“E dopo aver visto tutto ciò, potremo ancora reclamare la nostra innocenza?”.
Un ventre aperto, uno squarcio senza fondo (o con fondo policromo e iperrealista), la terra occidentale africana del terzo lungometraggio di Cary Fukunaga e con lei queste bestie umane che tra la guerriglia civile si perdono. Eppure conservano il loro nome, si direbbe, a impressionare la lente di sangue e di fango.
A guardare con continuo shift di soft e deep focus lo sguardo di piombo, vagante, di un figlio bambino, Agu, che apre una pagina di storia strappandosi il volto di dosso, tra le macerie di una vita già marchiata d’impersonale e pernottando in uno stato di sensazione visiva, pornografia di tinte, tra la giungla equatoriale.
Agu vive un’infanzia d’ingenuità e inesperienza in una famiglia comune, con padre, madre e fratello, con il quale s’evince da subito esservi un idillio consanguineo, una spartizione delle più disparate azioni giornaliere, avvertendo entrambi, però, il senso incombente della guerra cittadina. Il senso di una guerra percepita e annunciata che stravolgerà assegnazione e pregnanza della sua esistenza. Si ritroverà, infatti, da solo, strappato alla madre, costretta per la sopravvivenza a disgiungersi da lui, e destinato, poco dopo, a subire l’uccisione del padre e del fratello da parte dei militari occupanti il territorio. Un antefatto, questo, a dare il via al fulcro specifico dell’opera, che intende allargare conoscenza e sguardo sull’iniziazione a una vita da bambino soldato in un organizzazione di ribelli autoctoni, la quale si propone di contrastare, in totale osmosi di dinamiche e mezzi, le fucilazioni e le distruzioni dell’apparato militare sui civili.
È in fondo una disanima assai comune, quella di Fukunaga per Netflix, su come (ovunque) il fine (la padronanza, il potere) finisca per giustificare i mezzi di una violenza che per essere veramente efficace deve proporsi come stratificata, pragmatica e anzitutto di sezionata gerarchia. Gerarchia di volontà di potenza a divenire, sempre, necessità di vendetta, di riscatto, per chi non è mai stato ascoltato, per chi ha dovuto rinunciare al proprio nome, agitando mutilazioni e sostituendo ferite interiori con arti di materiale esplosivo. Prende inizio un viaggio fanatico tra la non-umanità sporca e feroce, con Agu portato a seguire la parola del capo dei ribelli, qui interpretato in maniera ficcante da Idris Elba (già in American Gangster, Takers) e, con obbligato nascondiglio d’insicurezze e lutti precoci, a procedere in una natura ostile (eppure spesso magnanima), indossando le vesti di un prediletto e iniziato promettente.
Ma Beasts of No Nation di certo non sconvolge per la fattezza della sua materia morale o psicologica: la prima, in fondo, piuttosto ricalcata su una riproposizione, per quanto d’effettivo realismo, della banalità del male e di un superomismo dilagante; la seconda, talvolta ridondante e copincollata, rimasta sullo fondo, abbozzata (pur non disdegnante passaggi di voce-off dal calcato intento evocativo, presumibilmente rintracciati dall’omonimo romanzo di Uzodinma Iweala del 2005).
La (parziale) efficacia dell’opera si cela, in modalità manifesta, nella forte consapevolezza di un impianto visivo d’attrazione colorista e dinamica, tra saturazione e sovraesposizione fotografica, tra scelte estetiche ammiccanti e slow-motion dosato (e condensato), in un profilo ritmico sostenuto, destinato a perdersi in parte sulla via del finale, ma manifestando, va detto, un’artigianalità improntata a un’idea di perfezione, infine, non insoddisfacente.
Il rapporto gerarchico è, poi, topos del lavoro, un fil-rouge che si percorre a iniziare da Agu e il fratello, per giungere all’ammaestramento operato dalla mente alienata (eppure, anche qui, umanissima – e suadente) del generale ribelle nei confronti di Agu, in un tentato passaggio di testimone, e in una relazione d’abuso continuo ed effettivo. A intensificare la convinzione estetica evidentissima, gli inserti d’allucinazione narcotica, a riallacciarsi alle sostanze di cui gli insorti fanno costantemente uso, e la carne (scarnificata) che si appronta, come su un tavolo operatorio, per divenire macellaio e macelleria paleolitica, con gli schizzi di sangue a insudiciare l’occhio, nell’emergenza di (at)trarre a sé.
Gli avvallamenti in fase di sceneggiatura si fanno certo sentire, e nascono per piacere, per allargarsi a un pubblico indistinto, nel loro essere (i dialoghi) spesso abbacinati da una necessità di comprensione universale. L’impronta dell’esigenza manifesta di un condotto comunicativo strutturato e ampio, dunque.
Ma è un pregio, affossamenti e scivoloni di pensiero sulla forma a parte.
Infine, Beasts of No Nation (si) salva, tra altri titoli deludenti e poca frescura para-autunnale.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Venezia 72
Scheda tecnica
Regia: Cary Fukunaga
Interpreti: Idris Elba, Abraham Attah, Ama K. Abrebese
Sceneggiatura: Cary Fukunaga
Musica: Dan Romer
Anno: 2015
Durata: 136’
Uscita: 16 Ottobre 2015 (America)
Un ventre aperto, uno squarcio senza fondo (o con fondo policromo e iperrealista), la terra occidentale africana del terzo lungometraggio di Cary Fukunaga e con lei queste bestie umane che tra la guerriglia civile si perdono. Eppure conservano il loro nome, si direbbe, a impressionare la lente di sangue e di fango.
