ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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MIA MADRE - Conferenza stampa di Nanni Moretti

17/4/2015

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“Eccoci”. Esordisce così, Nanni Moretti, nel presentare il suo ultimo film, Mia madre, alla numerosissima stampa riunita in quella che è di fatto la sua casa cinematografica, il trasteverino cinema Nuovo Sacher. Dopodiché introduce i suoi collaboratori e attori uno per uno, allegando due parole di presentazione per ognuno di loro. 
Fa da gran cerimoniere, insomma, com’è giusto che sia per una trascinante icona del nostro cinema. Manca solo John Turturro, impegnato in delle riprese (“Un film o una serie, non ricordo”). In compenso c’è Margherita Buy, fedelissima al suo fianco. “Margherita c’è in tutte le scene, ne avevo girata una sola senza di lei, che ho tagliato”. E c’è Giulia Lazzarini, strepitosa interprete della madre del titolo, che mostra tutta la sua scrupolosa e dedita attenzione per il lavoro di Moretti e per i sottili equilibri del suo cinema, una novità per lei. “Ognuno dà un suo senso alle cose, io ho provato a dare il mio in questo caso, senza prevaricare. Purtroppo ho avuto modo di fare poco cinema, perché recito soprattutto a teatro e i tempi delle due cose non collimano mai, si può fare o l’una o l’altra, sennò si rischia di soffrire molto. Però ironia della sorte vuole che fossi molto amica di Luisa Rossi, che era la mamma di Michele Apicella in Ecce bombo. Ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto fare qualcosa con Nanni. L’ho incontrato nel suo ufficio, abbiamo bevuto del tè verde e scoperto che piace molto, a entrambi, il tè caldo. Poi abbiamo girato in macchina, sul Lungotevere, nei pressi dell’Isola Tiberina, e siamo passati davanti all’Ospedale Fatebenefratelli, dove se non sbaglio è nato il figlio di Nanni, Pietro, oggi diciannovenne. In questo modo sono stata messa a parte di qualcosa che riguardava il suo mondo. L’impatto sul set però non è stato particolarmente fortunato, il primo giorno di riprese era un freddissimo giorno di fine gennaio, al 3° o 4° ciak mi sono bloccata. Per l’emozione, la tensione, l’ansia di non deludere Nanni, ma anche per il freddo, è stato un po’ tutto insieme. Sono tornata a casa e sono stata ferma a letto otto giorni. Ma poi ho ripreso, dopo questo avvio traumatico, ed è andata benissimo. La cosa bella di Nanni è che non ti dà mai indicazioni troppo nette all’inizio o prima di girare una scena, ma corregge durante, aggiunge, mette a fuoco le sfumature strada facendo. Ho cercato di dare una presenza tangibile a qualcosa che lui aveva molto chiaro in testa”.

“Giulia – interviene Moretti – temeva la ripetizione. Temeva che la reiterazione delle battute nei vari ciak togliesse freschezza, ma questo è il mio metodo, trovo che la verità di una scena si colga decisamente ciak dopo ciak, non per forza subito, al primo tentativo”. Molti giornalisti muniti di bilancino gli chiedono quanto ci sia di autobiografico nel suo film, ma Moretti, che comunque è molto più tollerante di una volta dinanzi alle domande involute, imprecise e sciatte che gli vengono rivolte, anziché infastidirsi glissa, educatamente (“C’è, c’è…”). 
Qualche curiosità, però, la rivela volentieri. Conferma, ad esempio, che il rapporto sul set con Michel Piccoli in Habemus Papam ha influenzato da vicino la caratterizzazione di Turturro in Mia madre. “Con Piccoli giravamo spesso la notte e mentre io recupero tranquillamente, perché poi dormo senza problemi di giorno se passo la notte in bianco, Piccoli non recuperava affatto. Molto spesso non ricordava le battute. Nella litigata che c’è nel film tra la regista Margherita e il personaggio di Turturro abbiamo messo in bocca ai personaggi delle parole realmente pronunciate sul mio precedente set, mettiamola così. Turturro poi ha improvvisato molto, il che mi ha fatto molto piacere, avendo tra le mani un attore come lui. Alcune cose le abbiamo tenute al montaggio, altre no, ma è stato bellissimo in ogni caso”. A chi gli chiede il perché dell’accanimento contro “il povero Brecht”, per una battuta del film che richiama a mo’ di tormentone “l’attore accanto al personaggio”, Moretti risponde tagliente e preciso: “Ma io non ce l’ho con Brecht, ce l’ho con me stesso. E’ molto più faticoso avercela con se stessi che con gli altri, credetemi. Si fa molto più sforzo”. Sulla Buy i toni sono invece molto più distesi, colloquiali e amichevoli. “Le piaceva da matti fare la regista e sul set me lo confessava spesso. Le piaceva soprattutto sgridare gli attori, vero?”. “E dire stop! – chiosa la Buy - che ha sempre un potere incredibile!”.

Nel momento in cui qualcuno, inevitabilmente, tira in ballo la sua vera madre, Agata Apicella, Moretti glissa, svia, ostenta riservatezza e imbarazzo, come se non accettasse di mettersi a nudo al di là del perimetro del film. “In realtà il ruolo dei miei genitori nella mia formazione cinematografica non è stato molto attivo. Quando a diciannove anni ho detto loro che volevo provare a fare il regista, questa cosa molto vaga, si sono limitati a sostenermi, che non è poco, con discrezione e con affetto. In silenzio, senza far molto. Ma, ripeto, non è poco affatto”. 
A proposito di formazione e maturazione, Moretti ha poi le idee chiarissime. “Se considero questo film un punto d’arrivo della mia carriera? L’unico punto d’arrivo, per me, è la semplicità con cui è possibile raccontare certe cose. Quello sì che è un traguardo vero. In passato mi sono divertito a dare delle costanti al mio personaggio che mi piaceva ripresentare di film in film, ma oggi non avverto più quest’esigenza”. 
Moretti ovviamente catalizza l’attenzione, ma c’è spazio anche per qualche intervento aggiuntivo, ad esempio da parte della sceneggiatrice Valia Santella, amica di Moretti da tanti anni, che si esprime a proposito delle fasi di scrittura e riferisce di come il regista si prenda tutto il tempo necessario. “Il trattamento con Nanni dura molto. In quell’arco di tempo che va dal soggetto alla stesura della sceneggiatura vera e propria, lui è uno che si prende più tempo degli altri registi, mediamente. Pochi registi lo fanno, in realtà, ma è fondamentale, perché si tratta di delineare tutto il percorso emotivo della storia”. Un’emotività che Moretti ha sottolineato anche attraverso musiche già esistenti, una scelta non comune e non abituale per lui in colonna sonora, visto che di solito si affida a composizioni originali di musicisti fidati. “Però l’ho fatto già in Aprile. E anche nel primo episodio di Caro Diario, quello della Vespa. Ho sentito l’esigenza che qui servisse lo stesso tipo di approccio. La canzone di Jarvis Cocker, Baby’s coming back to me, me l’ha suggerita Valia Santella”. 
Qualcuno, in chiusura, ha l’ardire di chiedere a Nanni se alla fine è riuscito a romperne almeno uno, dei suoi duecento schemi. “Questo sono gli altri che devono dirmelo, coloro che guardano i miei film. Io da solo non posso farlo”. Infine un saluto per i giornalisti che seguivano la conferenza in streaming da Milano e il tentativo di verificare se il collegamento funzionasse o meno. Qualcuno lo rassicura in proposito dicendo di stare twittando con alcuni colleghi di Milano, e Moretti chiude il cerchio con una battuta che più morettiana non si può, anche per il modo unico in cui la scandisce lui: “Ma come, io parlo, e lei twitta con i colleghi di Milano?”.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Interviste

