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TORINO 34 - Ma' Rosa, di Brillante Mendoza

30/11/2016

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​Brillante Mendoza, filippino classe 1960, nel 2009 vincitore del premio al miglior regista a Cannes e più volte presente alla Mostra di Venezia, tornava nella 69esima edizione del festival francese con Ma’ Rosa, ora al 34° TFF, dramma dagli snodi narrativi volutamente tenui che, partendo dalle condizioni di disagio economico/sociale della metropoli asiatica, muove fino alla denuncia degli stessi prendendo ad exemplum il racconto morale di una donna, Rosa, e della sua famiglia. 
Muovendo da un’idea apparentemente priva di potenzialità di sviluppo, Mendoza inscena tramite il proverbiale taglio finto-amatoriale e disordinato, la disavventura di Rosa e del marito, proprietari di uno dei tanti chioschi che vendono alimentari ai lati delle strade gremite di Manila. Le difficoltà economiche sono tali che la vendita dei beni di vario genere non è sufficiente a sostentare Rosa e i suoi figli: questa tragedia familiare in sottrazione prende, infatti, piede da una retata della polizia che rinviene all’interno del negozio le bustine di “ghiaccio” (così è citato il narcotico venduto illegalmente) che Rosa sfrutta per procacciarsi le provviste di prima necessità. Il punto di vista diviene evidentemente moralizzato, quando al loro arresto coincide una lunga sezione centrale ambientata nel commissariato dove le depressioni corrotte delle istituzioni non esitano a mettersi in evidenzia; i poliziotti, non poi così sorprendentemente, saranno i primi a pretendere una lauta ricompensa spacciata per cauzione e a servirsi di minacce per pervenire al nome dello spacciatore che rifornisce la famiglia. 
Quel che sembra stare a cuore al regista filippino, oltre che fare di una donna – protagonista metafora di disperazione e indigenza, è la difesa di un certo tipo di valori generati dall’affiliazione di un popolo segnato dagli stenti che non esita a dar prova di vicendevole solidarietà (i figli e gli amici di “Mamma Rosa” non esitano a ricorre ad ogni espediente pur di recuperarle il denaro necessario, prostituzione compresa). 
Al di là degli apparati alti di un sistema marcio che, a sua volta, è sintomo di una malattia ben più congenita e vorace di quella circoscritta alla miseria della classe bassa, il contenuto d’ispirazione neorealista, svuotato da influssi d’impegno nettamente politico, guarda alle proprie genti con occhio partecipe e accalorato, catturato dal formicaio umano che delle pellicole mendoziane è ormai diventato marchio autoriale. Tutti sono, dunque, costretti ad agire come possono, intrappolati in un cortocircuito sociale che impedisce spesso d’impugnare la via legale per la sopravvivenza, ed è quanto Mendoza imprime all’opera sigillandola con un’inquadratura finale di Rosa in grado di chiudere il cerchio: a lei rimane soltanto di guardare affranta la sua vita sui volti e i gesti di qualcun altro, su un altro negozio, dall’altra parte della strada. 
Quello di Mendoza è un realismo che si appoggia a una fotografia naturalistica (e nelle notturne capace di grande atmosfera) e a una regia il cui impatto informe e disarmonico è invero figlio di una calcolata composizione visiva, più equilibrata e pensata di quanto finga d’essere. La fedele macchina a mano, barcollante e ondeggiante, tesa a farsi sentire come corpo ingombrante, è in grado di imprimere a una vicenda non memorabile una forma in verità estetizzante, solo ingannevolmente figlia di un caos in cabina di regia: Mendoza è, anzi, concettualmente immerso nel trambusto di una società sfilacciata e votata alla perdita, con il suo occhio girovago, con le sue angolazioni spesso oblique e allucinate, eppur assolutamente armoniche e non raramente iconiche. 
Un procedimento che con un certo neorealismo vecchia maniera non ha poco da spartire (seppur attingendo formalmente a quella wave che a inizio millennio riscopre la macchina a mano e l’effetto-reportage): Mendoza non disdegna gli attori non professionisti, si appoggia a una sceneggiatura aperta e mobile, ricerca la presa diretta, la spontaneità delle interazioni sul “set”, la verità di osservazione e l’effetto-immersione di una realtà aumentata nella quale trovarsi dirimpetto anche a movimenti bruschi. Mendoza ha, insomma, un’idea di come “fare cinema” strutturata e forse limitata nel suo non riuscire, a distanza di anni, ad uscire da se stessa, a ricercare differenti corsie per ottenere la veicolazione di un medesimo messaggio. Eppure, le eccentricità e le diramazioni mobili del suo muoversi intorno ai personaggi e al tangibile rimangono un modus peculiare e personalissimo a cui applaudire senza mezzi termini, per il fascino atmosferico e il ritratto antropologico che sembrano riuscire a dare. Questo Ma’ Rosa non fa eccezione. 
Non sbaglia Cannes a premiare Jaclyn Jose (migliore attrice) per la sua interpretazione mai sopra le righe, sfacciatamente ruvida e verosimile, merito anche di una detonazione emotiva in conclusione accolta ingordamente da Mendoza, che sosta sul suo volto rigato di lacrime, imprigionandola nel simbolo di un’impotenza esistenziale estendibile a un intero popolo. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Torino 34


