L’instancabile Sono. L’incantevole Sono. Fluviale e caricato, propone un’opera ancora così sua, facile alle antipatie come da sempre il suo cinema. Di sovente capace di dividere per i suoi stilemi ridondanti e allucinati; Antiporno non fa eccezione.
Il TFF, affezionato all’artista giapponese da anni (ben tre pellicole presentate alla precedente edizione del festival e nello storico un’encomiabile rassegna), ci regala una pellicola dalla durata rappresa per gli standard del regista (soli 76 minuti che eppure sembrano dilatatissimi) che rimaneggia il pinku eiga, il soft-porn a basso budget nato negli anni sessanta, alla solita maniera personalissima e multiforme che caratterizza il suo cinema.
Lo spettatore impreparato si potrebbe ritrovare spaesato di fronte alla costruzione formale dell’opera che va smembrando la narrazione, isolandola quasi interamente nello spazio di una stanza, di un luogo impreciso e coloratissimo – uno spazio mentale. Uno scenario affollato di figure femminili, tra cui la protagonista, Kyoko, un’artista anti-convenzionale che trae ispirazione per le sue tele e per le sue storie dalle pulsioni erotiche sfrenate che peraltro la repellono. Il tentativo di riassumere la fattura discorsiva sarebbe, chiaramente, fare un torto alla capacità della pellicola di riavvolgersi in se stessa, così come si dischiude forsennatamente in un giocattolo-matrioska intento a creare dimensioni di smaccata surrealtà. Ogni personaggio è, poi, ribaltato nei ruoli, nelle somiglianze comportamentali, a tal punto vicino da essere l’uno proiezione dell’altro.
Così, con la proverbiale ed indisciplinata virulenza estetica, le visioni di Sion Sono fendono lo schermo: un’assistente rigorosa che desidera essere sodomizzata da modelle dai costumi chiassosi; un’eroina la cui iniziazione al cinema porno racchiude una back story di ossessione erotica germinata nell’ambito familiare; un mancato svezzamento sessuale da ragazzina il cui leitmotiv torna continuamente sottoforma di un amplesso ripreso in modo amatoriale, mentre il disturbante è qui divertissement più che mai.
Sono elimina ogni procedimento formale che possa ricalcare una linearità ellittica o il flashback, saltando indisturbato tra zone di supposta realtà e di meta-cinematografia divertita (lo studio fotografico al contempo laboratorio artistico che si scopre set di un soft-core), mentre Kyoko (Ami Tomite, già protagonista del precedente, superlativo Tag) letteralmente lotta per essere “donna” impugnando lo scettro della pornografia, come fosse lo strumento per un’emancipazione della condizione femminile che Sono più volte ci ricorda essere una libertà parziale, sola maschera di una sudditanza inchiodata. Ma questa lotta paradossale è dichiaratamente una perversione generata dalla cultura post-moderna: è il parto di una morale ribaltata che, qui, ha le sue radici in un ambiente familiare morboso e nel trauma della giovane sorella deceduta, angelica apparizione al pianoforte. L’unico autentico desiderio sembra quello d’innocenza, di verginità occlusa che troppo spesso le rimbalza nella coscienza.
Si potrebbero affermare, insieme, una moltitudine di caratteri diversi, per il cinema di Sono (che nel recente The Whispering Star trovava una sua fattura di sobrietà contemplativa estremamente convincente): una visione pop, bidimensionale, che dell’arte alla Pollock fa espediente estetizzante; una sovraesposizione di elementi seducenti e sfrontati che sfiorano volentieri l’auto-parodia e l’anti-naturalismo; una tensione mai abbandonata alla critica sociale che riesce a manifestarsi distruggendo ogni contingenza storicizzante; la metafora delle farfalle di carta volate via e della lucertola imbottigliata, tocchi irrinunciabili del regista, come già di recente fu la lattina incollata allo scarpone.
Si potrebbe parlare di un tono cangiante, impossibile da congelare attorno al dramma così come al grottesco: forse è sempre la commedia a deviarsi in tragedia, sembra ripeterci Sono da anni, con risultati non troppo altalenanti come sarebbe facile sostenere. A risaltare, c’è una dichiarata valenza mortifera che gravita intorno alla pulsione sessuale, che a Sono preme iniettare velocemente, mentre si razionalizza soltanto alla fine, quando i significati, almeno quelli più appariscenti, si delineano, sebbene districandosi in risultati indubbiamente pletorici.
La regia è quella invidiabile a cui ci ha abituato, quella che sembra faticosa come consumare un bicchiere d’acqua, talmente è armonica e fluida nelle sue dissociazioni visive; eppure il pericolo di rimanere ancorati alle nevrosi del proprio Cinema sono molteplici, ed è quanto ci sentiamo oggi di muovere nei confronti di un regista che non è stanco, che ancora profuma di miracoloso, ma che tra i sintomi denuncia un aut(omat)ismo forse sospetto.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Torino 34
Altre recensioni film di Sion Sono: Love Exposure The Whispering Star Tag Love & Peace Tokyo Tribe
Scheda tecnica
Titolo originale: Anchi poruno
Regista: Sion Sono
Sceneggiatura: Sion Sono
Attori principali: Ami Tomite, Mariko Tsutsui
Musiche: Tomonobu Kikuchi
Anno: 2016
Durata: 76’
Uscita italiana: 18 novembre 2016
Il TFF, affezionato all’artista giapponese da anni (ben tre pellicole presentate alla precedente edizione del festival e nello storico un’encomiabile rassegna), ci regala una pellicola dalla durata rappresa per gli standard del regista (soli 76 minuti che eppure sembrano dilatatissimi) che rimaneggia il pinku eiga, il soft-porn a basso budget nato negli anni sessanta, alla solita maniera personalissima e multiforme che caratterizza il suo cinema.