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PICCOLA PATRIA - Intervista a Maria Roveran

13/2/2015

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Maria Roveran nasce a Venezia nel 1988. Trasferitasi a Roma, frequenta il corso di recitazione del Centro Sperimentale di Cinematografia e, nel 2011, la Shanghai Theatre Academy. Alle esperienze teatrali e cinematografiche affianca la passione per la musica, che compone e interpreta. Nel 2013 è la protagonista del film di Alessandro Rossetto, Piccola Patria, di cui cura anche la colonna sonora. Grazie a questa interpretazione vince il premio come miglior attrice a Bimbi Belli, la manifestazione organizzata da Nanni Moretti al cinema Sacher. Nel 2014 è nel cast de La foresta di ghiaccio di Claudio Noce.

Si ringrazia Maria Roveran, che pur convalescente ha rilasciato a Orizzonti di Gloria l’intervista di seguito riportata. 

SC - In Piccola Patria si crea una sorta di identificazione tra il territorio e i suoi abitanti, uniti da un legame che definirei fisico. Il tuo personaggio, Luisa, è tra i più genuini appunto perché gioca con la propria fisicità. Condividi questa chiave di lettura?

MR - Esatto. Lavorare al film Piccola Patria è stata per me un’importante occasione di studio e di formazione, proprio perché per avvicinarmi di più all’anima del mio personaggio e alle dinamiche relazionali ed interpretative ho affrontato un percorso di ricerca che mi ha portato a lavorare molto fisicamente, oltre che a tavolino insieme ai miei colleghi e all’acting coach Nicoletta Maragno. Lavorare con il corpo mi ha permesso di cercare di avvicinarmi all’ambiente, al territorio e agli altri interpreti nella maniera più istintiva e animale possibile. Questa è stata un’esperienza che mi ha arricchito molto, sia dal punto di vista interpretativo e formativo che umanamente.

SC - Nel film alcuni scambi di battute sembrano saltar fuori da una commedia goldoniana. Qual è la differenza tra recitare a teatro e davanti alla macchina da presa? L'esperienza teatrale ti ha aiutato nell'interpretazione di Luisa, così esuberante e sfacciata? 

MR - Io credo che ogni esperienza nella vita non vada isolata e vissuta in maniera a sé stante. Le piccole e grandi esperienze che abbiamo la fortuna di vivere possono aiutarci a comprendere meglio le differenti piccole o grandi esperienze che verranno. Il teatro mi insegna sempre molto, mi fa aprire gli occhi anche su dettagli che altrimenti non riuscirei ad indagare e lo stesso avviene davanti alla macchina da presa. Ogni realtà pone luce su qualcosa, il compito più difficile è quello di mantenerci vigili e cercare di cogliere tante più cose vengano illuminate. Non è mai facile ma si tratta di una ricerca continua, il tentativo di comprendere cosa le varie circostanze ed esperienze ci stiano cercando di dire.  

SC - Le protagoniste di Piccola Patria sono due giovani annoiate. Ma, tutto sommato, fanno poco per combattere la monotonia, sono apatiche. Luisa però ha un'arma in più rispetto a Renata (Roberta Da Soller): è curiosa. Quale futuro immagini per Luisa? E per Renata?

MR - Le immagino in giro per il mondo, in luoghi forse lontani e forse le immagino distanti tra loro. Non nego però il mio desiderio di rivederle faccia a faccia ancora una volta e ancora una volta vicine.

SC - Per la colonna sonora del film hai composto e interpretato due brani, Piccola Patria e Va (Assime star). Quand'è nata l'idea di scrivere i pezzi di tuo pugno?

MR - È nata nel corso delle riprese del film e non è stato un processo semplice per me che, per quanto amassi cantare e scrivere, me ne vergognavo talmente tanto da cominciare a piangere ogni qual volta dovessi canticchiare in pubblico. Ho preso tutto questo come una sfida. C’era qualcosa che dovevo risolvere o almeno dovevo provarci… mi sentivo troppo stupida e in trappola! Per il percorso che ho iniziato a fare devo ringraziare Rossetto per avermi messo a nudo nella parte più inesplorata di me e per avermi fatto vedere le cose come stavano. Così ho scritto un paio di pezzi in dialetto proprio come se a scrivere fosse Luisa. Mentre lo facevo non sapevo che poi avrebbero fatto parte della colonna sonora del film.

SC - Esiste il film che ti ha cambiato la vita spingendoti a intraprendere la carriera cinematografica? E un’attrice a cui ti sei ispirata?

