltre a molti dei deliranti dialoghi che punteggiano l’opera.
La limo appare come un’automobile-santuario che custodisce (e protegge, essendo blindata e insonorizzata) i feticci e i simulacri di un mondo astratto, freddo, opaco e distante – ancorché letale per l’uomo – insieme a uno dei loro sacerdoti. È all’interno di essa che si svolge gran parte della vicenda narrata. La crisi c’è, ma non si vede, e la sua essenza forse si colloca nella sua assenza. Al limite essa viene psicoticamente verbalizzata ed evocata dai personaggi che transitano attraverso l’immensa automobile di Eric (tra i quali spicca una sensualissima Juliette Binoche): una cattedrale, un confessionale o, per certi versi, lo studio di uno psicanalista. È attraverso questa verbalizzazione dell’assente che prende forma l’effettiva distanza esistenziale, oltre che fattuale, fra l’uomo e l’astratto, ottuso universo finanziario. Più che un film sulla crisi economica, Cosmopolis è, in realtà, un’opera sulla crisi d’identità e sulle aberrazioni psichiche che caratterizzano gli uomini di potere dell’epoca contemporanea.

L’ossessione di controllo che pervade Eric e i suoi collaboratori (esperti informatici e di matematica finanziaria, “filosofi monetari”, uomini del suo personale apparato di security) trova un ostacolo insormontabile nell’impenetrabilità e imprevedibilità del reale e degli eventi che vi accadono. Se la realtà concreta è permeata da tale imponderabilità, altrettanto, se non di più, lo è la realtà virtuale dei numeri e degli astrusi calcoli probabilistici, statistici e delle ermetiche equazioni che regolano i flussi dei mercati finanziari. Eric, i suoi sottoposti e il suo impero vedono sgretolarsi le proprie fondamenta per non aver saputo prevedere l’andamento sul mercato dello yuan cinese. Ogni possibilità di calcolo e di conseguente controllo del mondo si è inceppata di fronte alle variabili impazzite di un universo solo apparentemente regolare e ordinato come quello matematico. L’Io di Eric e degli altri personaggi che gli ruotano attorno, così come le loro identità, vengono perciò a frantumarsi e a frammentarsi per non aver saputo reggere il peso dell’evanescenza dei loro saperi, delle loro concezioni del mondo e delle loro friabili certezze. Ecco perché l’intero film può essere letto come un’ipertrofica seduta psicanalitica dei vari personaggi presso il guru Eric, ma anche di quest’ultimo presso quell’attento e a tratti beffardo osservatore entomologico che è David Cronenberg.
Il viaggio di Eric nell’arco di una giornata, (1) attraverso la metropoli newyorchese, diviene quindi un percorso regressivo che tocca tutti i personaggi della corte di cui è sovrano indiscusso, impegnati a riscoprire la loro fase orale (li vediamo sovente impegnati a suggere cannucce, sgranocchiare noccioline, trangugiare bevande) e il linguaggio, che nel loro caso è, come nell’infanzia, carico di significati mitici e ludici. I monitor dei computer, con i loro arabeschi digitali, costituiscono l’unico mondo di riferimento, costruito su un incorporeo controllo a distanza che identifica denaro, potere, frenetica e meccanica ambizione: uno smisurato campo da gioco, evocato attraverso un vero e proprio gergo semi-esoterico per iniziati, esattamente come accade in quelle gang giovanili dove si gioca, appunto, a fare gli adulti.

1) Il racconto rispetta l’unità spazio-temporale aristotelica della tragedia e, oltre a ciò, esprime i caratteri di una narrazione (anti)epica in cui il viaggio, anziché essere radicalmente formativo e portatore di conoscenza ed esperienza di sé, non è altro che l’espressione della dissoluzione del soggetto protagonista.