A guardare con continuo shift di soft e deep focus lo sguardo di piombo, vagante, di un figlio bambino, Agu, che apre una pagina di storia strappandosi il volto di dosso, tra le macerie di una vita già marchiata d’impersonale e pernottando in uno stato di sensazione visiva, pornografia di tinte, tra la giungla equatoriale.
Agu vive un’infanzia d’ingenuità e inesperienza in una famiglia comune, con padre, madre e fratello, con il quale s’evince da subito esservi un idillio consanguineo, una spartizione delle più disparate azioni giornaliere, avvertendo entrambi, però, il senso incombente della guerra cittadina. Il senso di una guerra percepita e annunciata che stravolgerà assegnazione e pregnanza della sua esistenza. Si ritroverà, infatti, da solo, strappato alla madre, costretta per la sopravvivenza a disgiungersi da lui, e destinato, poco dopo, a subire l’uccisione del padre e del fratello da parte dei militari occupanti il territorio. Un antefatto, questo, a dare il via al fulcro specifico dell’opera, che intende allargare conoscenza e sguardo sull’iniziazione a una vita da bambino soldato in un organizzazione di ribelli autoctoni, la quale si propone di contrastare, in totale osmosi di dinamiche e mezzi, le fucilazioni e le distruzioni dell’apparato militare sui civili.
È in fondo una disanima assai comune, quella di Fukunaga per Netflix, su come (ovunque) il fine (la padronanza, il potere) finisca per giustificare i mezzi di una violenza che per essere veramente efficace deve proporsi come stratificata, pragmatica e anzitutto di sezionata gerarchia. Gerarchia di volontà di potenza a divenire, sempre, necessità di vendetta, di riscatto, per chi non è mai stato ascoltato, per chi ha dovuto rinunciare al proprio nome, agitando mutilazioni e sostituendo ferite interiori con arti di materiale esplosivo. Prende inizio un viaggio fanatico tra la non-umanità sporca e feroce, con Agu portato a seguire la parola del capo dei ribelli, qui interpretato in maniera ficcante da Idris Elba (già in American Gangster, Takers) e, con obbligato nascondiglio d’insicurezze e lutti precoci, a procedere in una natura ostile (eppure spesso magnanima), indossando le vesti di un prediletto e iniziato promettente.
Ma Beasts of No Nation di certo non sconvolge per la fattezza della sua materia morale o psicologica: la prima, in fondo, piuttosto ricalcata su una riproposizione, per quanto d’effettivo realismo, della banalità del male e di un superomismo dilagante; la seconda, talvolta ridondante e copincollata, rimasta sullo fondo, abbozzata (pur non disdegnante passaggi di voce-off dal calcato intento evocativo, presumibilmente rintracciati dall’omonimo romanzo di Uzodinma Iweala del 2005).
La (parziale) efficacia dell’opera si cela, in modalità manifesta, nella forte consapevolezza di un impianto visivo d’attrazione colorista e dinamica, tra saturazione e sovraesposizione fotografica, tra scelte estetiche ammiccanti e slow-motion dosato (e condensato), in un profilo ritmico sostenuto, destinato a perdersi in parte sulla via del finale, ma manifestando, va detto, un’artigianalità improntata a un’idea di perfezione, infine, non insoddisfacente.
Il rapporto gerarchico è, poi, topos del lavoro, un fil-rouge che si percorre a iniziare da Agu e il fratello, per giungere all’ammaestramento operato dalla mente alienata (eppure, anche qui, umanissima – e suadente) del generale ribelle nei confronti di Agu, in un tentato passaggio di testimone, e in una relazione d’abuso continuo ed effettivo. A intensificare la convinzione estetica evidentissima, gli inserti d’allucinazione narcotica, a riallacciarsi alle sostanze di cui gli insorti fanno costantemente uso, e la carne (scarnificata) che si appronta, come su un tavolo operatorio, per divenire macellaio e macelleria paleolitica, con gli schizzi di sangue a insudiciare l’occhio, nell’emergenza di (at)trarre a sé.
Gli avvallamenti in fase di sceneggiatura si fanno certo sentire, e nascono per piacere, per allargarsi a un pubblico indistinto, nel loro essere (i dialoghi) spesso abbacinati da una necessità di comprensione universale. L’impronta dell’esigenza manifesta di un condotto comunicativo strutturato e ampio, dunque.
Ma è un pregio, affossamenti e scivoloni di pensiero sulla forma a parte.
Infine, Beasts of No Nation (si) salva, tra altri titoli deludenti e poca frescura para-autunnale.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Venezia 72
Scheda tecnica
Regia: Cary Fukunaga
Interpreti: Idris Elba, Abraham Attah, Ama K. Abrebese
Sceneggiatura: Cary Fukunaga
Musica: Dan Romer
Anno: 2015
Durata: 136’
Uscita: 16 Ottobre 2015 (America)