Lo spettatore impreparato si potrebbe ritrovare spaesato di fronte alla costruzione formale dell’opera che va smembrando la narrazione, isolandola quasi interamente nello spazio di una stanza, di un luogo impreciso e coloratissimo – uno spazio mentale. Uno scenario affollato di figure femminili, tra cui la protagonista, Kyoko, un’artista anti-convenzionale che trae ispirazione per le sue tele e per le sue storie dalle pulsioni erotiche sfrenate che peraltro la repellono. Il tentativo di riassumere la fattura discorsiva sarebbe, chiaramente, fare un torto alla capacità della pellicola di riavvolgersi in se stessa, così come si dischiude forsennatamente in un giocattolo-matrioska intento a creare dimensioni di smaccata surrealtà. Ogni personaggio è, poi, ribaltato nei ruoli, nelle somiglianze comportamentali, a tal punto vicino da essere l’uno proiezione dell’altro.
Così, con la proverbiale ed indisciplinata virulenza estetica, le visioni di Sion Sono fendono lo schermo: un’assistente rigorosa che desidera essere sodomizzata da modelle dai costumi chiassosi; un’eroina la cui iniziazione al cinema porno racchiude una back story di ossessione erotica germinata nell’ambito familiare; un mancato svezzamento sessuale da ragazzina il cui leitmotiv torna continuamente sottoforma di un amplesso ripreso in modo amatoriale, mentre il disturbante è qui divertissement più che mai.
Sono elimina ogni procedimento formale che possa ricalcare una linearità ellittica o il flashback, saltando indisturbato tra zone di supposta realtà e di meta-cinematografia divertita (lo studio fotografico al contempo laboratorio artistico che si scopre set di un soft-core), mentre Kyoko (Ami Tomite, già protagonista del precedente, superlativo Tag) letteralmente lotta per essere “donna” impugnando lo scettro della pornografia, come fosse lo strumento per un’emancipazione della condizione femminile che Sono più volte ci ricorda essere una libertà parziale, sola maschera di una sudditanza inchiodata. Ma questa lotta paradossale è dichiaratamente una perversione generata dalla cultura post-moderna: è il parto di una morale ribaltata che, qui, ha le sue radici in un ambiente familiare morboso e nel trauma della giovane sorella deceduta, angelica apparizione al pianoforte. L’unico autentico desiderio sembra quello d’innocenza, di verginità occlusa che troppo spesso le rimbalza nella coscienza.
Si potrebbero affermare, insieme, una moltitudine di caratteri diversi, per il cinema di Sono (che nel recente The Whispering Star trovava una sua fattura di sobrietà contemplativa estremamente convincente): una visione pop, bidimensionale, che dell’arte alla Pollock fa espediente estetizzante; una sovraesposizione di elementi seducenti e sfrontati che sfiorano volentieri l’auto-parodia e l’anti-naturalismo; una tensione mai abbandonata alla critica sociale che riesce a manifestarsi distruggendo ogni contingenza storicizzante; la metafora delle farfalle di carta volate via e della lucertola imbottigliata, tocchi irrinunciabili del regista, come già di recente fu la lattina incollata allo scarpone.
Si potrebbe parlare di un tono cangiante, impossibile da congelare attorno al dramma così come al grottesco: forse è sempre la commedia a deviarsi in tragedia, sembra ripeterci Sono da anni, con risultati non troppo altalenanti come sarebbe facile sostenere. A risaltare, c’è una dichiarata valenza mortifera che gravita intorno alla pulsione sessuale, che a Sono preme iniettare velocemente, mentre si razionalizza soltanto alla fine, quando i significati, almeno quelli più appariscenti, si delineano, sebbene districandosi in risultati indubbiamente pletorici.
La regia è quella invidiabile a cui ci ha abituato, quella che sembra faticosa come consumare un bicchiere d’acqua, talmente è armonica e fluida nelle sue dissociazioni visive; eppure il pericolo di rimanere ancorati alle nevrosi del proprio Cinema sono molteplici, ed è quanto ci sentiamo oggi di muovere nei confronti di un regista che non è stanco, che ancora profuma di miracoloso, ma che tra i sintomi denuncia un aut(omat)ismo forse sospetto.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Torino 34
Altre recensioni film di Sion Sono: Love Exposure The Whispering Star Tag Love & Peace Tokyo Tribe
Scheda tecnica
Titolo originale: Anchi poruno
Regista: Sion Sono
Sceneggiatura: Sion Sono
Attori principali: Ami Tomite, Mariko Tsutsui
Musiche: Tomonobu Kikuchi
Anno: 2016
Durata: 76’
Uscita italiana: 18 novembre 2016