MR - No. Purtroppo non ho mai amato il cinema e non mi ha mai appassionato fino all’età di ventun anni, quando ho iniziato a frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia. Dico tutto ciò con amarezza perché purtroppo in alcune realtà di paese, come quella nella quale sono cresciuta, il cinema, il documentario, l’audiovisivo e le materie considerate “più artistiche” non vengono mai prese sul serio e per me è stato praticamente impensabile potermici avvicinare, poiché non facevano parte del sottobosco culturale che alimentava la società all’interno della quale sono cresciuta. Ancora oggi le cose non sono molto cambiate. Ho intrapreso questo percorso per caso e per egoismo ed è forse stata la scelta più complessa che abbia fatto nei confronti della mia vita e della vita delle persone a me care.
Tuttavia esistono tantissimi film grandiosi e tantissimi attori ed attrici che ammiro e che prendo come esempio. Io qui vorrei ricordare persone che per me sono figure guida come Alessandra Panelli e Costanza Castracane, mie ex docenti del CSC.

SC - Domanda di rito: progetti per il futuro?

MR - Sì. Ahahah… Poter rimanere in salute almeno per due settimane di fila.


A cura di Serena Casagrande

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NECROPOLIS - Presentazione Dvd e intervista Brocani

23/10/2013

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Lo scorso 10 Ottobre il romano Cinema Trevi, sede eletta per la proiezione dei restauri ad opera della Cineteca Nazionale e per molti incontri e appuntamenti cinematografici, ha ospitato un evento d’eccezione: la presentazione ufficiale della nuova edizione del dvd di Necropolis edita dalla Ripley’s Home Video, una riproposizione del capolavoro eccentrico e maledetto di Franco Brocani che dà nuovo lustro a uno dei film più seminali e angolari della nostra produzione sperimentale e di tutto il cinema italiano degli anni ’70. 
Il dvd, curato da Giulio Bursi, contiene al suo interno i cortometraggi È ormai sicuro il mio ritorno a Knossos con Mario Schifano e Luca Patella, Lo specchio a forma di gabbia e La maschera del Minotauro.
La proiezione della versione restaurata grazie alla Ripley’s è stata preceduta da un interessante incontro cui hanno preso parte i noti critici e studiosi cinematografici Roberto Turigliatto ed Enrico Ghezzi oltre allo stesso Brocani, classe 1938 ma con dalla sua un’incredibile e indistruttibile voglia di meravigliarsi, di coltivare quello “stupore” che lo stesso Ghezzi tira in ballo parlando del suo cinema. Brocani oggi è un anziano non pago del mondo e ancora curiosissimo e brillante, lucido e candido nonostante i molti acciacchi fisici.
“Come fu recepita la mia opera all’epoca? Be’, chiaramente non dissero né che era bella né che era brutta, si tratta di un film di fronte al quale non si può non sospendere il giudizio, un film alieno, diverso. Con delle immagini davvero sontuose, che però sono alquanto distanti sia dal cinema tradizionale e ufficiale dell’epoca che da quello più underground. Il suo fascino e la sua forza per me sono rimasti intatti.”
Altrettanto entusiasta è l’ex direttore del Torino Film Festival Turigliatto, che racconta la propria iniziazione a suo dire colpevolmente tardiva al cinema di Brocani, esaltandone i meriti e il valore: “È un cinema di scenografie enormi e pensato en plein air, lontano dall’imbalsamazione che si respirava nel cinema di quegli anni. Dietro ad esso ho poi scoperto un cineasta davvero propenso allo studio, un vero regista-lettore sul modello godardiano che tra le sue letture ha Valéry e Nietzsche. Una stirpe di cineasti che poi è proseguita con altre personalità, si vedano per esempio Julio Bréssane e João César Monteiro. Brocani possiede una biblioteca sconfinata ma gli è del tutto estranea ogni forma di intellettualismo. Come Godard, egli vive nel continuo superamento di sé, nella collezione e ricreazione dei testi letterari, nel cinema come attraversamento del linguaggio. È un regista scrittore e bibliofilo che passa attraverso le forme per modificarle. D’altronde il cinema è proprio questo, un crocevia impuro in cui forme e linguaggi si incrociano in vesti vampiresche, nutrendosi di tutto ciò che incontrano. Il suo e il cinema tutto è una specie di Frankenstein, dopotutto.”
Non è un caso se è proprio un corto di dodici minuti dello stesso Brocani dedicato alla mostruosa creatura nata dalla fantasia di Mary Shelley a essere proiettato subito dopo la conferenza di presentazione, un’illustrazione poetica e assai ben documentata della storia di Frankenstein e del suo mito imperituro. Brocani evidenzia i tratti letterari della figura ma anche i suoi aspetti più misteriosi, affascinanti ed evocativi, riuscendo a coniugare la perizia quasi scientifica della disamina colta e ben documentata con l’afflato accorato per le sorti dell’essere mostruoso, nel quale, per forza di cose, il suo cinema finisce col rispecchiarsi e col riconoscere il proprio volto.
Frankenstein è d’altronde un simbolo ben rappresentativo della natura non allineata del cinema di Brocani; un regista che, come amava dire il suo amico Mario Schifano: “voleva fare il cinema e ha sempre fatto di tutto per evitarlo”. Una frase bellissima ed esemplificativa, cui fanno eco gli elogi tessuti da Enrico Ghezzi: “Nel cinema di Brocani c’è un respiro che lo pone direttamente al livello di grandi autori internazionali: qualcosa di Straub, qualcos’altro di Werner Schroeter. Io personalmente, per una serie di ragioni, ho visto il film per tre volte nell’ultimo mese e ogni volta ho cambiato idea al riguardo, specie quando poi si è trattato di doverne parlare. A dimostrazione della natura di un film che esce continuamente da se stesso e da qualunque pagina di storia e di storia della cultura, coltissimo, che ammassa citazioni e personaggi che sono essi stessi citazioni, viventi (e morenti). Davvero un’opera di una densità imparagonabile, con all’interno la presenza eccezionale di Carmelo Bene che è un trappola meravigliosa e autotesa, pronta a scattare come il più splendido dei tranelli.”
“Necropolis – continua Ghezzi - è un film che inneggia a un cinema dello stupore, di fronte al quale ogni volta ci si ritrova a sentire qualcosa di diverso. D’altronde, bisognerebbe sempre agire come se una cosa la si vede per la prima volta, sarebbe la condizione massimamente auspicabile. Non è possibile decifrare tutti i codici, è un’idea pazza, ma c’è più godimento nel mero atto del vedere, forse. E poi quest’idea di Roma che è uno stupro, un sostrato in cui trapela la precisa geografia politica e territoriale degli anni ’70, anche se parliamo pur sempre di una Necropoli sulla quale si installa non solo Roma ma l’Italia tutta. Il titolo è un gioco di parole che fa quasi ridere, e forse è proprio il caso di riderci sopra. Possiamo, quindi dobbiamo farlo…”
Sulla nuova edizione in dvd del film, l’autore di Fuori Orario si lancia in notazioni cromatiche dal peso non indifferente: “La prima volta che ho visto il film – iniziato, perché allora non ti cacciava nessuno dalle proiezioni – mi trovavo a Genova, io e un mio amico, ci mancavano un sacco di codici per decifrarlo ma ci rimase comunque assai impressa l’oscurità corrusca di quella copia, così pregna di un blu che ora è quasi sparito, diventando più baluginante. Di fatto, il film è diventato (un) altro. Ricordo che all’epoca non riuscivamo a vedere attraverso il film, era come se ci respingesse.”
In definitiva, Necropolis è per Ghezzi “un disegno coerente, d’autore, il parto di una mente consapevole. Un film di oggi e un pochino di domani, che visto adesso pare perfino più pulito, quasi al livello del grado zero di uno studio televisivo.” “In effetti, mi sembra di vedere qualcosa che non ho fatto io – incalza lo stesso Brocani – ma rimane chiara e nitida la visione della cultura come un immondezzaio, basti vedere la scena dei pezzi di pellicola che vengono fuori dalla spazzatura, i veri e propri tagli esclusi dal final cut di Necropolis. Nel mio film c’è tutto ciò, anche se è celato dentro a una cornice completamente cifrata e ammantato da un’atmosfera magica ed enigmatica. A ricordarlo oggi non so come sono riuscito a fare un film così, che ora come ora sarebbe impossibile. Ci si sono avvicinati coi loro esordi Ciprì e Maresco, al limite, ma tra esso e la loro tipologia di cinema c’è davvero un abisso.”
La chiusura è icastica, di quelle che possono darti da pensare per giorni e giorni: “quel miracolo è lontanissimo. A dire il vero, non so se il cinema è degno di un miracolo. Io so che c’è stato, però. L’ho conosciuto.”

