Epoca post-postmoderna, comunque la si voglia chiamare; questo è un momento dove tutto sembra il passato (di tutto) e, per quanto sia banale ripeterlo, il sovraccarico eidetico giova non poco a chi si affanna a spezzare il cordone dell’abuso e ri-abuso cinematografico.
Esiste ancora un cinema, quello americano, che in coazione a ripetere sforna titoli che si propongono (mal riuscendoci) di richiamare alla mente la pulizia e la nobiltà registica delle produzioni hollywoodiane dell’era classica. Lo fa spessissimo nei formati del biopic e del dramma sentimentale, come un formulario di riadattamenti leziosi, seppur godibili. Talvolta ci si dimentica di cos’è l’America, tanto che puritanesimo, perbenismo, patriottismo e buona morale del giusto sacrificio svettano solenni tra le pieghe (più piaghe) di dialoghi puramente didascalici.
L’America, invece, si scorda di omaggiare una tradizione cinematografica che non trova pari, quella del sentimento rooseveltiano, dalla cui nostalgia gli statunitensi non hanno ancora trovato la cura. La nazione pragmatica, individualista, il valore della comunità e, soprattutto, la fede nella santa stampa del giornalismo d’inchiesta, massimo promulgatore di verità e altissima etica – quella di Frank Capra, acutissimo costruttore di metafore civiche e civili, lato illuminato di quel ghigno cinico che, dall’altra, Wilder interpretava benissimo (infischiandosene di tutto).
Si potrebbe dire che questo Spotlight, presentato Fuori Concorso a Venezia e diretto da Thomas McCarthy, forse in maniera non del tutto consapevole e con, sulle spalle, qualche scivolone mal celato, riprende quell’America da dov’era stata lasciata, abbassando al minimo il tassametro su eroismi e spettacolarizzazioni ridicoleggianti. Riducendo la retorica, emancipando il nucleo del concetto in sé di valore e valorizzazione del contenuto.
Lo Spotlight, anzitutto, è un antico team che lavora con materiale segretissimo presso il Boston Globe, testata giornalistica dell’omonima città, ponendosi obiettivi d’inchiesta ambiziosi e non privi di ostacoli legislativi. Punto centrifugo dell’opera è l’investigazione serrata e in incognita di uno scandalo mai scoppiato, inerente a una presunta fittissima rete di pedofilia interna al patriarcato cattolico del Massachussets.
Prescindendo dallo scorrevole apporto sociologico da cui il lavoro muove – perché McCarthy fa un film meno che mai sul castigo dell’epidemica deviazione sessuale in campo politico/religioso - questo Spotlight è un revivre di sentimenti solidissimi, fossilizzatisi nella cultura mediatica e socio-psicologica di un certo tipo di cinema che si mette al servizio, senza svilimenti stilistici di alcun tipo, del contenuto, e facendo(ne) di più: ne accoglie intenti e dinamiche e ne imita la forma, al punto che scelte registiche coincidono con il metodo di lavoro puntuale e pedissequo del gruppo di reporter; ovvero, si lavora in parallelo, a costituire un prodotto meccanicamente oliato a precisione, asciutto e quadrato nelle dimensioni interne, ove finalmente il contenuto assorbe la forma (e viceversa).
Viene da pensare che poco importi delle reali conseguenze dello scandalo o della criminalità dei responsabili (boicottate con intelligenza dalla trama e per nulla declamate) o dello scoprire l’entità assoluta del problema, perché il film è un esempio visibile di innescamento di quest funzionale all’evidenziare tutt’altri limbi concettuali. In questo senso, Spotlight non è nemmeno un film sulla fede e sul poter (dover?) continuare a credere (e sbrodola quando impugna la stessa per esemplificare il guaio della gerarchia ecclesiastica e lo scoramento dei protagonisti nel perpetuare le indagini). Spotlight è invece il pretesto per girare un film sulla comunità, sul senso della collettività in quanto etica immortale della vera fede americana, quel pragmatismo che si sostituisce alla religione e il cui scettro s’impugna tanto raramente nei fatti, ma più che sufficientemente a parole.
