Le opere di Wang Bing sembrano una delle poche forme documentaristiche (a resistere) che di una certa coerenza dello sguardo fanno il proprio baluardo essenziale. La coerenza divampa in una concezione del genere che si muove per essere il più possibile puro e spurio da ogni elemento capace di deviare da una proprietà incontaminata dell’immagine cinematografica.
La sensazione di immersione, di sospensione spazio-temporale, di svolgimento senza mediazione produttiva è l’effetto tutto peculiare e sorprendente della sua mano, in grado di restituire un’impressione di realtà laddove il cinema di Wang Bing è senz’altro il risultato di una costruzione linguistica articolata, che nell’apparenza del flusso esplora le possibilità di una sceneggiatura tutta nascosta ma imprescindibile.
È stato un anno fertile, nel quale il regista cinese ha avuto modo di presentare prima alla Berlinale e ora al Torino Film Festival il suo ultimo lungometraggio, inframmezzato dall’anteprima veneziana di Ku Qian (Bitter Money), permettendoci di esperire nuovamente di un’espressione cinematografica fra le più complesse del panorama contemporaneo, ad eleggere Wang maestro di un genere che raramente è capace di farsi invisibile e strutturato al contempo.
La sua è un’estetica integerrima che da quasi vent’anni denuncia e accoglie in sé le manifestazioni dell’impoverimento sociale, segnato da evidenti contraddizioni (in questo caso, una delle ragazze, sotto il suono in lontananza delle bombe fatte esplodere sul confine cinese, non dispone di un tetto ma di un cellulare ultimo modello): l’estetica degli outsider colta sul campo, registrata nell’attimo, mentre il regista si annulla eppure si muove insieme all’oggetto del suo riprendere. Se in Bitter Money erano i lavoratori stagionali sottopagati impiegati nelle fabbriche tessili, ora sono i profughi birmani costretti ad evadere dal Kokang verso lo Yunnan cinese (da qui Ta’ang, il nome di questa minoranza etnica del Myanmar schiacciata dalla guerra civile) ad essere il monito per un’osservazione imparziale e partecipativa al contempo.
Al netto di un’usuale cornice esplicativa che a incipit e conclusione del lavoro necessariamente inquadra il contesto sociale-politico di quanto segue, Wang lascia che sia la sua camera a mano a camminare all’altezza degli sguardi di donne e bambini che ad essa corrono incontro, mentre si nutrono di riso raccolto in sacchi di plastica e si inzuppano di fango i piedi infilati nelle loro infradito. La costruzione tripartita è ridotta all’osso, ma essenziale a costruire una micro-narrazione a incastro che vede nella sua sezione centrale il cuore palpitante di questa liturgia dell’espatrio e della precarietà: quando è notte i profughi riuniti davanti al fuoco si lasciano andare a momenti di reciproco scambio verbale che Wang abbraccia senza apporvi evidente comando o direzione.
La binarietà cromatica giocata sul contrasto tra luce calda e contesto notturno crea il luogo privilegiato per la sosta e per l’ascolto: il prodotto di una moltitudine di ore che il regista e la sua troupe hanno trascorso insieme e di cui vediamo una parzialità intelligentemente isolata. I pensieri svuotati da ogni dichiarante retorica, apparentemente insignificanti, ci riportano qui a una poetica della minoranza e della marginalità che si consuma in un gesto o in una rivelazione circostanziale, blanda e quotidiana, ma che contribuisce a comporre l’affresco spontaneo e permeabile di un’umanità che è sempre in grado di mantenersi unita a sé, incollata dal senso d’appartenenza, dall’affiliazione parentale, o dall’incessante domanda di sopravvivenza.
La percezione di amatorialità diventa con Wang Bing l’elemento alfabetico di una profondità immersiva che deve restituire un’immagine non calcolata, un medias res limpido, una sbobinatura in diretta volta a far sentire lo spettatore collegato a un flusso che prende vita davanti ai suoi occhi. Al contrario, siamo di fronte a un lavoro mastodontico che deriva da uno sfoltimento del filmato (e del filmabile) impressionante; così il procedimento di condensazione, di selezione, diventa una prova di messa in scena e di montaggio talmente efficace da consegnarci un livello di immediatezza quantomeno inusitato. Una macchina produttiva minuta inversamente proporzionale allo sforzo autoriale, che del genere documentaristico è in grado di azionare gli ingranaggi a lui propri e meno spettacolarizzanti, sfruttandone le virtù senz’altro più radicali, offrendo una fruizione libera e slacciata, mai enfatica ed estremamente etica.
Sembrerebbe pleonastico ribadirlo nei confronti di una voce dal linguaggio così maturo e dalla sensibilità così propriamente umana e umanizzante, in grado di unire l’attrazione tutta visiva delle riprese (complice una fotografia curatissima) al segno assai significante della sola immagine, al di là di uno stile dimostrativo che prende in prestito forme altre per incanalare un’idea che al film è pre-esistente. Wang è partecipe, ma non interviene mai direttamente (non nel prodotto finale): è calorosamente vicino, ma lascia ai protagonisti delle sue storie (o dei frammenti di esse) il loro spazio e la loro esistenza, ad infondere loro nuova linfa e nuova vita sullo schermo.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Torino 34
Scheda tecnica
Titolo originale: Ta’ang
Regista: Wang Bing
Durata: 148’
Anno: 2016
La sensazione di immersione, di sospensione spazio-temporale, di svolgimento senza mediazione produttiva è l’effetto tutto peculiare e sorprendente della sua mano, in grado di restituire un’impressione di realtà laddove il cinema di Wang Bing è senz’altro il risultato di una costruzione linguistica articolata, che nell’apparenza del flusso esplora le possibilità di una sceneggiatura tutta nascosta ma imprescindibile.