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Interviste

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LA VIE D'ADÈLE - Incontro con Abdellatif Kechiche

18/10/2013

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È il film più stellato di sempre dai critici di Cannes. 261mila ingressi in Francia (fino ad ora, ed è solo il primo week-end di programmazione) e un consenso planetario piovuto addosso a un’opera che parla la lingua della vita, delle viscere del cuore, con una forza impossibile da metabolizzare senza rimanerne tramortiti ed estasiati al tempo stesso. 
“Non mi interrogo mai a priori su ciò di cui il mio film dovrà parlare o dei suoi temi, mi lascio trascinare dalla forza della storia", racconta il regista Abdellatif Kechiche nella conferenza stampa romana. "Il film parla d’amore ma anche dell’importanza del caso, del destino, della casualità che sta dietro a un incontro decisivo come quello di Adèle ed Emma, che per la prima volta si intravedono a un semaforo. Si tratta anche dell’incontro tra due mondi familiari diversi, quello intellettuale e borghese da un lato e quello proletario dall’altro, come a suggerire che l’amore resiste benissimo alle differenze di classe. La vita di Adele però è soprattutto il racconto di un’iniziazione, un passaggio dalla gioventù all’età adulta da parte di una giovane donna che è quasi un’eroina, capace di andare avanti con coraggio nonostante gli ostacoli che incontra. Ciò che mi piaceva mostrare era proprio questo grande senso di libertà.”
Entusiasta anche Jérémie Laheurte: “Sul set c’erano grossi input e grande spazio per creare, si è creata una certa fiducia fin da subito. È stato straordinario per me lavorare a un film di Abdel, un regista che fa propria una notevole istintività ma con un’attenzione costante all’equilibrio. Kechiche ha un modo particolare di lavorare ma per me è stata un’esperienza d’attore straordinaria”.
Adèle Exarchopoulos invece, in barba alle recenti polemiche che l’hanno vista protagonista anche se in posizione più defilata rispetto alla collega Léa Seydoux, loda l’atmosfera sul set: “Il film vanta un grande sforzo d’equipe, con un lavoro di costruzione continua e la possibilità, per me, di aver vicino dei grandi attori. Non c’è nessuna costrizione entro dei limiti da parte di Abdel; per esempio, nella scena del bus con Jerémie, ci siamo lasciati andare all’improvvisazione. Mi ha aiutato molto l’aver girato in ordine cronologico, la mia età era quella della protagonista e quindi ho vissuto direttamente sulla mia pelle e dal di dentro l’esperienza di maturazione che la riguarda. Ci sono poi dettagli fisici che mi accomunano alla protagonista: il toccarmi in modo particolare i capelli, per esempio, una cosa che fanno molte donne e che anche io faccio spesso. Adèle mangia, balla, ha appetiti sessuali: mi è piaciuto molto dover interpretare tutto ciò.”
Per Kechiche quella di Adèle è una “magia istintiva”: “Qualcosa di quanto più autentico possibile, che non ha dietro chissà quali riflessioni o elucubrazioni intellettuali. I gesti coi capelli e tutte le altre cose che Adèle fa, anche le più irrilevanti come tirarsi su i pantaloni, sono venuti fuori in modo molto spontaneo, pensavo che avrei dovuto lavorarci moltissimo sopra per ottenere una naturalezza che mi soddisfacesse e invece così non è stato. Tutti quei comportamenti anche un po’ civettuoli che Adèle compie sono emersi in maniera assolutamente automatica.”
Interrogato sulla portata universale e per molti aspetti colossale del suo cinema, Kechiche coglie l’occasione per parlare della sua visione della settima arte, con i margini e le aspirazioni a essa connesse: “Il cinema ci permette di esplorare in modo più profondo che nella vita l’intima verità che è dentro di noi; abbiamo quello schermo che ci protegge e quindi possiamo guardarci meglio dentro come esseri umani. Da regista cerco degli attori disposti a donarsi completamente, per questo ho scelto Adèle; ha avuto una verità tale nell’esprimersi che in fase di montaggio ho deciso di chiamare il film col suo nome. Personalmente, ho un bisogno quasi viscerale di instaurare delle relazioni intime sul set ma anche con coloro che mi stanno intorno nella vita, ho grande tenerezza per gli attori che porto sullo schermo e in generale per gli esseri umani. È questo, forse, a determinare la continuità stilistica dei miei film.”
Immancabile la domanda sulle polemiche che hanno investito il film, con l’interprete Léa Seydoux che ha fortemente criticato i metodi coercitivi del regista de La schivata: “Il film ha avuto una vita avventurosa già durante le riprese. Io credo che sia una storia che ha toccato così da vicino coloro che vi hanno partecipato da diventare uno specchio: tutto il dolore che c’è dentro può bruciare e suscitare azioni violente e penso che i premi, le polemiche o le critiche siano tutte azioni viscerali anch’esse, come se una qualche divinità si divertisse a riversare su di noi le cose belle ma anche gli aspetti meno positivi a suo piacimento.” Si torna poi a parlare di Spielberg, di un cineasta che fa un cinema diametralmente diverso da quello di Kechiche e che pure l’ha premiato con la Palma d’Oro: “È un grande uomo oltre che un grande regista, che ama tutto il cinema. Davvero non capisco coloro che erano scettici e che mi dicevano che Spielberg difficilmente avrebbe apprezzato il mio film. È un uomo integro e onesto e mi rende felice che il premio sia venuto da un cineasta come lui. Il suo Il colore viola, poi, mi aveva molto impressionato. In fondo la mia Adèle è un’eroina, si potrebbe dire che è la mia Indiana Jones.”
Kechiche, in chiusura, non nasconde la soddisfazione per il risultato finale: “Di solito sono più tormentato sul final cut, ma stavolta la mia frustrazione è minore. Ho l’impressione che il film sappia dove vuole andare, che abbia la forza per camminare sulle sue gambe. C’erano anche delle scene per me molto belle che ho dovuto tagliare per ragioni di tempo essendo il film già molto lungo; alcune lezioni per esempio, di scienze e di letteratura. Mi piacerebbe farvele vedere in qualche modo, anche se non so quanti vedranno la versione integrale del film che sarà nel dvd. Però posso dirvelo, non durerà quattro ore.” 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Interviste