Scheda tecnica
 
Titolo originale: Ma’ Rosa
Regia: Brillante Mendoza
Sceneggiatura: Troy Espiritu
Interpreti principali: Jaclyn Jose, Julio Diaz, Andi Eigenmann, Felix Roco, Kristofer King, Mercedes Cabral, Jomari Angeles
Fotografia: Odyssey Flores
Musiche: Teresa Barrozo 
Durata: 110’
​Anno: 2016

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TORINO 34 - Lady Macbeth, di William Oldroyd

30/11/2016

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​Inghilterra, 1865. La giovane Katherine si unisce in un matrimonio privo di amore con un signore più in età di lei. Confinata in una casa isolata in campagna, tra l’autoritarismo, la mancanza di attenzioni e le assenze del marito, i suoi fremiti di affermazione esplodono quando intreccia una liberatoria passione con l'operaio (alle dipendenze del marito) Sebastian, passione che non passa inosservata. Determinata a non lasciar soffocare il loro legame, Katherine, con la complicità dell’amante, inizia a uccidere. Eliminare con freddezza le persone di ostacolo al sogno di una vita a modo suo, magari sempre in quella casa ma con l'uomo scelto da lei al suo fianco, sembra per la ragazza il modo di affrancarsi. Ma a vivere lì e reclamare i suoi diritti familiari arriva poi qualcun altro, e la strada diventa senza ritorno.
Basato sul racconto di Nikolaj Leskov Lady Macbeth del Distretto di Mcensk (poi diventato un'opera), il film è scritto e diretto da due personalità affermate provenienti dal teatro: l'autrice Alice Birch e il regista William Oldroyd, che al loro esordio nel lungometraggio mostrano idee chiare.
All’inizio Lady Macbeth sembra una provocazione femminista dall’indubbia efficacia: impossibile non parteggiare per la protagonista, “rinchiusa” in una vita impossibile e del tutto priva di calore umano. Con il procedere della vicenda e l’avvio del body-count, però, il film prende una strada diversa, meno basata sull’empatia col personaggio.
Nell'esistenza che Katherine sembra condannata a vivere, gli uomini fanno gli uomini nel modo peggiore possibile, e tra i due sessi si alza un muro di disprezzo. Mentre il luogo della signora (e della sua serva) è la casa, e lo scopo di vita affidatole è arrivare a sfornare un erede (difficile, dato che il consorte non vuole o non riesce ad avere rapporti con lei: ma ovviamente la colpa è data alla donna), il marito Alexander col padre Boris sono quelli che mettono piede nel mondo al di fuori, per motivi di cui non è opportuno chiedere. D’altronde lei è praticamente una cosa, comprata e posseduta, come le viene esplicitamente ricordato a un certo punto.