Ancora più complesso risulta il percorso di (ri)scoperta e ridefinizione del sé da parte di Eric. Tale personaggio, individuato somaticamente dai tratti anodini di Robert Pattinson, appare fin da subito come un essere alieno in un ambiente similmente alieno (grattacieli e palazzi anonimi accanto alle altrettanto anonime limousine in fila e tutte uguali) e disumanizzato, perciò perfettamente organico ad esso. L’ostinato viaggio verso il salone di barbiere della sua infanzia, dall’altra parte della città – il pretesto narrativo che consente lo sviluppo dell’intreccio – non è altro che l’indizio più immediato, fra i molti che punteggiano il film, della vera e propria patologia che interessa il protagonista: il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, che si esplica come la ripetizione rituale, maniacale e meccanica di azioni che hanno lo scopo sia di esprimere il proprio controllo sul mondo, per ristabilirne un ordine che si paventa come perennemente compromesso, sia in definitiva di esorcizzare l’imprevedibilità e l’ostilità del reale.
Cosmopolis, per molti versi, può essere a tal proposito definito come un torbido trip dal razionale all’irrazionale o dalla com-pulsione alla (riscoperta della) pulsione, attraverso una serie di tappe che gradualmente portano il protagonista a liberarsi delle proprie ossessioni per riabbracciare, almeno fin dove gli riesce, la dimensione originaria e libera del caos, l’esperienza della propria corporeità attraverso il piacere, il dolore e, magari, la morte. L’obiettivo ultimo, probabilmente inconsapevole, di Eric è quello di fronteggiare l’irrazionalità del reale attraverso una altrettanto prepotente riaffermazione folle del Sé o, meglio, del proprio Es.

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Due vie parallele possono essere determinate, nel corso del film, per individuare questo percorso di mutazione psicofisica. La prima può essere identificata come il passaggio dai segni dell’ordine ai segni del disordine. Tutta la vita di Eric è scandita, fino allo svolgersi degli eventi narrati nel film, dal controllo maniacale di ogni fase e aspetto, sia pubblico che privato, della sua giornata. Il suo stile è impeccabilmente elegante, asettico, così come il suo viso e il suo taglio di capelli, e non a caso il racconto inizia in medias res, proprio mentre egli sta per recarsi dal suo barbiere di sempre, perché a Eric non piace cambiare le proprie abitudini, costi quel che costi. La ripetitività ossessiva delle sue azioni risulta confermata e acuita allorché lo si ritrova sottoposto al suo check-up giornaliero completo, per monitorare lo stato della sua salute.
In ogni suo spostamento il protagonista è seguito da un complesso apparato di security, che egli, controllato da esso, a sua volta controlla (fino all’indistinguibilità del controllore e del controllato). Eric pare inoltre minacciato da un oscuro individuo che vuole la sua morte: ecco anche perché le maglie delle difese approntate dalle guardie del corpo risultano estremamente spesse. La gran parte della sua frenetica esistenza è, comunque, soprattutto dedicata all’ispezione certosina dell’andamento del suo dominio finanziario tramite i propri apparati informatici.

L’elemento di rottura dell’equilibrio, che probabilmente innesca la mutazione di Eric, è la caduta vertiginosa del suo impero. Ecco allora cominciare la proliferazione dei segni del disordine. Dapprima egli comincia a smarrire alcuni oggetti-chiave del suo look: occhiali da sole, giacca, cravatta; poi è la volta della sua limousine, che viene a più riprese lordata dai manifestanti che riempiono le strade; successivamente è il suo faccino indolente e viziato a subire l’oltraggio di una torta in faccia da parte di un manifestante particolarmente fantasioso; infine è egli stesso a contribuire al prevalere del caos, quando uccide il capo della sua sicurezza (Mathieu Amalric) e poi quando, una volta dal barbiere, interrompe la seduta, uscendo col taglio incompleto. Da questo punto in poi, Eric manifesta apertamente quella che Freud indicherebbe come pulsione di morte. Tale atteggiamento da cupio dissolvi crea però un cortocircuito nella definizione del personaggio, che appare, paradossalmente e per la prima volta, libero e vivo, anche se pur sempre in una deriva mentale ormai irreversibile.
L’altra via per comprendere la mutazione psicofisica di Eric è, invece, di matrice più strettamente psicanalitica. La vita ossessivamente programmata e ordinata del protagonista mostra degli indizi di squilibrio là dove cominciano ad affacciarsi dei segni di regressione psichica e di predominio della pulsione. L’intrecciarsi e il sovrapporsi confuso delle tre fasi formative originarie dell’Io nell’infanzia (orale, anale, fallica) conducono Eric a liberarsi progressivamente dei propri legami istituzionali da adulto, per proiettarlo verso un’orgia di sensazioni progressivamente più estreme, che sembrano risvegliarlo dal suo meccanico torpore portandolo, però, a una dimensione di totale e allucinato spaesamento. Anch’egli, come gli altri personaggi, trae diletto dall’oralità (sugge, beve, sgranocchia e ha sempre fame) e soprattutto risulta erotizzato dal proprio logos, dal piacere di agitare la lingua per modulare suoni armoniosi, estremamente selezionati e dal significato suggestivo; appare inebriato dal gusto di parlare e di ascoltarsi, in una dimensione in cui la parola non ha ancora raggiunto la maturità del dia-logos, ma appare ancora fortemente ancorata alle sue possibilità evocative e ipnotiche.
L’esame prostatico, durante il suo check-up giornaliero, rivela invece, da parte di Eric, l’espressione di una libido legata anche all’analità, oltre a fargli scoprire l’asimmetricità della sua prostata (elemento decisivo che riassume in sé molti dei significati del film). Infine, gli svariati rapporti sessuali avuti nel corso della giornata, con donne di varie forme ed età, evidenziano una sua propensione fallocentrica, nella quale non c’è posto per un’autentica reciprocità fra persone vive, ma in cui, invece, egli si percepisce come soggetto assoluto, esattamente come accade nella corrispondente fase psicosessuale freudiana.