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ARRUGAS (RUGHE) - Intervista a Ignacio Ferreras

27/9/2013

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In occasione della decima edizione del Treviso Comic Book Festival è stato presentato Arrugas, film d'animazione 2D distribuito in Italia da EXIT Media. Il regista Ignacio Ferreras ha risposto alle domande di Orizzonti di Gloria.

Cosa pensi della situazione attuale del cinema di animazione in Europa?

Quel che è certo è che personalmente non intendo la cosa in questi termini. Quando penso al cinema mi riferisco a film e a registi “concreti”, non a Paesi o all'Europa. E la verità è che non sono molto sicuro che si possa parlare di cinema europeo in quanto tale o di Europa come unità in questo senso; credo che le differenze culturali ed economiche che esistono tra i diversi Paesi dell'Unione Europea siano troppo grandi per generalizzare. Si dovrebbe analizzare la realtà di ogni singolo Paese. Così, per esempio, direi che la situazione in Spagna, che non è molto positiva, è ben diversa da quella che troviamo in Francia, che è migliore, anche se non senza difficoltà. E confesso che la situazione della cinematografia di animazione in Italia mi è del tutto sconosciuta.

Potresti descrivere in che modo hai affrontato l'adattamento del fumetto di Paco Roca?

Credo che in Arrugas, come in ogni adattamento, la cosa più importante sia trovare il giusto equilibrio tra la fedeltà all'opera originale e i cambiamenti necessari per trarre il maggior vantaggio possibile dal mezzo filmico. Arrugas nasce da un fumetto che è già di per sé molto cinematografico. Se da un lato ciò rappresenta un grande vantaggio, dall'altro diventa un limite perché, sebbene questa peculiarità ti fornisca molto materiale utilizzabile praticamente così com'è, corri anche il rischio di perdere di vista il film e di limitarti a seguire il fumetto. Credo che sia facile cadere in questa trappola e realizzare un film piatto e poco interessante dato che, benché il cinema e il fumetto siano mezzi di comunicazione con elementi comuni, ne presentano ovviamente anche di differenti; non tutto ciò che funziona bene nell'uno funziona pure nell'altro. Per questo è stata una grande fortuna poter contare su Paco Roca, che ha capito molto bene sin dall'inizio la differenza tra i due mezzi. È sempre una preoccupazione comprendere che tipo di rapporto si instaurerà tra il regista e l'autore dell'opera originale, però nel caso di Arrugas, si è trattato di un ottimo incontro, molto produttivo.
Il processo di adattamento è stato fortemente visivo sin dall'inizio: abbiamo lavorato soprattutto allo storyboard e all'animazione per riuscire a realizzare il film nella sua forma finale. Durante questo processo credo che sia stato davvero importante il ruolo svolto da Rosanna Cecchini, che non aveva letto il fumetto (e non lo ha letto finché non abbiamo completato l'animazione). Così ha potuto guardare al nostro lavoro non come un adattamento bensì come un'opera originale, particolare che considero rilevante. Ritengo che nel corso del processo di adattamento sia importante che venga coinvolta una persona che non conosca l'opera da cui è tratto il film e che veda il materiale con occhi “puliti”.

Emilio e Miguel sono dei personaggi estremamente realisti e autentici. È stato difficile affrontare le problematiche legate alla malattia e alla vecchiaia?

Sarebbe presuntuoso e di fatto ridicolo dire di sì, perché ovviamente non ho affrontato personalmente né la vecchiaia né la malattia, di certo non una malattia come il morbo di Alzheimer. Per quanto cerchi di mettermi al posto dei personaggi, la mia visione come regista è pur sempre un approccio “dall'esterno”, l'approccio di qualcuno che racconta il vissuto di altre persone. La posizione del regista di un film è quella di qualcuno che osserva lo sviluppo della battaglia da lontano; è una posizione comoda, distante e persino superficiale. Credo che ogni forma d'arte autentica cerchi sempre di riflettere con veridicità la realtà di una situazione, però inevitabilmente non ne è mai all'altezza; anche l'arte più eccelsa non fa che grattare la superficie della realtà.
Quel che è pressoché certo è che un giorno anch'io, come la maggior parte di noi, sperimenterò di persona la vecchiaia e la malattia; solo allora potrò dire di aver davvero affrontato queste condizioni. Ma in quel momento non sarò di sicuro capace di realizzare un film al riguardo.  

