L’occhio si ferma sul dolore. Un dolore che s’incarna nel magma di un calcareo paesaggio, fatto di roccia, di fango e melma, di distese saturate e allucinanti, di sovraesposizione carnale dell’immagine del mondo. Il mondo come specchio di una disperazione inestirpabile dalla materia.
Behemoth dischiude le proprie palpebre su un sogno di colore abbagliato, accecato da un’impressione che vuole stoccare una sfilettata sorda ma al contempo avvenente, per il limbo compiaciuto della mente osservante. È la sensazione di una visione lucida e vivida come un’eclissi solare totalizzante che accoglie lo sfibramento psicofisico dei manovali nella Mongolia contemporanea.
Il documentarismo di Zhao Liang muove da evidenti radici di sperimentazione concettuale ed esperienze nella video arte, rarefacendosi in un progetto compatto che s’affranca da intenti di tipo strettamente informativo e osservativo per abbracciare una concezione intertestuale di opera poco socio-culturale e più apoditticamente visuale, che vaga sull’estetica dell’immagine per riproporre uno superficie riflettente di alterazione (quasi) chimica e para-industriale di una sorta di fenomenologia del reale. La fisicità diventa scalino per una deformazione soggettiva dell’istanza tangibile ed immanente del mondo, osservato da occhi provati dal sudore e dal deperimento, figlio di lavori meccanici e disumanizzanti.
L’opera di Liang ha evidenti pretese oniriche e si rimodella su una tripartizione poetica che guarda alla Divina Commedia come mossa per una suddivisione in gironi, dall’inferno delle montagne dove operano gli estrattori di carbone, al purgatorio di una pneumoconiosi che travalica gli organi e collassa i polmoni, fino a un Paradiso asettico e detergente di palazzoni lividi e inabitati, la cui intoccabilità determina un fantasmatico risanamento, ma il cui potenziale non è (e non sarà) a loro destinato.
Per chi s’imbratta il volto di cenere e di sozzura, l’unico sterile piacere consiste in un orizzonte pulito di strade desertificate e grattacieli zombificati, e in un campo sterminato ove l’uomo nudo possa stendersi e regredire alla posizione fetale. L’infernale metafisica dello sfruttamento fisico giunge ad allucinare, ad assorbire il cromatico nello schermo rosso trangugiante, a divorare (e vomitare, dissolvendosi in uscita) una sinfonia paleolitica della disumanizzazione febbricitante, con picconi e trivelle e perforatrici a sincopare la ritmica in un’assordante eco di cacofonica (e armonica) fusione semi-musicale.
È un bacino che inonda, letteralmente, quello di Liang, che ammicca al potere perforante e perturbante dell’impressione cinematografica, con voce off a inserire fughe elegiache e ad accennare una narrazione che attribuisce metafisicità al lavoro e distacco netto da un report fruibile in senso divulgativo o ancorato alla qualità indicativa delle immagini. La metaforica giustapposizione tra struttura lirica, realismo della meccanica del lavoro e simbolismo immaginifico – si pensi all’errante cinese che trascina dietro di sé lo specchio (di ciò che vede? di ciò che non potrà mai vedere?) – configura un universo di forte impatto visivo, a partire da quel titolo che tanto significativo è: Behemoth, mostro biblico d’incommensurabile forza e demonismo, riflette la propria entità in quella degli esseri dispersi e votati alla schiavitù lavorativa.
La lettura viene inficiata, tuttavia, da un mancante sostrato antropologico realizzato a più piani, da un’apertura alla profondità che avrebbe smussato il ricercato impianto estetico e la tensione alla raffinatezza del quadro, destinando l’opera a un’interpretazione più istintiva e d’effetto, che di reale approfondimento sociologico e permanente. Le soluzioni sono certamente interessanti, a partire dai prismi che dissezionano le catene montuose, rendendole spaccati di un’interiorità che si riflette nel visivo.
L’opera di Liang rischia però di rimanere sempre un gradino distante dall’epicentro a ridosso del cuore documentaristico, sfondando nella video art e perdendo di vista una stratificazione auspicabilmente più significativa. Eppure, la percezione è quella di ritrovarsi di fronte a un lavoro di rilievo, istintivamente pregnante, d’impatto illusorio e crudo nel medesimo istante.
