Jerzy Skolimowski è un signore di 77 anni. Ha all’attivo una carriera cinematografica non prolissa ma consistente, spaventosamente sconosciuta se non agli onnivori di immagini, un paio di film imprescindibili – La ragazza del bagno pubblico e Le dèpart (diventato odiosamente Il vergine) – e una carrellata di lavori notevoli, ma sovente scivolati in sordina. Ebbene, a 77 anni Skolimowski gira questo lavoro acutissimo e perfettamente oliato che è 11 minutes, portandolo in concorso a Venezia, così com’era stato per il precedente Essential Killing, vincitore del Leone d’Argento nel 2010.
11 Minutes è un gioco dichiarato, un’ora di elucubrazione circolare, di incastri e di rimandi spesso non-sense, funzionali soltanto a essere un antefatto in perpetua dilatazione a preparare l’ascesa parodica finale. Intersecando personaggi volutamente stereotipati (il regista, l’attrice avvenente, un marito geloso, il venditore di hot dog, il motociclista cocainomane, il ladruncolo spiantato, e così via) che intorno alle 17:00 fanno qualcosa (ma cosa?), alle volte s’incrociano ma non si conoscono, organizza una parata di futuri teatranti che convergeranno nell’epilogo catastrofico, in quella nebulosa grigia che estirpa la definizione; un finale strabordante, che canzona l’ostentato slow-motion delle macchinette hollywoodiane che tanto si prendono sul serio. Skolimowski intreccia un pretesto, una tensione al cogliere la compresenza del tempo tramite un solo concetto, quello del concatenamento casuale come materia ultima del presente.
Poi, alla fine, un’amputazione clamorosa e sorda di immagini che diventano altre immagini che diventano finalmente punti che scoprono le loro ossa: riprese da telecamere di servizio a rimpicciolirsi, mosaici infiniti, indefiniti, puro rumore. La compresenza di un’affermazione e di una negazione: l’immagine è e non è, insieme, sempre. È l’interruzione della trasmissione, l’annullamento (al contempo la massima panoramica possibile su tutti gli infiniti eventi che una camera può riprendere) e un perentorio pixel nero a lato del quadro, un pixel che c’era sempre stato, come reminder di una falla in potenza, di quel caso a cui non si sa dare nome e per cui siamo fisiologicamente ciechi.
Skolimowski retrocede da lì. Dalla macchia di un pittore cadutagli sul foglio bianco, distratto dalla visione di un uomo in procinto di buttarsi da un ponte. Massimo ghigno dolceamaro, l’uomo è uno stuntman, la tragedia non c’è, ma la macchia sì, e il pittore non lo saprà mai. Tanto basta a rovinare il quadro.
Trasversalmente alla riflessività e all’impianto ludico (puro anti-thriller), Skolimowski ammicca sovente con la mdp e con la traccia sonora, valorizzando massimamente il fragore, la perturbazione (veicolata dall’aereo che seziona orizzontalmente l’inquadratura), ovvero l’incidente in decibel, sordo come il pixel, che preme, avvisaglia di un buco nero a venire. Montaggio fluido e avvenente, scherzi in cabina di regia che decidono un’ulteriore comparsa, nell’affastellamento dei moti umani che attraversano la città: la soggettiva, ricercata e frequente, di un cane. Skolimowski ci ricorda che, in fondo, è tutto solo un gioco.
11 Minutes è, essenzialmente, una dichiarazione di credo, un’apologia all’immagine in sé, come moltiplicazione potenziale di possibili accidentali (re)visioni, dove esiste solo il cinema di oggi, dove esiste solo il codice binario, a susseguirsi di 0 e 1, in uno dei 16 777 216 formati di colore immaginabile; ma, soprattutto, dove la vita fa difetto, per caso, addensatasi in un pixel nero (bruciato, irrecuperabile, immaterialmente estintosi).
Insomma, Skolimowski ritorna sempre a quello snodo cruciale e dialettico del rapporto tra cinema e vita, irriducibili eppure vicinissimi, laddove un pixel che si rompe acquisisce il significato di una frazione di secondo reale, senza differita, dove c’è l’auto-combustione, l’esplosione (o implosione?), il disaster-movie finale. Ogni cosa per un’inafferrabile concomitanza di forze meccaniche e ideali.