I contrasti nel film sono sottolineati, qua e là, con una punta di umorismo: il corpo della ragazza è costretto, irregimentato, sia per quanto riguarda gli abiti (vedi il passaggio della vestizione dolorosa) che la postura, e si libera negli amplessi selvaggi con l’amante. Anche gli spazi sono rigidamente definiti, non solo sulla base dei sessi ma anche classista: Katherine che irrompe nello stanzone (una sorta di stalla) dei lavoratori è la prima scintilla del suo rapporto con Sebastian, che li porterà a violare la camera coniugale in cui poi si svolgerà l'estrema provocazione della donna di fronte al marito, nel climax, anche quanto a violenza, del film – notevole, in questo discorso di spazi, anche Sebastian che viene freddato a parole per aver osato violare il salotto di casa, quando vi riporta il bambino in pericolo di vita – . Violenza che, nella mancanza di positività del film, permea tutto: in particolare psicologica, come quella esercitata dal marito e ancor più dal suocero, uomo sempre digrignante e colmo di disprezzo, poco celato e compiaciuto, verso Katherine in quanto donna e in quanto persona. Un clima pesante, che Oldroyd cerca e nel ritratto di questo personaggio maschile un poco forza, ma senza lasciare indifferenti.
Di tutto è testimone impotente, e poi muta – perde la voce a causa di uno shock – la serva meticcia, che però paradossalmente risulta anche la più consapevole: il suo pianto disperato, di fronte ai gesti estremi della padrona che stanno rompendo l’ordine di un pur terribile mondo, assume una luce diversa di fronte a quel che sarà il finale, e la fine per lei.
Il regista nega completamente il fasto solitamente associato a un film in costume (in pratica e non a caso limitato all'abito “da signora” della protagonista) a favore di una scenografia essenziale, fatta di ambientazioni semplici, che si salda a una messinscena ordinata, pulita, e alla presenza in scena di pochi personaggi (senza contare i quadri in cui è in scena solo la protagonista).
Film che si chiude confermando un nichilismo quasi fastidioso (Katherine alla fine è una maschera impenetrabile, e la conclusione è beffarda e circolare), Lady Macbeth, nero dentro anche se pianamente luminoso sul piano fotografico, non è un lavoro gradevole ma è un esordio di forza indubbia, plastica ed emotiva. 
Guardando la Katherine impersonata da Florence Pugh, soprattutto quando esercita ironia o inganna, la sensazione è lievemente straniante: sembra di vedere una attrice di oggi (brava) che interpreta quella che può essere una ragazza di oggi calata in un (vecchio) contesto assurdo. Non che questo sia un difetto, ed è per lo spettatore strumento di complicità e ingresso in un micro-mondo. La Pugh ha da poco partecipato a The Commuter, prossimo film dell’accoppiata Jaume Collet-Serra e Liam Neeson.
Già passato con successo a San Sebastian, Zurigo e Toronto, Lady Macbeth uscirà in Italia l'anno prossimo per Teodora Film.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Torino 34


Scheda tecnica

Anno: 2016
Regia: William Oldroyd
Sceneggiatura: Alice Birch
Fotografia: Ari Wegner
Scenografia: Jacqueline Abrahams
Montaggio: Nick Emerson
Cast: Florence Pugh, Cosmo Jarvis, Paul Hilton, Naomi Ackie, Cristopher Fairbank
Durata: 88'

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TORINO 34 - Ta'ang, di Wang Bing 

