Il Cinema, come una sonda aerea, micro e macroscopica, esplora la superficie (dell’arte, per l’arte) tramite la percezione ottica del reale: percezione, perché non si preoccupa di giungere al vero, ma vi si avvicina, sperando in una pulsazione sensoriale del pittorico, dello scultorio, dell’umano.
L’attesissima nuova opera di Aleksandr Sokurov, presentata quattro anni dopo il Leone d’Oro al Faust, è, previdentemente, un lavoro dal difficile dipanamento concettuale. La concentrazione temporale (87 lunghi minuti) inganna sulla fruizione istintiva di un’opera che si pone come oggetto di studio, nei molteplici sensi del termine. Opera come studio della cosa, e opera come studio di se stessa. Dopo la narrazione storica e letteraria, dopo il monumentale della tetralogia del potere (Moloch, Hitler, Taurus, Il Sole), ancora il potere, effettiva affezione del regista. Esattamente come ne il Faust, rilettura del romanzo (e dell’omonimo film di Murnau), nel quale lo spettro del potere, inteso come facoltà e desiderio di possesso, veniva liberamente immesso, distanziandosi dall’opera originale.
Chiarendo ciò che di più comprensibile vi è di questa tensione al concettuale, Francofonia si apre (anzi, si schiude) sbocciando su sfondi nero e bianco, paralleli e divergenti: udibili solo le voci della connessione uditiva e temporale tra mittente e destinatario. Il collegamento nell’era tecnologica avviene tra la postazione di un computer e la differita di una nave che trasporta opere museali; un incipit programmatico e in sé sufficiente.
Sokurov si immerge, infatti, nelle sale del Louvre, in maniera divergente e convergente, tentando di conciliare storia (del dominio politico), prospettiva epidermica dell’Arte e cinefilia, in un’angolatura a tratti semi-documentarista, a tratti sperimentale. È, in effetti, un assemblaggio, quasi un pastiche, ma coeso, di unione tra frammenti originari di operatori francesi che riprendono la vecchia Parigi (la Parigi liberata), prospettive aeree sulla Parigi contemporanea che non vuole esserlo e metacinema (numerosi i ciak di fronte alla mdp, e inserti in pieno stile informativo).
L’umanizzazione, quasi animistica, della città, incontra narratori vagabondi: Napoleone che osserva la ritrattistica che lo riguarda dispiegata all’interno delle solenni stanze museali; la Libertà, eterna figura femminile de “La libertà che guida il popolo” di Eugene Delacroix; soprattutto, il dialogo impossibile (come impossibile vuole essere il film) tra Jacques Jaujard, storico direttore del Louvre, e Klemens von Metternich, nazista in territorio francese, entrambi miracolosamente impegnati nell’impedire la razzia dei suppellettili artistici del repertorio europeo. L’Europa, dunque, e assolutamente la volontà di ravvivarne, recuperarne, inscriverne, tramite l’occhio, la Memoria, oasi infinitamente perdutasi. Il mezzo, un incontro di due intelletti prima e durante la Seconda Guerra Mondiale.
Un’ouverture splendida che a tratti si appanna nel cuore del lavoro, ove la necessità di rendere l’idea più discorsiva accorda l’accesso a espedienti visivi non sempre indovinati (cartine della Francia come evidenziatori che si sovrappongono a cartoline della città) e talvolta didascaliche ripetizioni sulla materia della storia franco-tedesca. Sokurov si lascia evidentemente possedere da un pathos vissuto in modalità del tutto viscerale, perdendosi talvolta nel ridondante e nell’ostentato. Certo, evocazioni dall’innegabile fascino visivo vi sono: esemplarmente tristi de-saturazioni nei toni fotografici. Una su tutte la contemplazione della Gioconda, in un gioco di occhiate che è di nuovo vivo e giocatosi tra Napoleone, Libertà e la Monna Lisa leonardesca.
L’intento qui vuole essere, soprattutto, un ammonimento sull’importanza dello sguardo, dell’osservazione ravvicinata, del lambire la fusione quasi ectoplasmatica tra uomo e oggetto. Sokurov desidera con impellenza squarciare quel Rinascimentale tanto agognato per tornare a viverne gli istanti, ora persi nelle macerie dei palazzi egizi e babilonesi distrutti sotto le bombe naziste.
La chiusa, un minuto di pure rumore fotografico e di grana coniugata in tonalità differenti, è una vera riverenza che nobilita la visione, nostalgicamente citazionista nel “FIN” della dipartita.