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Interviste

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APACHE - Intervista a Thierry de Peretti

19/8/2013

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Si dice spesso che i grandi letterati e, in generale, gli artisti siano coloro che riescono a dire con parole e immagini quello che noi “comuni mortali” abbiamo dentro e/o abbiamo vissuto, ma che non sapremmo raccontare allo stesso modo.
Thierry de Peretti sceglie la Corsica, il suo Paese d'origine, per il debutto nel lungometraggio, spinto dalla voglia di raccontarne le contraddizioni e le ombre che la abitano. “Mio padre è originario proprio del luogo dov'è avvenuto il fatto di cronaca nera a cui mi sono ispirato per “Apache”, ossia Porto Vecchio nel Sud della Corsica, ma non posso considerarlo un film autobiografico perché sono andato via quando avevo sedici/diciassette anni. Proprio per queste origini ho deciso di ambientare in quei luoghi il mio esordio alla regia, mosso anche dalla voglia di rappresentare la Corsica (pochissimo raffigurata sia sul piano delle arti visive che in campo letterario) come non si è mai vista, scegliendo di misurarmi con una storia difficile e non facendo agiografia". 
"Quello di Porto Vecchio è un ambiente pieno di differenze. C'è un capitalismo molto prospero, molti personaggi dello spettacolo che vengono appositamente per la bella stagione e intere famiglie che si sono sviluppate in conseguenza di questa invasione e detengono le imprese. C'è una gioventù privilegiata e una gioventù un po' grigia che non sta né da una parte né dall'altra. È una regione che ha avuto un'esplosione di ricchezza negli ultimi dieci/quindici anni e dove vige una forte separazione sul piano etnico e razziale dominata da un paradosso interno in quanto, per esempio, i ragazzi si ritrovano tutti indistintamente nello stesso liceo (essendo l'unico) e poi, quando la scuola finisce, si dividono, ognuno nella propria comunità. Ma le vere separazioni sono sociali” e questo in Apache lo si nota eccome, merito della struttura drammaturgica e dei pochi, ma incisivi dialoghi.
De Peretti focalizza l'attenzione su una parte del racconto, quella che riteneva la più significativa, così da addentrarsi nelle tante sfaccettature insite in “questa sorta di confine smussato” e utilizzare l'arte in senso catartico senza risultare pretenzioso. “Una delle sfide che si pone il film è quella della memoria collettiva di un ambiente, di una piccola comunità, intento che va di pari passo con la scommessa di provare a esorcizzare il delitto scegliendo di girare nei luoghi in cui il crimine era accaduto senza ricostruirli, partendo dall'idea che questo crimine appartiene alla collettività e non solo alla mia visione registica”.
Facendo tesoro dei suoi punti di riferimento (vedi Pier Paolo Pasolini) e del background teatrale, il regista corso non ha voluto attori professionisti per rappresentare questa gioventù “invisibile” e un po' allo sbaraglio, ma ha scavato nell'humus umano di quella zona. “Ho lavorato per più di un anno facendo un workshop e un casting permanente così da incontrare quasi il 95% degli attori tra i sedici e i vent'anni; questo mi ha permesso non solo di formare il cast, ma anche di farmi un'idea precisa di come fosse questa gioventù. Abbiamo molto lavorato sull'improvvisazione, sulla sceneggiatura e sulla creazione di scene non presenti nello script; ma la cosa più importante che abbiamo fatto è stata restare insieme un anno. Io vengo dal teatro per cui ci tengo a vivere con gli attori, a costruire dei momenti in cui non accade niente, non ho come obiettivo primario la performance, mi piace che si crei un gruppo con cui si possa assaporare il gusto di vivere insieme la giornata”.
Una scelta insolita e che colpisce sin dal primo fotogramma è stata quella di girare nel 4:3 classico. “È il formato del ritratto, del cinema primitivo, mi piace molto e mi sembrava il formato più adatto per realizzare un contrasto tra l'evento di cronaca e il modo anti-documentaristico di girare, così da creare uno shock tra la dimensione della realtà e la messa in scena”.

Il resoconto è tratto dalla conferenza di presentazione del film, avvenuta a Roma presso il Cinema Quattro Fontane, il 26 luglio 2013.

Maria Lucia Tangorra

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TULPA - Intervista a Federico Zampaglione

19/6/2013

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In occasione dell'uscita nelle sale del controverso Tulpa abbiamo fatto una chiacchierata con Federico Zampaglione, per toccare temi inerenti il film e argomenti collaterali come la situazione attuale dell'horror italiano, la distribuzione e certe storture create dalla stampa.

Il 20 giugno finalmente Tulpa esce nelle sale, anche se ha già avuto qualche proiezione pubblica, ad esempio al Noir Festival a dicembre. Si è già parlato molto del film, ancor di più se ne parlerà nelle prossime settimane. Sei soddisfatto dei riscontri finora ottenuti? Ti aspettavi qualcosa di diverso, nelle reazioni della gente e degli addetti ai lavori?

Sono molto contento, ad alcuni piace molto ad altri affatto. Insomma divide, ma tutti gli riconoscono uno stretto legame con i grandi gialli del nostro periodo aureo. Direi che è facilissimo esaltare un film come Tulpa, come è facile farlo a pezzi . Dipende da quanto ti va di stare al gioco e divertirti. 

Tulpa è un chiaro e forte omaggio al glorioso cinema horror italiano degli anni Settanta/Ottanta. Quanto pensi possa essere utile, oggi, la riproposizione di quegli schemi e di quelle tematiche? Non si rischia a tuo avviso di restare un po' troppo ancorati al passato?

Nel mio film si sente molto la mano di Sacchetti, che ha portato con sé quelle atmosfere. Il mondo dei privè però è un elemento contemporaneo, così come l'utilizzo delle musiche e di una certa fotografia. Gli effetti speciali sono stati creati con mix sperimentale  di analogico e digitale,  e si sono visti per la prima volta su uno schermo. Leggo recensioni da tutto il mondo che parlano di scene di morte spettacolari e originalissime. Per il futuro, sempre se continuerò a fare film, mi piacerebbe approfondire il lato della sceneggiatura, che per il momento considero la mia parte meno solida.  

Nel film ho apprezzato il fatto che le scene più violente e sanguinarie siano mostrate al pubblico in modo diretto, senza pudore, evitando la facile scorciatoia del "fuori campo"; una scelta coraggiosa, visto che in questo paese siamo ancora qui a dover fare i conti con le mannaie medievali della censura. Sei d'accordo?