27/11/2016

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​Le opere di Wang Bing sembrano una delle poche forme documentaristiche (a resistere) che di una certa coerenza dello sguardo fanno il proprio baluardo essenziale. La coerenza divampa in una concezione del genere che si muove per essere il più possibile puro e spurio da ogni elemento capace di deviare da una proprietà incontaminata dell’immagine cinematografica.
​La sensazione di immersione, di sospensione spazio-temporale, di svolgimento senza mediazione produttiva è l’effetto tutto peculiare e sorprendente della sua mano, in grado di restituire un’impressione di realtà laddove il cinema di Wang Bing è senz’altro il risultato di una costruzione linguistica articolata, che nell’apparenza del flusso esplora le possibilità di una sceneggiatura tutta nascosta ma imprescindibile. 
È stato un anno fertile, nel quale il regista cinese ha avuto modo di presentare prima alla Berlinale e ora al Torino Film Festival il suo ultimo lungometraggio, inframmezzato dall’anteprima veneziana di Ku Qian (Bitter Money), permettendoci di esperire nuovamente di un’espressione cinematografica fra le più complesse del panorama contemporaneo, ad eleggere Wang maestro di un genere che raramente è capace di farsi invisibile e strutturato al contempo. 
La sua è un’estetica integerrima che da quasi vent’anni denuncia e accoglie in sé le manifestazioni dell’impoverimento sociale, segnato da evidenti contraddizioni (in questo caso, una delle ragazze, sotto il suono in lontananza delle bombe fatte esplodere sul confine cinese, non dispone di un tetto ma di un cellulare ultimo modello): l’estetica degli outsider colta sul campo, registrata nell’attimo, mentre il regista si annulla eppure si muove insieme all’oggetto del suo riprendere. Se in Bitter Money erano i lavoratori stagionali sottopagati impiegati nelle fabbriche tessili, ora sono i profughi birmani costretti ad evadere dal Kokang verso lo Yunnan cinese (da qui Ta’ang, il nome di questa minoranza etnica del Myanmar schiacciata dalla guerra civile) ad essere il monito per un’osservazione imparziale e partecipativa al contempo. 
Al netto di un’usuale cornice esplicativa che a incipit e conclusione del lavoro necessariamente inquadra il contesto sociale-politico di quanto segue, Wang lascia che sia la sua camera a mano a camminare all’altezza degli sguardi di donne e bambini che ad essa corrono incontro, mentre si nutrono di riso raccolto in sacchi di plastica e si inzuppano di fango i piedi infilati nelle loro infradito. La costruzione tripartita è ridotta all’osso, ma essenziale a costruire una micro-narrazione a incastro che vede nella sua sezione centrale il cuore palpitante di questa liturgia dell’espatrio e della precarietà: quando è notte i profughi riuniti davanti al fuoco si lasciano andare a momenti di reciproco scambio verbale che Wang abbraccia senza apporvi evidente comando o direzione. 
La binarietà cromatica giocata sul contrasto tra luce calda e contesto notturno crea il luogo privilegiato per la sosta e per l’ascolto: il prodotto di una moltitudine di ore che il regista e la sua troupe hanno trascorso insieme e di cui vediamo una parzialità intelligentemente isolata. I pensieri svuotati da ogni dichiarante retorica, apparentemente insignificanti, ci riportano qui a una poetica della minoranza e della marginalità che si consuma in un gesto o in una rivelazione circostanziale, blanda e quotidiana, ma che contribuisce a comporre l’affresco spontaneo e permeabile di un’umanità che è sempre in grado di mantenersi unita a sé, incollata dal senso d’appartenenza, dall’affiliazione parentale, o dall’incessante domanda di sopravvivenza. 
La percezione di amatorialità diventa con Wang Bing l’elemento alfabetico di una profondità immersiva che deve restituire un’immagine non calcolata, un medias res limpido, una sbobinatura in diretta volta a far sentire lo spettatore collegato a un flusso che prende vita davanti ai suoi occhi. Al contrario, siamo di fronte a un lavoro mastodontico che deriva da uno sfoltimento del filmato (e del filmabile) impressionante; così il procedimento di condensazione, di selezione, diventa una prova di messa in scena e di montaggio talmente efficace da consegnarci un livello di immediatezza quantomeno inusitato. Una macchina produttiva minuta inversamente proporzionale allo sforzo autoriale, che del genere documentaristico è in grado di azionare gli ingranaggi a lui propri e meno spettacolarizzanti, sfruttandone le virtù senz’altro più radicali, offrendo una fruizione libera e slacciata, mai enfatica ed estremamente etica. 
Sembrerebbe pleonastico ribadirlo nei confronti di una voce dal linguaggio così maturo e dalla sensibilità così propriamente umana e umanizzante, in grado di unire l’attrazione tutta visiva delle riprese (complice una fotografia curatissima) al segno assai significante della sola immagine, al di là di uno stile dimostrativo che prende in prestito forme altre per incanalare un’idea che al film è pre-esistente. Wang è partecipe, ma non interviene mai direttamente (non nel prodotto finale): è calorosamente vicino, ma lascia ai protagonisti delle sue storie (o dei frammenti di esse) il loro spazio e la loro esistenza, ad infondere loro nuova linfa e nuova vita sullo schermo. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Torino 34