Con il valore dell’idealismo e dell’unione civile il film di McCarthy vince quando, nella maniera più nostalgicamente classica, quasi pedagogica, ne fa un’imprescindibilità dimostrandone, più dell’idillio del team, falle, ipocrisie, mancanze, omertà, zone d’ombra essenziali a definirne gli opposti. Boston è una città che del senso del comune ha perso le orme, tanto che quel negarsi a vicenda il diritto di sapere (i cittadini presumibilmente conoscono l’effettività degli abusi, persino uno dei reporter ne venne a conoscenza nel passato e decise di insabbiare progressivamente il tutto) ha il sapore agrodolce di una sconfitta universale. Tanto quanto la pubblicazione dell’articolo, redatto con inserti di documentazione inizialmente priva di accesso pubblico, che sortisce l’effetto di un boomerang e non necessariamente si propone di modificare il reale (semmai torna indietro per nobilitare il passato). Ciò che importa è porre la vittoria (mai definitiva) dell’autoaffermazione della libertà e della verità (di stampa, che in America equivale a quella civile e umana).
Persino il cast di attori (alcuni sempre notevoli, come Mark Ruffalo e Michael Keaton, altri spesso opachi, come Rachel McAdams, qui efficacemente in linea con la sobrietà dell’opera – il film e l’inchiesta) si piega giocoforza a questa missiva di rivitalizzazione etica, scoperchiando il non-accaduto del passato (se avessimo agito prima…) per effettuarlo nel presente. Le esuberanze ci sono, purtroppo anche messe in bocca a un’esemplare isterica reazione di Ruffalo, che sbraita domandandosi perché l’articolo debba essere posticipato se a soffrirne sono stati dei bambini indifesi. Forse non è bene pretendere oltre.
Incastrato in un montaggio secco e funzionale e con ottima padronanza di ritmo, sempre teso dall’incipit alla chiusa, McCarthy fa cinema intelligente, forse non entusiasmante, ma onesto e consapevole, come un vecchio mascherato in un’epoca che del cinema ancor di più non sa che farsene.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Venezia 72
Scheda tecnica
Regia: Thomas McCarthy
Sceneggiatura: Thomas McCarthy, Josh Singer
Attori: Michael Keaton, Mark Ruffalo, Stanley Tucci, Rachel McAdams
Fotografia: Masanobu Takayanagi
Durata: 128’
Uscita: Novembre 2015 (Stati Uniti)
Esiste ancora un cinema, quello americano, che in coazione a ripetere sforna titoli che si propongono (mal riuscendoci) di richiamare alla mente la pulizia e la nobiltà registica delle produzioni hollywoodiane dell’era classica. Lo fa spessissimo nei formati del biopic e del dramma sentimentale, come un formulario di riadattamenti leziosi, seppur godibili. Talvolta ci si dimentica di cos’è l’America, tanto che puritanesimo, perbenismo, patriottismo e buona morale del giusto sacrificio svettano solenni tra le pieghe (più piaghe) di dialoghi puramente didascalici.
L’America, invece, si scorda di omaggiare una tradizione cinematografica che non trova pari, quella del sentimento rooseveltiano, dalla cui nostalgia gli statunitensi non hanno ancora trovato la cura. La nazione pragmatica, individualista, il valore della comunità e, soprattutto, la fede nella santa stampa del giornalismo d’inchiesta, massimo promulgatore di verità e altissima etica – quella di Frank Capra, acutissimo costruttore di metafore civiche e civili, lato illuminato di quel ghigno cinico che, dall’altra, Wilder interpretava benissimo (infischiandosene di tutto).
Si potrebbe dire che questo Spotlight, presentato Fuori Concorso a Venezia e diretto da Thomas McCarthy, forse in maniera non del tutto consapevole e con, sulle spalle, qualche scivolone mal celato, riprende quell’America da dov’era stata lasciata, abbassando al minimo il tassametro su eroismi e spettacolarizzazioni ridicoleggianti. Riducendo la retorica, emancipando il nucleo del concetto in sé di valore e valorizzazione del contenuto.
Lo Spotlight, anzitutto, è un antico team che lavora con materiale segretissimo presso il Boston Globe, testata giornalistica dell’omonima città, ponendosi obiettivi d’inchiesta ambiziosi e non privi di ostacoli legislativi. Punto centrifugo dell’opera è l’investigazione serrata e in incognita di uno scandalo mai scoppiato, inerente a una presunta fittissima rete di pedofilia interna al patriarcato cattolico del Massachussets.