Con Shadow avevo puntato tutto sulle atmosfere, in Tulpa l'aspetto grafico è preponderante e a volte sopra le righe. Comunque non avrebbe avuto senso fare un giallaccio all' italiana senza sesso e violenza in buone quantità.

A proposito di censura: hai avuti problemi in tal senso? Richieste di tagli? Il film esce integrale?

Sono andato personalmente in censura a difendere il film e per fortuna non ci sarà alcun taglio. Il film  sarà però vietato ai minori di 14 anni... mi sembra cosa buona e giusta.

La protagonista del film, Lisa, pur essendo una manager di successo, frequenta un sex club per sfogare le frustrazioni e la solitudine che la circondano nella vita di tutti i giorni. A tuo parere questo personaggio può rappresentare un simbolo della malinconia che regna nella società contemporanea, dietro alle maschere che un po' tutti siamo costretti a indossare?

E' questo l'elemento più contemporaneo del film: la realtà mordi e fuggi, la crisi economica, la corsa verso il potere sfrenato e totalizzante contrapposto all'animalità, alla fragilità e al tentativo di sentirsi ancora vivi e pulsanti. Siamo piccole schegge impazzite gettate in un universo delirante.

Nel film la tua compagna è protagonista di molte scene di sesso piuttosto audaci, e con partner diversi, uomini e donne. Quanto è stato difficile filmare questi momenti, dovendo a tutti i costi accantonare ogni imbarazzo e separare la realtà privata e la finzione scenica?

Non e' stato affatto difficile. Lei e' un attrice e io un regista, ho solo cercato di farle dare il massimo per la buona riuscita del film e lei si è lasciata guidare. Il set è il set, la vita reale è tutta un'altra storia.

In poche settimane escono al cinema La stanza delle farfalle di Zarantonello, l'antologia collettiva P.O.E. e il tuo Tulpa. Pensi sia solo una fortunata coincidenza, o credi che davvero, finalmente, i distributori abbiano deciso di dare nuovo spazio all'horror italiano?

Il problema non sono solo i distributori, loro lavorano su ciò che funziona. La chiave vera è il pubblico. Se decideranno di smetterla di scaricare tutto e ricominceranno a sostenete questo genere andando in sala, vedrete quanto cinema di genere italiano ci sara' nei prossimi anni.

Non ti dà fastidio dover essere ogni volta etichettato dai media come "nuovo Re dell'horror", o definizioni simili, francamente stupide e fuorvianti?

E' una stronzata, una fesseria inventata dalla stampa che mi infastidisce e mi danneggia. Non sono re di nulla, sono un appassionato di un certo cinema che sta  cercando di crescere e crearsi un suo stile.  

A Courmayeur ho assistito a scene poco edificanti, con alcuni "colleghi" che hanno pesantemente criticato il tuo film durante la proiezione, salvo poi, a titoli di coda ultimati, venire da te e prostrarsi in mille complimenti. Non credi che questi atteggiamenti, per quanto purtroppo normali, siano perfino dannosi per chi invece potrebbe magari ricevere qualche consiglio utile per migliorarsi?

La vita è così e non puoi farci molto. Comunque mi accorgo di solito quando qualcuno mente. Sono una persona sensibile ed intuitiva. In ogni caso , ti ripeto, non mi esalto per critiche buone come non mi deprimo per quelle negative. Solo su Youtube ho superato i 40 milioni di visualizzazioni su di me, con migliaia di commenti, e ho letto di tutto e il contrario di tutto. Quello che conta è che io sia soddisfatto di ciò che sto facendo. E complessivamente  lo sono.

Mi citi cinque film che nella tua vita hai amato tantissimo, e che sono stati fondamentali e imprescindibili per convincerti a provare una carriera da regista?

Profondo Rosso, The Beyond, Alien, Shining, La passione di Cristo (un grande torture porn).

Una curiosità: nei prossimi giorni andrai in qualche cinema, "in incognito", come alcuni fanno, per spiare le reazioni della gente durante le proiezioni del film?  

Non lo escludo (risata... ndr) 

Ultima domanda di rito: i tuoi progetti futuri, nel cinema e nella musica.

Un nuovo album su cui sto lavorando, mi piace molto ed è ispirato al cinema di genere come sonorità. 


Alessio Gradogna


Sezione di riferimento: Interviste

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P.O.E. - Presentazione e tavola rotonda

