Tanta è l’emozione nell’approcciarsi a questo film postumo di un regista, Claudio Caligari, che, nonostante le “sole” tre opere all’attivo, merita la devozione con la quale gli si è stati soliti avvicinarsi negli ultimi decenni di silenzio e malattia. In tutta la sua anomalia, Caligari pare esser interessato solo e interamente all’autenticità del corpus dei fatti, lasciando la poesia del marcio a parlare da sé.
Non essere cattivo, di fondo, inizia ricollegandosi idealmente (e anche fattualmente) a quello che fu Amore tossico, incastrando i suoi ultimi antieroi (Cesare e Vittorio) sul litorale ostiense sul quale aveva lasciato i protagonisti erranti di vent’anni prima, a mangiarsi un gelato accasciati sul muretto di una spiaggia attonita, in osmosi alla decadenza delle case popolari e all’ingordigia di una vita che passa di fianco uccidendo a vista.
Non sembra cambiato poi molto, per Caligari e per Valerio Mastandrea (amico e produttore del film), da quella desolazione contaminata e dalla tela bianca che si dipingeva di sangue debordato dalla vena nel lontano 1983, anno del suo film-manifesto. La concezione è la medesima: sempre a sfondarsi di eroina (ma questa volta è la cocaina) tra le strade e i cantieri romani; sempre a lottare contro una vita brutale nell’unica maniera possibile; sempre a ricadere negli stessi schemi senza scampo, masticando una lingua ignorante e fedele a un verismo che accerchia gli individui facendone sbiadite impossibilità umane.
Questa volta, però, la visione corale e (neo)neorealista di un tempo vira decisa verso un plot meno destrutturato, che sceglie un passo a due per incanalare il motore tragico della vicenda. Cesare e Vittorio sono due amici cresciuti assieme che condividono pasticche e zuffe notturne, figli di una sporcizia antropologica e immortali nella loro simbologia urbana, entrambi intenti a ricondursi alla propria quotidianità con sforzo encomiabile (gli smerci della “roba”) e a bighellonare tronfi nella loro disoccupazione ostentata.
La dialettica tra i due è funzionale a spingere la narrazione verso due moti divergenti, laddove Cesare, protagonista di una canzone ostinata alla disintegrazione, assume il ruolo archetipico della figura cieca incapace di vedere (e di vedersi) nella propria discesa verso lo sventramento psicofisico; Vittorio, controparte sana, smette, nonostante le ricadute, di ricalcare vecchi modelli malsani non appena la possibilità di un lavoro da manovale in un cantiere edile gli si presenta davanti. Il “non essere cattivo” ammicca a un monito, in fondo, paradossale, perché non v’è traccia di reale cattiveria in questa ballata per certi versi ingenua e naif. L’ammanto compassionevole di cui sono imbevuti collabora alla resa di un affresco discendente profondamente umano, redatto da un uomo che evidentemente conosce e ama gli outsider di cui narra.
L’ammonimento al tragico è, in fondo, imprescindibile per il genere della pellicola; in questo senso Caligari opera in modalità piuttosto procedurale e programmatica nella costruzione di una narrazione semplicissima e in sé per nulla memorabile. L’effetto straniante, semmai, è guardare un’opera di Caligari che della fotografia fa vanto estremo, lucidandone una patina altrimenti grezza, robotizzando (e incattivendo) tutto tramite inserti immaginifici ed estetizzanti, calcando su bruttura e volgarismo di certe ragazze perdute, insistendo sul basso, sulla soundtrack discotecara di fine anni ’90, su una mdp girovaga che aggira, e si addentra, sulla superficie coatta delle cose. La verniciatura notturna inscena persino un’allucinazione circense che si squarcia dal nero e agevola l’inserimento di situazioni tragicomiche e divagazioni che slabbrano completamente il sostrato funesto aleggiante.
