Presentato al Sundance Film Festival, il terzo lungometraggio del regista americano Antonio Campos è un’opera penetrante, conscia di una forte componente magnetica che si attracca a una solida scrittura e a un linguaggio asciutto, teso tra la contemplazione dell’intimità della protagonista e gli scatti freddi e automatizzanti della macchina giornalistica (i mezzi televisivi, propriamente) nella quale ella è inserita.
Siamo in Florida, negli anni ’70, e Christine Chubbuck è giornalista in una modesta emittente proprio negli anni in cui la spettacolarizzazione della violenza, figlia di quelle immagini che nel 1968 scioccarono il mondo con l’omicidio Kennedy, si propone agli occhi e nelle case di tutti, per iniziare quel processo di lenta disinibizione dell’immagine che porterà alla crasi dell’informazione e dell’intrattenimento che tutt’oggi conosciamo.
Sembrerebbe l’ennesima parabola di ascesa al successo di una giovane donna in carriera illuminata da un’inedita capacità di rielaborazione dei metodi comunicativi (in questo senso ogni immagine legata all’apparato promozionale del film andrebbe ignorata, in quanto contaminatrice della tensione di cui l’opera si nutre), probabilmente destinata ad essere l’eroina di un biopic densamente classico e omologato. Tutto il contrario: il regista di Afterschool e di Simon Killer (rispettivamente figli di Cannes e del Sundance) riesce a disorientare positivamente la fruizione tramite una messa in scena dal ritmo pacato e trattenuto, che sembra sempre dover decollare ma che, invece, corrisponde all’atrofizzarsi interiore della protagonista, al suo annichilirsi costante prodotto da un disequilibrio interno che dell’immobilismo professionale fa incetta.
Scopriamo che è di uno sgretolamento che osserviamo l’incedere, che gli occhi puntati della camera non hanno che attenzioni per la personalità tumultuosa della protagonista, pur non sdegnando un certo feticismo tecnico per gli apparati di ripresa dell’epoca (che contribuiscono all’isolamento di un’atmosfera metodica e asettica combaciante con la placidità sospetta di Christine). L’incedere tensivo della narrazione avanza per episodi ritagliati dal quotidiano, in sé sommessi, che rifiutano l’eclatante per concorrere alla composizione di un puzzle psicofisico più ampio, costruito per giustapposizione di rifiuti, di impotenze emotive, di giornate trascorse nella sua camera dedicate allo studio e alla ricerca estenuante di un’idea professionale che la possa emancipare dal ruolo secondario che riveste.
Christine dimostra una disabilità relazionale che la porta a nascondersi dalla possibilità di un rapporto con un collega che esuli dall’ambito lavorativo, mentre Campos dissemina elementi descrittivi senza cedere mai al didascalico, imponendosi contro un ventriloquio dei personaggi infusi di vita e voce non propri. Letteralmente, le sfortune di Christine si accatastano gracili, quasi sottotono rispetto alla loro gravità: l’impossibilità di farsi avanti in un ambito che tende sempre più a ingozzare l’audience e che alla sua nozione di inchiesta si accosta in modalità del tutto avversa; la contraddizione interiore generatasi che la tiene scissa tra la volontà di auto-affermazione e la necessità di rimanere fedele alla propria concezione del lavoro giornalistico; l’infertilità e l’inesperienza sessuale, entrambe occlusioni di uno status psico-sociale che sterilizzano ulteriormente il sentirsi e l’essere donna al di fuori dell’occupazione lavorativa.
Christine è impotente, e Campos, parallelamente, sembra mettere in scena un film a suo modo impotente e rassegnato, che mai spinge l’acceleratore e che mai s’incattivisce, tutto imperniato com’è su una figura femminile sfaccettata che si dischiude man mano e per la quale dimostra una sorta di soggezione, di distacco e calore insieme. Si direbbe che Campos teme di farle violenza o di incespicare arrovellandosi su una drammatizzazione esasperata, scegliendo la via più efficace di un’opera scritta in un diagramma di accordi in tonalità minore, sospesa, sempre sott’acqua. Perciò, quando la parabola sembra giungere alla sua ideale (e, qui, reale, essendo la sceneggiatura tratta da una storia vera) esplosione/implosione, egli gestisce il climax con la stessa lucida sobrietà, svuotandola da ogni virgola posticcia (anche sonora), riportando l’oggetto-film alla sua capacità di raccontare storie efficaci, perfettamente funzionanti in loro stesse, senza spaventosi orpelli ricattatori o lacrimevoli.
L’indolenza e il carattere monocorde di cui è affetta l’opera potrebbero apparire, viceversa, limiti ritmici e narrativi eccessivamente gravanti su una richiesta di empatia non eclatante, ma connaturata. Sotto a un’apparente refrattarietà del discorso, giace una figura femminile, forse, ancora anomala per il grande schermo, e a lei si guarda con grande delicatezza e rispetto. Al di là dei giudizi di merito sul lavoro nel complesso, a interpretare Christine v’è un’eccezionale Rebecca Hall che sequestra l’attenzione e dà prova di inconsueta bravura, la cui segnalazione qui giunge ultima per oggettività di valore. Per lei ci auspichiamo giunga presto una nomination ai prossimi Oscar.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Torino 34
Scheda tecnica
Titolo originale: Christine
Regia: Antonio Campos
Sceneggiatura: Craig Shilowich
Interpreti principali: Rebecca Hall, Michael C. Hall, Tracy Lettis, Maria Dizzia
Fotografia: Joe Anderson
Musiche: Danny Bensi, Saunder Jurriaans
Durata: 115’
Siamo in Florida, negli anni ’70, e Christine Chubbuck è giornalista in una modesta emittente proprio negli anni in cui la spettacolarizzazione della violenza, figlia di quelle immagini che nel 1968 scioccarono il mondo con l’omicidio Kennedy, si propone agli occhi e nelle case di tutti, per iniziare quel processo di lenta disinibizione dell’immagine che porterà alla crasi dell’informazione e dell’intrattenimento che tutt’oggi conosciamo.