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Scheda tecnica

Titolo originale: Ta’ang
Regista: Wang Bing
Durata: 148’
Anno: 2016

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TORINO 34 - Christine, di Antonio Campos

27/11/2016

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​Presentato al Sundance Film Festival, il terzo lungometraggio del regista americano Antonio Campos è un’opera penetrante, conscia di una forte componente magnetica che si attracca a una solida scrittura e a un linguaggio asciutto, teso tra la contemplazione dell’intimità della protagonista e gli scatti freddi e automatizzanti della macchina giornalistica (i mezzi televisivi, propriamente) nella quale ella è inserita. 
Siamo in Florida, negli anni ’70, e Christine Chubbuck è giornalista in una modesta emittente proprio negli anni in cui la spettacolarizzazione della violenza, figlia di quelle immagini che nel 1968 scioccarono il mondo con l’omicidio Kennedy, si propone agli occhi e nelle case di tutti, per iniziare quel processo di lenta disinibizione dell’immagine che porterà alla crasi dell’informazione e dell’intrattenimento che tutt’oggi conosciamo. 
Sembrerebbe l’ennesima parabola di ascesa al successo di una giovane donna in carriera illuminata da un’inedita capacità di rielaborazione dei metodi comunicativi (in questo senso ogni immagine legata all’apparato promozionale del film andrebbe ignorata, in quanto contaminatrice della tensione di cui l’opera si nutre), probabilmente destinata ad essere l’eroina di un biopic densamente classico e omologato. Tutto il contrario: il regista di Afterschool e di Simon Killer (rispettivamente figli di Cannes e del Sundance) riesce a disorientare positivamente la fruizione tramite una messa in scena dal ritmo pacato e trattenuto, che sembra sempre dover decollare ma che, invece, corrisponde all’atrofizzarsi interiore della protagonista, al suo annichilirsi costante prodotto da un disequilibrio interno che dell’immobilismo professionale fa incetta. 
Scopriamo che è di uno sgretolamento che osserviamo l’incedere, che gli occhi puntati della camera non hanno che attenzioni per la personalità tumultuosa della protagonista, pur non sdegnando un certo feticismo tecnico per gli apparati di ripresa dell’epoca (che contribuiscono all’isolamento di un’atmosfera metodica e asettica combaciante con la placidità sospetta di Christine). L’incedere tensivo della narrazione avanza per episodi ritagliati dal quotidiano, in sé sommessi, che rifiutano l’eclatante per concorrere alla composizione di un puzzle psicofisico più ampio, costruito per giustapposizione di rifiuti, di impotenze emotive, di giornate trascorse nella sua camera dedicate allo studio e alla ricerca estenuante di un’idea professionale che la possa emancipare dal ruolo secondario che riveste. 
Christine dimostra una disabilità relazionale che la porta a nascondersi dalla possibilità di un rapporto con un collega che esuli dall’ambito lavorativo, mentre Campos dissemina elementi descrittivi senza cedere mai al didascalico, imponendosi contro un ventriloquio dei personaggi infusi di vita e voce non propri. Letteralmente, le sfortune di Christine si accatastano gracili, quasi sottotono rispetto alla loro gravità: l’impossibilità di farsi avanti in un ambito che tende sempre più a ingozzare l’audience e che alla sua nozione di inchiesta si accosta in modalità del tutto avversa; la contraddizione interiore generatasi che la tiene scissa tra la volontà di auto-affermazione e la necessità di rimanere fedele alla propria concezione del lavoro giornalistico; l’infertilità e l’inesperienza sessuale, entrambe occlusioni di uno status psico-sociale che sterilizzano ulteriormente il sentirsi e l’essere donna al di fuori dell’occupazione lavorativa. 
Christine è impotente, e Campos, parallelamente, sembra mettere in scena un film a suo modo impotente e rassegnato, che mai spinge l’acceleratore e che mai s’incattivisce, tutto imperniato com’è su una figura femminile sfaccettata che si dischiude man mano e per la quale dimostra una sorta di soggezione, di distacco e calore insieme. Si direbbe che Campos teme di farle violenza o di incespicare arrovellandosi su una drammatizzazione esasperata, scegliendo la via più efficace di un’opera scritta in un diagramma di accordi in tonalità minore, sospesa, sempre sott’acqua. Perciò, quando la parabola sembra giungere alla sua ideale (e, qui, reale, essendo la sceneggiatura tratta da una storia vera) esplosione/implosione, egli gestisce il climax con la stessa lucida sobrietà, svuotandola da ogni virgola posticcia (anche sonora), riportando l’oggetto-film alla sua capacità di raccontare storie efficaci, perfettamente funzionanti in loro stesse, senza spaventosi orpelli ricattatori o lacrimevoli. 
L’indolenza e il carattere monocorde di cui è affetta l’opera potrebbero apparire, viceversa, limiti ritmici e narrativi eccessivamente gravanti su una richiesta di empatia non eclatante, ma connaturata. Sotto a un’apparente refrattarietà del discorso, giace una figura femminile, forse, ancora anomala per il grande schermo, e a lei si guarda con grande delicatezza e rispetto. Al di là dei giudizi di merito sul lavoro nel complesso, a interpretare Christine v’è un’eccezionale Rebecca Hall che sequestra l’attenzione e dà prova di inconsueta bravura, la cui segnalazione qui giunge ultima per oggettività di valore. Per lei ci auspichiamo giunga presto una nomination ai prossimi Oscar. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Torino 34