Si può rimproverare, forse, oltre a un eccesso di prevedibilità strutturale, una chiusa che abbozza al lacrimevole e suona tanto da omaggio retorico piuttosto stonato. Commuove, invece, la volontà di essere sinfonia d’amore per questa natura umana tesa alla dispersione, all’auto-annientamento a corsia unica, nel dilaniarsi affaticato di un’esistenza. Indelebili le interpretazioni abbacinanti di Luca Marinelli e Alessandro Borghi.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Venezia 72, Film al cinema
Scheda tecnica
Regia: Claudio Caligari
Sceneggiatura: Claudio Caligari, Francesca Serafini, Giordano Meacci
Attori: Luca Marinelli, Alessandro Borghi, Silvia d’Amico, Roberta Mattei
Fotografia: Maurizio Calvesi
Anno: 2015
Durata: 100’
Uscita al cinema: 8 Settembre 2015
Non essere cattivo, di fondo, inizia ricollegandosi idealmente (e anche fattualmente) a quello che fu Amore tossico, incastrando i suoi ultimi antieroi (Cesare e Vittorio) sul litorale ostiense sul quale aveva lasciato i protagonisti erranti di vent’anni prima, a mangiarsi un gelato accasciati sul muretto di una spiaggia attonita, in osmosi alla decadenza delle case popolari e all’ingordigia di una vita che passa di fianco uccidendo a vista.
Non sembra cambiato poi molto, per Caligari e per Valerio Mastandrea (amico e produttore del film), da quella desolazione contaminata e dalla tela bianca che si dipingeva di sangue debordato dalla vena nel lontano 1983, anno del suo film-manifesto. La concezione è la medesima: sempre a sfondarsi di eroina (ma questa volta è la cocaina) tra le strade e i cantieri romani; sempre a lottare contro una vita brutale nell’unica maniera possibile; sempre a ricadere negli stessi schemi senza scampo, masticando una lingua ignorante e fedele a un verismo che accerchia gli individui facendone sbiadite impossibilità umane.
Questa volta, però, la visione corale e (neo)neorealista di un tempo vira decisa verso un plot meno destrutturato, che sceglie un passo a due per incanalare il motore tragico della vicenda. Cesare e Vittorio sono due amici cresciuti assieme che condividono pasticche e zuffe notturne, figli di una sporcizia antropologica e immortali nella loro simbologia urbana, entrambi intenti a ricondursi alla propria quotidianità con sforzo encomiabile (gli smerci della “roba”) e a bighellonare tronfi nella loro disoccupazione ostentata.
La dialettica tra i due è funzionale a spingere la narrazione verso due moti divergenti, laddove Cesare, protagonista di una canzone ostinata alla disintegrazione, assume il ruolo archetipico della figura cieca incapace di vedere (e di vedersi) nella propria discesa verso lo sventramento psicofisico; Vittorio, controparte sana, smette, nonostante le ricadute, di ricalcare vecchi modelli malsani non appena la possibilità di un lavoro da manovale in un cantiere edile gli si presenta davanti. Il “non essere cattivo” ammicca a un monito, in fondo, paradossale, perché non v’è traccia di reale cattiveria in questa ballata per certi versi ingenua e naif. L’ammanto compassionevole di cui sono imbevuti collabora alla resa di un affresco discendente profondamente umano, redatto da un uomo che evidentemente conosce e ama gli outsider di cui narra.
L’ammonimento al tragico è, in fondo, imprescindibile per il genere della pellicola; in questo senso Caligari opera in modalità piuttosto procedurale e programmatica nella costruzione di una narrazione semplicissima e in sé per nulla memorabile. L’effetto straniante, semmai, è guardare un’opera di Caligari che della fotografia fa vanto estremo, lucidandone una patina altrimenti grezza, robotizzando (e incattivendo) tutto tramite inserti immaginifici ed estetizzanti, calcando su bruttura e volgarismo di certe ragazze perdute, insistendo sul basso, sulla soundtrack discotecara di fine anni ’90, su una mdp girovaga che aggira, e si addentra, sulla superficie coatta delle cose. La verniciatura notturna inscena persino un’allucinazione circense che si squarcia dal nero e agevola l’inserimento di situazioni tragicomiche e divagazioni che slabbrano completamente il sostrato funesto aleggiante.
Si può rimproverare, forse, oltre a un eccesso di prevedibilità strutturale, una chiusa che abbozza al lacrimevole e suona tanto da omaggio retorico piuttosto stonato. Commuove, invece, la volontà di essere sinfonia d’amore per questa natura umana tesa alla dispersione, all’auto-annientamento a corsia unica, nel dilaniarsi affaticato di un’esistenza. Indelebili le interpretazioni abbacinanti di Luca Marinelli e Alessandro Borghi.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Venezia 72, Film al cinema
Scheda tecnica
Regia: Claudio Caligari
Sceneggiatura: Claudio Caligari, Francesca Serafini, Giordano Meacci
Attori: Luca Marinelli, Alessandro Borghi, Silvia d’Amico, Roberta Mattei
Fotografia: Maurizio Calvesi
Anno: 2015
Durata: 100’
Uscita al cinema: 8 Settembre 2015