Non è miracolosa quest’opera sokuroviana, forse nemmeno splendida come molti avranno modo di dire. La stanchezza del lungo iato centrale ne soffoca le possibili diramazioni meno sfoggiate. Francofonia è, anche, un film ambizioso e, come tale, non smette di credere di poter essere, forse, troppe cose. Ne si evince la pulsione all’Eros e allo Thanatos di un regista che in passato ci ha concesso monumenti al Cinema anche superiori.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Venezia 72, Film al cinema
Scheda tecnica
Regia: Aleksandr Sokurov
Sceneggiatura: Aleksandr Sokurov
Attori: Louis Do de Lencquesaing, Benjamin Utzerath, Vincent Nemeth,
Fotografia: Bruno Delbonnel
Durata: 90’
Anno: 2015
Uscita: 16 dicembre 2015
L’attesissima nuova opera di Aleksandr Sokurov, presentata quattro anni dopo il Leone d’Oro al Faust, è, previdentemente, un lavoro dal difficile dipanamento concettuale. La concentrazione temporale (87 lunghi minuti) inganna sulla fruizione istintiva di un’opera che si pone come oggetto di studio, nei molteplici sensi del termine. Opera come studio della cosa, e opera come studio di se stessa. Dopo la narrazione storica e letteraria, dopo il monumentale della tetralogia del potere (Moloch, Hitler, Taurus, Il Sole), ancora il potere, effettiva affezione del regista. Esattamente come ne il Faust, rilettura del romanzo (e dell’omonimo film di Murnau), nel quale lo spettro del potere, inteso come facoltà e desiderio di possesso, veniva liberamente immesso, distanziandosi dall’opera originale.
Chiarendo ciò che di più comprensibile vi è di questa tensione al concettuale, Francofonia si apre (anzi, si schiude) sbocciando su sfondi nero e bianco, paralleli e divergenti: udibili solo le voci della connessione uditiva e temporale tra mittente e destinatario. Il collegamento nell’era tecnologica avviene tra la postazione di un computer e la differita di una nave che trasporta opere museali; un incipit programmatico e in sé sufficiente.
Sokurov si immerge, infatti, nelle sale del Louvre, in maniera divergente e convergente, tentando di conciliare storia (del dominio politico), prospettiva epidermica dell’Arte e cinefilia, in un’angolatura a tratti semi-documentarista, a tratti sperimentale. È, in effetti, un assemblaggio, quasi un pastiche, ma coeso, di unione tra frammenti originari di operatori francesi che riprendono la vecchia Parigi (la Parigi liberata), prospettive aeree sulla Parigi contemporanea che non vuole esserlo e metacinema (numerosi i ciak di fronte alla mdp, e inserti in pieno stile informativo).
L’umanizzazione, quasi animistica, della città, incontra narratori vagabondi: Napoleone che osserva la ritrattistica che lo riguarda dispiegata all’interno delle solenni stanze museali; la Libertà, eterna figura femminile de “La libertà che guida il popolo” di Eugene Delacroix; soprattutto, il dialogo impossibile (come impossibile vuole essere il film) tra Jacques Jaujard, storico direttore del Louvre, e Klemens von Metternich, nazista in territorio francese, entrambi miracolosamente impegnati nell’impedire la razzia dei suppellettili artistici del repertorio europeo. L’Europa, dunque, e assolutamente la volontà di ravvivarne, recuperarne, inscriverne, tramite l’occhio, la Memoria, oasi infinitamente perdutasi. Il mezzo, un incontro di due intelletti prima e durante la Seconda Guerra Mondiale.
Un’ouverture splendida che a tratti si appanna nel cuore del lavoro, ove la necessità di rendere l’idea più discorsiva accorda l’accesso a espedienti visivi non sempre indovinati (cartine della Francia come evidenziatori che si sovrappongono a cartoline della città) e talvolta didascaliche ripetizioni sulla materia della storia franco-tedesca. Sokurov si lascia evidentemente possedere da un pathos vissuto in modalità del tutto viscerale, perdendosi talvolta nel ridondante e nell’ostentato. Certo, evocazioni dall’innegabile fascino visivo vi sono: esemplarmente tristi de-saturazioni nei toni fotografici. Una su tutte la contemplazione della Gioconda, in un gioco di occhiate che è di nuovo vivo e giocatosi tra Napoleone, Libertà e la Monna Lisa leonardesca.
L’intento qui vuole essere, soprattutto, un ammonimento sull’importanza dello sguardo, dell’osservazione ravvicinata, del lambire la fusione quasi ectoplasmatica tra uomo e oggetto. Sokurov desidera con impellenza squarciare quel Rinascimentale tanto agognato per tornare a viverne gli istanti, ora persi nelle macerie dei palazzi egizi e babilonesi distrutti sotto le bombe naziste.
La chiusa, un minuto di pure rumore fotografico e di grana coniugata in tonalità differenti, è una vera riverenza che nobilita la visione, nostalgicamente citazionista nel “FIN” della dipartita.
Non è miracolosa quest’opera sokuroviana, forse nemmeno splendida come molti avranno modo di dire. La stanchezza del lungo iato centrale ne soffoca le possibili diramazioni meno sfoggiate. Francofonia è, anche, un film ambizioso e, come tale, non smette di credere di poter essere, forse, troppe cose. Ne si evince la pulsione all’Eros e allo Thanatos di un regista che in passato ci ha concesso monumenti al Cinema anche superiori.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Venezia 72, Film al cinema
Scheda tecnica
Regia: Aleksandr Sokurov
Sceneggiatura: Aleksandr Sokurov
Attori: Louis Do de Lencquesaing, Benjamin Utzerath, Vincent Nemeth,
Fotografia: Bruno Delbonnel
Durata: 90’
Anno: 2015
Uscita: 16 dicembre 2015