Un appello, una ricerca, un atto di affezione e di attenzione nei confronti di una realtà pedissequamente ignorata, quella di chi sogna un paradiso, dantesco o meno, che possa riconciliare lo strappo tra sopravvivenza e vita.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Venezia 72
Scheda tecnica
Titolo originale: Bei xi mo shou
Regista: Liang Zhao
Sceneggiatura: Zhao Liang, Sylvie Blum
Attori: Zhao Liang (narratore)
Fotografia: Zhao Liang
Anno: 2015
Durata: 95’
Behemoth dischiude le proprie palpebre su un sogno di colore abbagliato, accecato da un’impressione che vuole stoccare una sfilettata sorda ma al contempo avvenente, per il limbo compiaciuto della mente osservante. È la sensazione di una visione lucida e vivida come un’eclissi solare totalizzante che accoglie lo sfibramento psicofisico dei manovali nella Mongolia contemporanea.
Il documentarismo di Zhao Liang muove da evidenti radici di sperimentazione concettuale ed esperienze nella video arte, rarefacendosi in un progetto compatto che s’affranca da intenti di tipo strettamente informativo e osservativo per abbracciare una concezione intertestuale di opera poco socio-culturale e più apoditticamente visuale, che vaga sull’estetica dell’immagine per riproporre uno superficie riflettente di alterazione (quasi) chimica e para-industriale di una sorta di fenomenologia del reale. La fisicità diventa scalino per una deformazione soggettiva dell’istanza tangibile ed immanente del mondo, osservato da occhi provati dal sudore e dal deperimento, figlio di lavori meccanici e disumanizzanti.
L’opera di Liang ha evidenti pretese oniriche e si rimodella su una tripartizione poetica che guarda alla Divina Commedia come mossa per una suddivisione in gironi, dall’inferno delle montagne dove operano gli estrattori di carbone, al purgatorio di una pneumoconiosi che travalica gli organi e collassa i polmoni, fino a un Paradiso asettico e detergente di palazzoni lividi e inabitati, la cui intoccabilità determina un fantasmatico risanamento, ma il cui potenziale non è (e non sarà) a loro destinato.
Per chi s’imbratta il volto di cenere e di sozzura, l’unico sterile piacere consiste in un orizzonte pulito di strade desertificate e grattacieli zombificati, e in un campo sterminato ove l’uomo nudo possa stendersi e regredire alla posizione fetale. L’infernale metafisica dello sfruttamento fisico giunge ad allucinare, ad assorbire il cromatico nello schermo rosso trangugiante, a divorare (e vomitare, dissolvendosi in uscita) una sinfonia paleolitica della disumanizzazione febbricitante, con picconi e trivelle e perforatrici a sincopare la ritmica in un’assordante eco di cacofonica (e armonica) fusione semi-musicale.
È un bacino che inonda, letteralmente, quello di Liang, che ammicca al potere perforante e perturbante dell’impressione cinematografica, con voce off a inserire fughe elegiache e ad accennare una narrazione che attribuisce metafisicità al lavoro e distacco netto da un report fruibile in senso divulgativo o ancorato alla qualità indicativa delle immagini. La metaforica giustapposizione tra struttura lirica, realismo della meccanica del lavoro e simbolismo immaginifico – si pensi all’errante cinese che trascina dietro di sé lo specchio (di ciò che vede? di ciò che non potrà mai vedere?) – configura un universo di forte impatto visivo, a partire da quel titolo che tanto significativo è: Behemoth, mostro biblico d’incommensurabile forza e demonismo, riflette la propria entità in quella degli esseri dispersi e votati alla schiavitù lavorativa.
La lettura viene inficiata, tuttavia, da un mancante sostrato antropologico realizzato a più piani, da un’apertura alla profondità che avrebbe smussato il ricercato impianto estetico e la tensione alla raffinatezza del quadro, destinando l’opera a un’interpretazione più istintiva e d’effetto, che di reale approfondimento sociologico e permanente. Le soluzioni sono certamente interessanti, a partire dai prismi che dissezionano le catene montuose, rendendole spaccati di un’interiorità che si riflette nel visivo.
L’opera di Liang rischia però di rimanere sempre un gradino distante dall’epicentro a ridosso del cuore documentaristico, sfondando nella video art e perdendo di vista una stratificazione auspicabilmente più significativa. Eppure, la percezione è quella di ritrovarsi di fronte a un lavoro di rilievo, istintivamente pregnante, d’impatto illusorio e crudo nel medesimo istante.
Un appello, una ricerca, un atto di affezione e di attenzione nei confronti di una realtà pedissequamente ignorata, quella di chi sogna un paradiso, dantesco o meno, che possa riconciliare lo strappo tra sopravvivenza e vita.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Venezia 72
Scheda tecnica
Titolo originale: Bei xi mo shou
Regista: Liang Zhao
Sceneggiatura: Zhao Liang, Sylvie Blum
Attori: Zhao Liang (narratore)
Fotografia: Zhao Liang
Anno: 2015
Durata: 95’