Sono (e siamo) solo incidenti in attesa di verificarsi.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Venezia 72
Scheda tecnica
Titolo originale: 11 minut
Regista: Jerzy Skolimowski
Sceneggiatura: Jerzy Skolimowski
Attori: Agata Buzek Richard Dormer
Fotografia: Mikołaj Łebkowski
Anno: 2015
Durata: 81’
Uscita al cinema: 23 ottobre (Polonia)
11 Minutes è un gioco dichiarato, un’ora di elucubrazione circolare, di incastri e di rimandi spesso non-sense, funzionali soltanto a essere un antefatto in perpetua dilatazione a preparare l’ascesa parodica finale. Intersecando personaggi volutamente stereotipati (il regista, l’attrice avvenente, un marito geloso, il venditore di hot dog, il motociclista cocainomane, il ladruncolo spiantato, e così via) che intorno alle 17:00 fanno qualcosa (ma cosa?), alle volte s’incrociano ma non si conoscono, organizza una parata di futuri teatranti che convergeranno nell’epilogo catastrofico, in quella nebulosa grigia che estirpa la definizione; un finale strabordante, che canzona l’ostentato slow-motion delle macchinette hollywoodiane che tanto si prendono sul serio. Skolimowski intreccia un pretesto, una tensione al cogliere la compresenza del tempo tramite un solo concetto, quello del concatenamento casuale come materia ultima del presente.
Poi, alla fine, un’amputazione clamorosa e sorda di immagini che diventano altre immagini che diventano finalmente punti che scoprono le loro ossa: riprese da telecamere di servizio a rimpicciolirsi, mosaici infiniti, indefiniti, puro rumore. La compresenza di un’affermazione e di una negazione: l’immagine è e non è, insieme, sempre. È l’interruzione della trasmissione, l’annullamento (al contempo la massima panoramica possibile su tutti gli infiniti eventi che una camera può riprendere) e un perentorio pixel nero a lato del quadro, un pixel che c’era sempre stato, come reminder di una falla in potenza, di quel caso a cui non si sa dare nome e per cui siamo fisiologicamente ciechi.
Skolimowski retrocede da lì. Dalla macchia di un pittore cadutagli sul foglio bianco, distratto dalla visione di un uomo in procinto di buttarsi da un ponte. Massimo ghigno dolceamaro, l’uomo è uno stuntman, la tragedia non c’è, ma la macchia sì, e il pittore non lo saprà mai. Tanto basta a rovinare il quadro.
Trasversalmente alla riflessività e all’impianto ludico (puro anti-thriller), Skolimowski ammicca sovente con la mdp e con la traccia sonora, valorizzando massimamente il fragore, la perturbazione (veicolata dall’aereo che seziona orizzontalmente l’inquadratura), ovvero l’incidente in decibel, sordo come il pixel, che preme, avvisaglia di un buco nero a venire. Montaggio fluido e avvenente, scherzi in cabina di regia che decidono un’ulteriore comparsa, nell’affastellamento dei moti umani che attraversano la città: la soggettiva, ricercata e frequente, di un cane. Skolimowski ci ricorda che, in fondo, è tutto solo un gioco.
11 Minutes è, essenzialmente, una dichiarazione di credo, un’apologia all’immagine in sé, come moltiplicazione potenziale di possibili accidentali (re)visioni, dove esiste solo il cinema di oggi, dove esiste solo il codice binario, a susseguirsi di 0 e 1, in uno dei 16 777 216 formati di colore immaginabile; ma, soprattutto, dove la vita fa difetto, per caso, addensatasi in un pixel nero (bruciato, irrecuperabile, immaterialmente estintosi).
Insomma, Skolimowski ritorna sempre a quello snodo cruciale e dialettico del rapporto tra cinema e vita, irriducibili eppure vicinissimi, laddove un pixel che si rompe acquisisce il significato di una frazione di secondo reale, senza differita, dove c’è l’auto-combustione, l’esplosione (o implosione?), il disaster-movie finale. Ogni cosa per un’inafferrabile concomitanza di forze meccaniche e ideali.
Sono (e siamo) solo incidenti in attesa di verificarsi.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Venezia 72
Scheda tecnica
Titolo originale: 11 minut
Regista: Jerzy Skolimowski
Sceneggiatura: Jerzy Skolimowski
Attori: Agata Buzek Richard Dormer
Fotografia: Mikołaj Łebkowski
Anno: 2015
Durata: 81’
Uscita al cinema: 23 ottobre (Polonia)