Brillante Mendoza, filippino classe 1960, nel 2009 vincitore del premio al miglior regista a Cannes e più volte presente alla Mostra di Venezia, tornava nella 69esima edizione del festival francese con Ma’ Rosa, ora al 34° TFF, dramma dagli snodi narrativi volutamente tenui che, partendo dalle condizioni di disagio economico/sociale della metropoli asiatica, muove fino alla denuncia degli stessi prendendo ad exemplum il racconto morale di una donna, Rosa, e della sua famiglia.
Muovendo da un’idea apparentemente priva di potenzialità di sviluppo, Mendoza inscena tramite il proverbiale taglio finto-amatoriale e disordinato, la disavventura di Rosa e del marito, proprietari di uno dei tanti chioschi che vendono alimentari ai lati delle strade gremite di Manila. Le difficoltà economiche sono tali che la vendita dei beni di vario genere non è sufficiente a sostentare Rosa e i suoi figli: questa tragedia familiare in sottrazione prende, infatti, piede da una retata della polizia che rinviene all’interno del negozio le bustine di “ghiaccio” (così è citato il narcotico venduto illegalmente) che Rosa sfrutta per procacciarsi le provviste di prima necessità. Il punto di vista diviene evidentemente moralizzato, quando al loro arresto coincide una lunga sezione centrale ambientata nel commissariato dove le depressioni corrotte delle istituzioni non esitano a mettersi in evidenzia; i poliziotti, non poi così sorprendentemente, saranno i primi a pretendere una lauta ricompensa spacciata per cauzione e a servirsi di minacce per pervenire al nome dello spacciatore che rifornisce la famiglia.
Quel che sembra stare a cuore al regista filippino, oltre che fare di una donna – protagonista metafora di disperazione e indigenza, è la difesa di un certo tipo di valori generati dall’affiliazione di un popolo segnato dagli stenti che non esita a dar prova di vicendevole solidarietà (i figli e gli amici di “Mamma Rosa” non esitano a ricorre ad ogni espediente pur di recuperarle il denaro necessario, prostituzione compresa).
Al di là degli apparati alti di un sistema marcio che, a sua volta, è sintomo di una malattia ben più congenita e vorace di quella circoscritta alla miseria della classe bassa, il contenuto d’ispirazione neorealista, svuotato da influssi d’impegno nettamente politico, guarda alle proprie genti con occhio partecipe e accalorato, catturato dal formicaio umano che delle pellicole mendoziane è ormai diventato marchio autoriale. Tutti sono, dunque, costretti ad agire come possono, intrappolati in un cortocircuito sociale che impedisce spesso d’impugnare la via legale per la sopravvivenza, ed è quanto Mendoza imprime all’opera sigillandola con un’inquadratura finale di Rosa in grado di chiudere il cerchio: a lei rimane soltanto di guardare affranta la sua vita sui volti e i gesti di qualcun altro, su un altro negozio, dall’altra parte della strada.
Quello di Mendoza è un realismo che si appoggia a una fotografia naturalistica (e nelle notturne capace di grande atmosfera) e a una regia il cui impatto informe e disarmonico è invero figlio di una calcolata composizione visiva, più equilibrata e pensata di quanto finga d’essere. La fedele macchina a mano, barcollante e ondeggiante, tesa a farsi sentire come corpo ingombrante, è in grado di imprimere a una vicenda non memorabile una forma in verità estetizzante, solo ingannevolmente figlia di un caos in cabina di regia: Mendoza è, anzi, concettualmente immerso nel trambusto di una società sfilacciata e votata alla perdita, con il suo occhio girovago, con le sue angolazioni spesso oblique e allucinate, eppur assolutamente armoniche e non raramente iconiche.
Un procedimento che con un certo neorealismo vecchia maniera non ha poco da spartire (seppur attingendo formalmente a quella wave che a inizio millennio riscopre la macchina a mano e l’effetto-reportage): Mendoza non disdegna gli attori non professionisti, si appoggia a una sceneggiatura aperta e mobile, ricerca la presa diretta, la spontaneità delle interazioni sul “set”, la verità di osservazione e l’effetto-immersione di una realtà aumentata nella quale trovarsi dirimpetto anche a movimenti bruschi. Mendoza ha, insomma, un’idea di come “fare cinema” strutturata e forse limitata nel suo non riuscire, a distanza di anni, ad uscire da se stessa, a ricercare differenti corsie per ottenere la veicolazione di un medesimo messaggio. Eppure, le eccentricità e le diramazioni mobili del suo muoversi intorno ai personaggi e al tangibile rimangono un modus peculiare e personalissimo a cui applaudire senza mezzi termini, per il fascino atmosferico e il ritratto antropologico che sembrano riuscire a dare. Questo Ma’ Rosa non fa eccezione.