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Scheda tecnica

Titolo originale: Christine
Regia: Antonio Campos
Sceneggiatura: Craig Shilowich
Interpreti principali: Rebecca Hall, Michael C. Hall, Tracy Lettis, Maria Dizzia
Fotografia: Joe Anderson
Musiche: Danny Bensi, Saunder Jurriaans
Durata: 115’

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TORINO 34 - Antiporno, di Sion Sono

20/11/2016

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​L’instancabile Sono. L’incantevole Sono. Fluviale e caricato, propone un’opera ancora così sua, facile alle antipatie come da sempre il suo cinema. Di sovente capace di dividere per i suoi stilemi ridondanti e allucinati; Antiporno non fa eccezione.
Il TFF, affezionato all’artista giapponese da anni (ben tre pellicole presentate alla precedente edizione del festival e nello storico un’encomiabile rassegna), ci regala una pellicola dalla durata rappresa per gli standard del regista (soli 76 minuti che eppure sembrano dilatatissimi) che rimaneggia il pinku eiga, il soft-porn a basso budget nato negli anni sessanta, alla solita maniera personalissima e multiforme che caratterizza il suo cinema.
Lo spettatore impreparato si potrebbe ritrovare spaesato di fronte alla costruzione formale dell’opera che va smembrando la narrazione, isolandola quasi interamente nello spazio di una stanza, di un luogo impreciso e coloratissimo – uno spazio mentale. Uno scenario affollato di figure femminili, tra cui la protagonista, Kyoko, un’artista anti-convenzionale che trae ispirazione per le sue tele e per le sue storie dalle pulsioni erotiche sfrenate che peraltro la repellono. Il tentativo di riassumere la fattura discorsiva sarebbe, chiaramente, fare un torto alla capacità della pellicola di riavvolgersi in se stessa, così come si dischiude forsennatamente in un giocattolo-matrioska intento a creare dimensioni di smaccata surrealtà. Ogni personaggio è, poi, ribaltato nei ruoli, nelle somiglianze comportamentali, a tal punto vicino da essere l’uno proiezione dell’altro. 
Così, con la proverbiale ed indisciplinata virulenza estetica, le visioni di Sion Sono fendono lo schermo: un’assistente rigorosa che desidera essere sodomizzata da modelle dai costumi chiassosi; un’eroina la cui iniziazione al cinema porno racchiude una back story di ossessione erotica germinata nell’ambito familiare; un mancato svezzamento sessuale da ragazzina il cui leitmotiv torna continuamente sottoforma di un amplesso ripreso in modo amatoriale, mentre il disturbante è qui divertissement più che mai. 
​