Prescindendo dallo scorrevole apporto sociologico da cui il lavoro muove – perché McCarthy fa un film meno che mai sul castigo dell’epidemica deviazione sessuale in campo politico/religioso - questo Spotlight è un revivre di sentimenti solidissimi, fossilizzatisi nella cultura mediatica e socio-psicologica di un certo tipo di cinema che si mette al servizio, senza svilimenti stilistici di alcun tipo, del contenuto, e facendo(ne) di più: ne accoglie intenti e dinamiche e ne imita la forma, al punto che scelte registiche coincidono con il metodo di lavoro puntuale e pedissequo del gruppo di reporter; ovvero, si lavora in parallelo, a costituire un prodotto meccanicamente oliato a precisione, asciutto e quadrato nelle dimensioni interne, ove finalmente il contenuto assorbe la forma (e viceversa).
Viene da pensare che poco importi delle reali conseguenze dello scandalo o della criminalità dei responsabili (boicottate con intelligenza dalla trama e per nulla declamate) o dello scoprire l’entità assoluta del problema, perché il film è un esempio visibile di innescamento di quest funzionale all’evidenziare tutt’altri limbi concettuali. In questo senso, Spotlight non è nemmeno un film sulla fede e sul poter (dover?) continuare a credere (e sbrodola quando impugna la stessa per esemplificare il guaio della gerarchia ecclesiastica e lo scoramento dei protagonisti nel perpetuare le indagini). Spotlight è invece il pretesto per girare un film sulla comunità, sul senso della collettività in quanto etica immortale della vera fede americana, quel pragmatismo che si sostituisce alla religione e il cui scettro s’impugna tanto raramente nei fatti, ma più che sufficientemente a parole.
Con il valore dell’idealismo e dell’unione civile il film di McCarthy vince quando, nella maniera più nostalgicamente classica, quasi pedagogica, ne fa un’imprescindibilità dimostrandone, più dell’idillio del team, falle, ipocrisie, mancanze, omertà, zone d’ombra essenziali a definirne gli opposti. Boston è una città che del senso del comune ha perso le orme, tanto che quel negarsi a vicenda il diritto di sapere (i cittadini presumibilmente conoscono l’effettività degli abusi, persino uno dei reporter ne venne a conoscenza nel passato e decise di insabbiare progressivamente il tutto) ha il sapore agrodolce di una sconfitta universale. Tanto quanto la pubblicazione dell’articolo, redatto con inserti di documentazione inizialmente priva di accesso pubblico, che sortisce l’effetto di un boomerang e non necessariamente si propone di modificare il reale (semmai torna indietro per nobilitare il passato). Ciò che importa è porre la vittoria (mai definitiva) dell’autoaffermazione della libertà e della verità (di stampa, che in America equivale a quella civile e umana).
Persino il cast di attori (alcuni sempre notevoli, come Mark Ruffalo e Michael Keaton, altri spesso opachi, come Rachel McAdams, qui efficacemente in linea con la sobrietà dell’opera – il film e l’inchiesta) si piega giocoforza a questa missiva di rivitalizzazione etica, scoperchiando il non-accaduto del passato (se avessimo agito prima…) per effettuarlo nel presente. Le esuberanze ci sono, purtroppo anche messe in bocca a un’esemplare isterica reazione di Ruffalo, che sbraita domandandosi perché l’articolo debba essere posticipato se a soffrirne sono stati dei bambini indifesi. Forse non è bene pretendere oltre.
Incastrato in un montaggio secco e funzionale e con ottima padronanza di ritmo, sempre teso dall’incipit alla chiusa, McCarthy fa cinema intelligente, forse non entusiasmante, ma onesto e consapevole, come un vecchio mascherato in un’epoca che del cinema ancor di più non sa che farsene.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Venezia 72
Scheda tecnica
Regia: Thomas McCarthy
Sceneggiatura: Thomas McCarthy, Josh Singer
Attori: Michael Keaton, Mark Ruffalo, Stanley Tucci, Rachel McAdams
Fotografia: Masanobu Takayanagi
Durata: 128’
Uscita: Novembre 2015 (Stati Uniti)