Non sbaglia Cannes a premiare Jaclyn Jose (migliore attrice) per la sua interpretazione mai sopra le righe, sfacciatamente ruvida e verosimile, merito anche di una detonazione emotiva in conclusione accolta ingordamente da Mendoza, che sosta sul suo volto rigato di lacrime, imprigionandola nel simbolo di un’impotenza esistenziale estendibile a un intero popolo.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Torino 34
Scheda tecnica
Titolo originale: Ma’ Rosa
Regia: Brillante Mendoza
Sceneggiatura: Troy Espiritu
Interpreti principali: Jaclyn Jose, Julio Diaz, Andi Eigenmann, Felix Roco, Kristofer King, Mercedes Cabral, Jomari Angeles
Fotografia: Odyssey Flores
Musiche: Teresa Barrozo
Durata: 110’
Anno: 2016
Muovendo da un’idea apparentemente priva di potenzialità di sviluppo, Mendoza inscena tramite il proverbiale taglio finto-amatoriale e disordinato, la disavventura di Rosa e del marito, proprietari di uno dei tanti chioschi che vendono alimentari ai lati delle strade gremite di Manila. Le difficoltà economiche sono tali che la vendita dei beni di vario genere non è sufficiente a sostentare Rosa e i suoi figli: questa tragedia familiare in sottrazione prende, infatti, piede da una retata della polizia che rinviene all’interno del negozio le bustine di “ghiaccio” (così è citato il narcotico venduto illegalmente) che Rosa sfrutta per procacciarsi le provviste di prima necessità. Il punto di vista diviene evidentemente moralizzato, quando al loro arresto coincide una lunga sezione centrale ambientata nel commissariato dove le depressioni corrotte delle istituzioni non esitano a mettersi in evidenzia; i poliziotti, non poi così sorprendentemente, saranno i primi a pretendere una lauta ricompensa spacciata per cauzione e a servirsi di minacce per pervenire al nome dello spacciatore che rifornisce la famiglia.
Quel che sembra stare a cuore al regista filippino, oltre che fare di una donna – protagonista metafora di disperazione e indigenza, è la difesa di un certo tipo di valori generati dall’affiliazione di un popolo segnato dagli stenti che non esita a dar prova di vicendevole solidarietà (i figli e gli amici di “Mamma Rosa” non esitano a ricorre ad ogni espediente pur di recuperarle il denaro necessario, prostituzione compresa).
Al di là degli apparati alti di un sistema marcio che, a sua volta, è sintomo di una malattia ben più congenita e vorace di quella circoscritta alla miseria della classe bassa, il contenuto d’ispirazione neorealista, svuotato da influssi d’impegno nettamente politico, guarda alle proprie genti con occhio partecipe e accalorato, catturato dal formicaio umano che delle pellicole mendoziane è ormai diventato marchio autoriale. Tutti sono, dunque, costretti ad agire come possono, intrappolati in un cortocircuito sociale che impedisce spesso d’impugnare la via legale per la sopravvivenza, ed è quanto Mendoza imprime all’opera sigillandola con un’inquadratura finale di Rosa in grado di chiudere il cerchio: a lei rimane soltanto di guardare affranta la sua vita sui volti e i gesti di qualcun altro, su un altro negozio, dall’altra parte della strada.
Quello di Mendoza è un realismo che si appoggia a una fotografia naturalistica (e nelle notturne capace di grande atmosfera) e a una regia il cui impatto informe e disarmonico è invero figlio di una calcolata composizione visiva, più equilibrata e pensata di quanto finga d’essere. La fedele macchina a mano, barcollante e ondeggiante, tesa a farsi sentire come corpo ingombrante, è in grado di imprimere a una vicenda non memorabile una forma in verità estetizzante, solo ingannevolmente figlia di un caos in cabina di regia: Mendoza è, anzi, concettualmente immerso nel trambusto di una società sfilacciata e votata alla perdita, con il suo occhio girovago, con le sue angolazioni spesso oblique e allucinate, eppur assolutamente armoniche e non raramente iconiche.
Un procedimento che con un certo neorealismo vecchia maniera non ha poco da spartire (seppur attingendo formalmente a quella wave che a inizio millennio riscopre la macchina a mano e l’effetto-reportage): Mendoza non disdegna gli attori non professionisti, si appoggia a una sceneggiatura aperta e mobile, ricerca la presa diretta, la spontaneità delle interazioni sul “set”, la verità di osservazione e l’effetto-immersione di una realtà aumentata nella quale trovarsi dirimpetto anche a movimenti bruschi. Mendoza ha, insomma, un’idea di come “fare cinema” strutturata e forse limitata nel suo non riuscire, a distanza di anni, ad uscire da se stessa, a ricercare differenti corsie per ottenere la veicolazione di un medesimo messaggio. Eppure, le eccentricità e le diramazioni mobili del suo muoversi intorno ai personaggi e al tangibile rimangono un modus peculiare e personalissimo a cui applaudire senza mezzi termini, per il fascino atmosferico e il ritratto antropologico che sembrano riuscire a dare. Questo Ma’ Rosa non fa eccezione.
Non sbaglia Cannes a premiare Jaclyn Jose (migliore attrice) per la sua interpretazione mai sopra le righe, sfacciatamente ruvida e verosimile, merito anche di una detonazione emotiva in conclusione accolta ingordamente da Mendoza, che sosta sul suo volto rigato di lacrime, imprigionandola nel simbolo di un’impotenza esistenziale estendibile a un intero popolo.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Torino 34
Scheda tecnica
Titolo originale: Ma’ Rosa
Regia: Brillante Mendoza
Sceneggiatura: Troy Espiritu
Interpreti principali: Jaclyn Jose, Julio Diaz, Andi Eigenmann, Felix Roco, Kristofer King, Mercedes Cabral, Jomari Angeles
Fotografia: Odyssey Flores
Musiche: Teresa Barrozo
Durata: 110’
Anno: 2016