L’ultimo tassello per completare il complesso quadro si situa nella ricerca, da parte di Eric, dell’uomo che lo minaccia, che altri non è se non un suo ex sottoposto, ormai licenziato e ai margini della società, che si fa chiamare Benno Levin (uno straordinario Paul Giamatti). Forse, inconsciamente, Eric è da quest’ultimo che, fin dall’inizio, sente l’urgenza di andare. Una volta abbandonato il salone del barbiere, egli vaga per il vecchio e solitario quartiere fino a quando non vengono esplosi dei colpi di pistola nella sua direzione: è Benno, ed Eric intuisce che è giunto il momento di confrontarsi con lui. Sale così fino al fatiscente appartamento di quest’ultimo, per incontrarlo e, magari, per cominciare a capire.
Ciò a cui si assiste nella sequenza finale, vale a dire il “duello” fra Eric e Benno, è una grottesca rappresentazione della “fase dello specchio” psicanalitica. (2) Eric si trova di fronte a un’immagine fortemente deformata di sé: Benno, invecchiato, brutto, sporco, incattivito, ma soprattutto vivo. Anch’egli ha, come Eric, la prostata asimmetrica e anch’egli, per molto tempo, ha creduto nei numeri, nella loro assolutezza e regolarità. Ora, però, ha smesso di credere e si è rassegnato all’asimmetria del reale, alla sua irregolarità, come a un destino ineluttabile. Forse vorrebbe solo che qualcuno lo ascoltasse per capire. 

2) Secondo Freud e Lacan, il momento originario dell’infanzia in cui il piccolo d’uomo inizia ad assumere coscienza della propria soggettività e della propria identità si situa, appunto, nella “fase dello specchio”, cioè quando il bambino si trova di fronte a una superficie riflettente, insieme a un adulto, e riconosce, nell’immagine riflessa, se stesso.

È come se Benno, novello ritratto di Dorian Gray, avesse per molto tempo accumulato tutto lo squallore, la turpitudine, la bruttezza e l’abiezione del suo capo per preservarlo e mantenerlo integro e perfetto, caricandosi anche del fardello della vita di Eric e del peso della sua coscienza. Ed è come se, fino ad allora, Eric non avesse realmente vissuto, delegando inconsciamente a Benno di subire gli oltraggi del tempo e di un’esistenza dissipata, frenetica e folle.
Ora, forse, Eric si trova in quella stanza cadente per recuperare, tutto in una volta, il tempo perduto; ma si sa, il tempo è una pistola puntata alla testa…

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: America Oggi


Scheda tecnica

Anno: 2012
Durata: 105’
Soggetto: Don DeLillo
Regia e sceneggiatura: David Cronenberg
Fotografia: Peter Suschitzky
Montaggio: Ronald Sanders
Interpreti principali: Robert Pattinson, Juliette Binoche, Sarah Gadon, Mathieu Amalric, Kevin Durand, Paul Giamatti

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