Sono elimina ogni procedimento formale che possa ricalcare una linearità ellittica o il flashback, saltando indisturbato tra zone di supposta realtà e di meta-cinematografia divertita (lo studio fotografico al contempo laboratorio artistico che si scopre set di un soft-core), mentre Kyoko (Ami Tomite, già protagonista del precedente, superlativo Tag) letteralmente lotta per essere “donna” impugnando lo scettro della pornografia, come fosse lo strumento per un’emancipazione della condizione femminile che Sono più volte ci ricorda essere una libertà parziale, sola maschera di una sudditanza inchiodata. Ma questa lotta paradossale è dichiaratamente una perversione generata dalla cultura post-moderna: è il parto di una morale ribaltata che, qui, ha le sue radici in un ambiente familiare morboso e nel trauma della giovane sorella deceduta, angelica apparizione al pianoforte. L’unico autentico desiderio sembra quello d’innocenza, di verginità occlusa che troppo spesso le rimbalza nella coscienza. 
Si potrebbero affermare, insieme, una moltitudine di caratteri diversi, per il cinema di Sono (che nel recente The Whispering Star trovava una sua fattura di sobrietà contemplativa estremamente convincente): una visione pop, bidimensionale, che dell’arte alla Pollock fa espediente estetizzante; una sovraesposizione di elementi seducenti e sfrontati che sfiorano volentieri l’auto-parodia e l’anti-naturalismo; una tensione mai abbandonata alla critica sociale che riesce a manifestarsi distruggendo ogni contingenza storicizzante; la metafora delle farfalle di carta volate via e della lucertola imbottigliata, tocchi irrinunciabili del regista, come già di recente fu la lattina incollata allo scarpone. 
Si potrebbe parlare di un tono cangiante, impossibile da congelare attorno al dramma così come al grottesco: forse è sempre la commedia a deviarsi in tragedia, sembra ripeterci Sono da anni, con risultati non troppo altalenanti come sarebbe facile sostenere. A risaltare, c’è una dichiarata valenza mortifera che gravita intorno alla pulsione sessuale, che a Sono preme iniettare velocemente, mentre si razionalizza soltanto alla fine, quando i significati, almeno quelli più appariscenti, si delineano, sebbene districandosi in risultati indubbiamente pletorici. 
La regia è quella invidiabile a cui ci ha abituato, quella che sembra faticosa come consumare un bicchiere d’acqua, talmente è armonica e fluida nelle sue dissociazioni visive; eppure il pericolo di rimanere ancorati alle nevrosi del proprio Cinema sono molteplici, ed è quanto ci sentiamo oggi di muovere nei confronti di un regista che non è stanco, che ancora profuma di miracoloso, ma che tra i sintomi denuncia un aut(omat)ismo forse sospetto. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Torino 34

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Scheda tecnica

Titolo originale: Anchi poruno
Regista: Sion Sono
Sceneggiatura: Sion Sono
Attori principali: Ami Tomite, Mariko Tsutsui
Musiche: Tomonobu Kikuchi
Anno: 2016
Durata: 76’
Uscita italiana: 18 novembre 2016

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