Sembrerebbe l’ennesima parabola di ascesa al successo di una giovane donna in carriera illuminata da un’inedita capacità di rielaborazione dei metodi comunicativi (in questo senso ogni immagine legata all’apparato promozionale del film andrebbe ignorata, in quanto contaminatrice della tensione di cui l’opera si nutre), probabilmente destinata ad essere l’eroina di un biopic densamente classico e omologato. Tutto il contrario: il regista di Afterschool e di Simon Killer (rispettivamente figli di Cannes e del Sundance) riesce a disorientare positivamente la fruizione tramite una messa in scena dal ritmo pacato e trattenuto, che sembra sempre dover decollare ma che, invece, corrisponde all’atrofizzarsi interiore della protagonista, al suo annichilirsi costante prodotto da un disequilibrio interno che dell’immobilismo professionale fa incetta.
Scopriamo che è di uno sgretolamento che osserviamo l’incedere, che gli occhi puntati della camera non hanno che attenzioni per la personalità tumultuosa della protagonista, pur non sdegnando un certo feticismo tecnico per gli apparati di ripresa dell’epoca (che contribuiscono all’isolamento di un’atmosfera metodica e asettica combaciante con la placidità sospetta di Christine). L’incedere tensivo della narrazione avanza per episodi ritagliati dal quotidiano, in sé sommessi, che rifiutano l’eclatante per concorrere alla composizione di un puzzle psicofisico più ampio, costruito per giustapposizione di rifiuti, di impotenze emotive, di giornate trascorse nella sua camera dedicate allo studio e alla ricerca estenuante di un’idea professionale che la possa emancipare dal ruolo secondario che riveste.
Christine dimostra una disabilità relazionale che la porta a nascondersi dalla possibilità di un rapporto con un collega che esuli dall’ambito lavorativo, mentre Campos dissemina elementi descrittivi senza cedere mai al didascalico, imponendosi contro un ventriloquio dei personaggi infusi di vita e voce non propri. Letteralmente, le sfortune di Christine si accatastano gracili, quasi sottotono rispetto alla loro gravità: l’impossibilità di farsi avanti in un ambito che tende sempre più a ingozzare l’audience e che alla sua nozione di inchiesta si accosta in modalità del tutto avversa; la contraddizione interiore generatasi che la tiene scissa tra la volontà di auto-affermazione e la necessità di rimanere fedele alla propria concezione del lavoro giornalistico; l’infertilità e l’inesperienza sessuale, entrambe occlusioni di uno status psico-sociale che sterilizzano ulteriormente il sentirsi e l’essere donna al di fuori dell’occupazione lavorativa.
Christine è impotente, e Campos, parallelamente, sembra mettere in scena un film a suo modo impotente e rassegnato, che mai spinge l’acceleratore e che mai s’incattivisce, tutto imperniato com’è su una figura femminile sfaccettata che si dischiude man mano e per la quale dimostra una sorta di soggezione, di distacco e calore insieme. Si direbbe che Campos teme di farle violenza o di incespicare arrovellandosi su una drammatizzazione esasperata, scegliendo la via più efficace di un’opera scritta in un diagramma di accordi in tonalità minore, sospesa, sempre sott’acqua. Perciò, quando la parabola sembra giungere alla sua ideale (e, qui, reale, essendo la sceneggiatura tratta da una storia vera) esplosione/implosione, egli gestisce il climax con la stessa lucida sobrietà, svuotandola da ogni virgola posticcia (anche sonora), riportando l’oggetto-film alla sua capacità di raccontare storie efficaci, perfettamente funzionanti in loro stesse, senza spaventosi orpelli ricattatori o lacrimevoli.
L’indolenza e il carattere monocorde di cui è affetta l’opera potrebbero apparire, viceversa, limiti ritmici e narrativi eccessivamente gravanti su una richiesta di empatia non eclatante, ma connaturata. Sotto a un’apparente refrattarietà del discorso, giace una figura femminile, forse, ancora anomala per il grande schermo, e a lei si guarda con grande delicatezza e rispetto. Al di là dei giudizi di merito sul lavoro nel complesso, a interpretare Christine v’è un’eccezionale Rebecca Hall che sequestra l’attenzione e dà prova di inconsueta bravura, la cui segnalazione qui giunge ultima per oggettività di valore. Per lei ci auspichiamo giunga presto una nomination ai prossimi Oscar.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Torino 34
Scheda tecnica
Titolo originale: Christine
Regia: Antonio Campos
Sceneggiatura: Craig Shilowich
Interpreti principali: Rebecca Hall, Michael C. Hall, Tracy Lettis, Maria Dizzia
Fotografia: Joe Anderson
Musiche: Danny Bensi, Saunder Jurriaans
Durata: 115’