È stato un anno fertile, nel quale il regista cinese ha avuto modo di presentare prima alla Berlinale e ora al Torino Film Festival il suo ultimo lungometraggio, inframmezzato dall’anteprima veneziana di Ku Qian (Bitter Money), permettendoci di esperire nuovamente di un’espressione cinematografica fra le più complesse del panorama contemporaneo, ad eleggere Wang maestro di un genere che raramente è capace di farsi invisibile e strutturato al contempo.
La sua è un’estetica integerrima che da quasi vent’anni denuncia e accoglie in sé le manifestazioni dell’impoverimento sociale, segnato da evidenti contraddizioni (in questo caso, una delle ragazze, sotto il suono in lontananza delle bombe fatte esplodere sul confine cinese, non dispone di un tetto ma di un cellulare ultimo modello): l’estetica degli outsider colta sul campo, registrata nell’attimo, mentre il regista si annulla eppure si muove insieme all’oggetto del suo riprendere. Se in Bitter Money erano i lavoratori stagionali sottopagati impiegati nelle fabbriche tessili, ora sono i profughi birmani costretti ad evadere dal Kokang verso lo Yunnan cinese (da qui Ta’ang, il nome di questa minoranza etnica del Myanmar schiacciata dalla guerra civile) ad essere il monito per un’osservazione imparziale e partecipativa al contempo.
Al netto di un’usuale cornice esplicativa che a incipit e conclusione del lavoro necessariamente inquadra il contesto sociale-politico di quanto segue, Wang lascia che sia la sua camera a mano a camminare all’altezza degli sguardi di donne e bambini che ad essa corrono incontro, mentre si nutrono di riso raccolto in sacchi di plastica e si inzuppano di fango i piedi infilati nelle loro infradito. La costruzione tripartita è ridotta all’osso, ma essenziale a costruire una micro-narrazione a incastro che vede nella sua sezione centrale il cuore palpitante di questa liturgia dell’espatrio e della precarietà: quando è notte i profughi riuniti davanti al fuoco si lasciano andare a momenti di reciproco scambio verbale che Wang abbraccia senza apporvi evidente comando o direzione.
La binarietà cromatica giocata sul contrasto tra luce calda e contesto notturno crea il luogo privilegiato per la sosta e per l’ascolto: il prodotto di una moltitudine di ore che il regista e la sua troupe hanno trascorso insieme e di cui vediamo una parzialità intelligentemente isolata. I pensieri svuotati da ogni dichiarante retorica, apparentemente insignificanti, ci riportano qui a una poetica della minoranza e della marginalità che si consuma in un gesto o in una rivelazione circostanziale, blanda e quotidiana, ma che contribuisce a comporre l’affresco spontaneo e permeabile di un’umanità che è sempre in grado di mantenersi unita a sé, incollata dal senso d’appartenenza, dall’affiliazione parentale, o dall’incessante domanda di sopravvivenza.
La percezione di amatorialità diventa con Wang Bing l’elemento alfabetico di una profondità immersiva che deve restituire un’immagine non calcolata, un medias res limpido, una sbobinatura in diretta volta a far sentire lo spettatore collegato a un flusso che prende vita davanti ai suoi occhi. Al contrario, siamo di fronte a un lavoro mastodontico che deriva da uno sfoltimento del filmato (e del filmabile) impressionante; così il procedimento di condensazione, di selezione, diventa una prova di messa in scena e di montaggio talmente efficace da consegnarci un livello di immediatezza quantomeno inusitato. Una macchina produttiva minuta inversamente proporzionale allo sforzo autoriale, che del genere documentaristico è in grado di azionare gli ingranaggi a lui propri e meno spettacolarizzanti, sfruttandone le virtù senz’altro più radicali, offrendo una fruizione libera e slacciata, mai enfatica ed estremamente etica.
Sembrerebbe pleonastico ribadirlo nei confronti di una voce dal linguaggio così maturo e dalla sensibilità così propriamente umana e umanizzante, in grado di unire l’attrazione tutta visiva delle riprese (complice una fotografia curatissima) al segno assai significante della sola immagine, al di là di uno stile dimostrativo che prende in prestito forme altre per incanalare un’idea che al film è pre-esistente. Wang è partecipe, ma non interviene mai direttamente (non nel prodotto finale): è calorosamente vicino, ma lascia ai protagonisti delle sue storie (o dei frammenti di esse) il loro spazio e la loro esistenza, ad infondere loro nuova linfa e nuova vita sullo schermo.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Torino 34
Scheda tecnica
Titolo originale: Ta’ang
Regista: Wang Bing
Durata: 148’
Anno: 2016