8/6/2013

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La presentazione alla stampa di P.O.E. – Poetry of Eerie presso la Casa del Cinema ha dato luogo a un dibattito di indubbio interesse, utile per far luce anche sullo stato di salute attuale dell’horror italiano e delle direzioni verso cui esso si rivolge. Un cinema spesso osteggiato dalle istituzioni ufficiali con motivazioni e prese di posizione a dir poco risibili, non ultimo il castrante e quanto mai anacronistico esercizio della censura che qualche longevo esponente delle alte sfere continua a ritenere perfino un’operazione salutare e necessaria.
P.O.E. sarà vietato ai minori di 18 anni in maniera un po’ inspiegabile, cosa che di sicuro gli precluderà una discreta fetta di mercato. Il regista Domiziano Cristopharo, uno dei principali e decisivi artefici del progetto, di fatto una specie di caposquadra in termini pragmatici, a tal proposito ha le idee molto chiare. “In P.O.E. non ci sono droghe, non c’è volgarità, non ci sono scene di nudo, c’è poco sangue e quasi nessuna violenza. Cioè, passano film come i vari Vacanze di Natale e il nostro film no? Per carità, vanno bene anche quei film là, però il nostro evidentemente dà fastidio a qualcuno. Come fai infatti a trovare una giustificazione per continuare a dare i soldi ai raccomandati, se puoi arrivare in sala anche solo con le idee?” Approfittando della presenza di Raffele Picchio, regista dell’horror gladiatorio Morituris chiamato a partecipare alla tavola rotonda sull’horror italiano successiva alla conferenza stampa di P.O.E., Cristopharo scherza e sdrammatizza: “Entrare con Picchio alla commissione censura è stata una scelta di marketing; lui ormai lì è una star, il suo film è stato bannato del tutto dalla commissione censura, solo Pasolini c’era riuscito”.
Il presidente di Distribuzione Indipendente Giovanni Costantino, dietro l’ironia, lascia invece trapelare una rabbia ben più tagliente, assai comprensibile e condivisibile: “La leggerezza degli uffici ministeriali nei riguardi di certi temi e situazioni è scandalosa. Vista la decisione presa, a questo punto giochiamo sporco anche noi rispondendo a tono e lo spacceremo, per l’evidente delusione dei veri fan dell’horror, come il più grande film di paura del 2013. D’altronde, siamo riusciti dove neanche Rob Zombie ce l’aveva fatta”. Costantino parla anche delle scelte fatte a proposito degli episodi che poi sono effettivamente andati a comporre l’organigramma del film: “Abbiamo preso quelli che, vuoi per tempo, ritmi e via dicendo, erano più vicini l'uno all'altro, che si amalgamavano meglio tra loro. In alcuni degli altri c'era uno stacco stilistico più evidente, che avrebbe portato nel tutto una certa disarmonia. Abbiamo deciso di distribuire la versione integrale solo in seguito, per creare anche una sorta di attesa (il film intero sarà disponibile on demand su www.ownair.it dal 14 Giugno 2013, ndr).
Un progetto, quello di P.O.E., che sbarca in sala due anni dopo il suo effettivo concepimento. “La cosa è nata due anni fa in un festival indipendente - continua Cristopharo - ed il bello con gli altri è stato proprio vedere che c’eravamo, che eravamo tutti sulla stessa barca. Allora, ci siamo detti, perché non provare a fare qualcosa tutti insieme? Abbiamo deciso di fare questo film insieme per avere maggiori possibilità di farci conoscere e di promuovere il nostro lavoro, pur avendo a disposizione budget e tempi di realizzazione in verità molto limitati. Così abbiamo deciso di trovare un argomento comune per far sì che i cortometraggi fossero omogenei. Poe, che è lo scrittore dell'incubo per eccellenza, ci è sembrata la scelta ottimale. Poi ci siamo posti un limite di tre giorni per le riprese, in modo che partissimo tutti dalla stessa condizione e che non ci fossero dislivelli troppo evidenti tra un episodio e un altro. L'idea era anche unirsi per dire che ci siamo: stando insieme si è sempre più forti. Si parla sempre molto di rinascita dell'horror italiano, ma la verità è che l'horror italiano non è mai morto: i film in realtà si continuano a fare, il problema è che il più delle volte non escono qui ma vanno solo all'estero, anche direttamente in Dvd. Bisognerebbe ridare al genere una visibilità che al momento non ha”.
A proposito della genesi creativa del film, Cristopharo chiarisce che l’approccio non è stato, com’è evidente, in alcun modo filologico. “Volevamo evitare il Poe abusato e ci siamo detti tassativamente di non inserire castelli gotici alla Corman; volevamo qualcosa che profumasse di nuovo, mantenendo il senso di base del racconto e attualizzandolo. Edo (Edo Tagliavini, il regista dell’episodio La verità sul caso Valdemar) è entrato in contatto con noi sul web e ha voluto partecipare. L’ultimo episodio di matrice nipponica, Canto, è chiaramente fittizio, l’ho girato io stesso, non esiste nessun Yumiko Satura Itou. Avere tredici episodi faceva figo, anche per il mercato americano, alla luce di ciò che il numero tredici suggerisce in un contesto horror…”.
P.O.E., tra l’altro, ha già un sequel, che paradossalmente ha maturato un ciclo vitale in festival e dintorni quasi appaiato al primo capitolo. “È già stato presentato e ha vinto un premio a Torino. Il seguito è proprio un horror a tutti gli effetti, sarà bannato a vita di questo passo. Uno degli episodi in Australia è già stato bandito”. Tagliavini, sul suo segmento, rivela: “Non nascondo che ho cercato l’episodio con meno personaggi, visto il poco tempo a disposizione.” Paolo Gaudio, invece, che ha diretto il corto in stop motion forse più vicino allo spirito reale di Poe, Il gatto nero, pone l’accento sulla volontà di giocare sul personaggio: “Ho voluto puntare tutto sull’aspetto di Poe e per farlo ho dovuto in qualche modo tramutarlo, alterando i suoi connotati, rendendolo divertente e sottolineando l’aspetto buffo della sua fisicità”. 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Interviste

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BEKET - Presentazione e intervista a Davide Manuli

19/5/2013

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È un film che nasce dalla frustrazione, Beket. Ed è un malessere che si respira tutto, fotogramma per fotogramma. “Dovevo dirigere un film sul doping, ho fatto anni di tentativi. Poi mi sono detto che dovevo provare a realizzare un film nel modo più veloce possibile, a costo zero. E a quel punto mi è venuto in mente Beckett. Conosco il suo lavoro, vengo dal teatro. Ho posto due persone in un deserto, girando una pellicola in una decina di giorni in Sardegna.” 
Un’opera in bianco e nero, metafisica e mefitica, fuori dal tempo. “I miei tre film li ho fatti in bianco e nero, è vero, ma i prossimi credo proprio che saranno a colori. Qui volevo restituire il senso di un'attesa, la stanchezza di aspettare; è da lì che il mio film vuole partire. Una specie di road movie appiedato che colga l’atmosfera e il mood di Beckett. La sua cupezza dark doveva dare un senso di modernità, e ne volevo catturare il colore. Un colore che per me corrisponde assolutamente col bianco e nero. Il suo colore vero è quello lì.” 
Un film che costituisce un vero e proprio dittico con La leggenda di Kaspar Hauser, lavoro che Davide Manuli ha realizzato riunendo un cast importante (addirittura Vincent Gallo in un doppio ruolo) e che si pone anche in quel caso come una libera re-interpretazione, nella fattispecie del celeberrimo capolavoro di Werner Herzog. “Montato in venti giorni, è passato all’ultimo Locarno. I produttori volevano che bissassi l’esperienza e io ho accettato. Ho proposto la mia idea, volevo che fosse una versione più arcaica della storia, a differenza del film di Herzog. Doveva essere incentrato sul nulla, il vuoto senso, quella totale assenza di comunicazione che contraddistingue il nostro tempo e la sua assurdità. Mi interessava indagare la socialità di Hauser, comprendere se qualcuno l’aveva veramente ascoltato. Vi ho voluto nuovamente Fabrizio Gifuni, che in Beket interpreta una specie di Caronte, al fianco di Claudia Gerini, Vincent Gallo e Silvia Calderoli.” 
E sono proprio i suoi attori per primi a spendere parole lusinghiere su Manuli, ad esempio Simona Caramelli: “Davide non improvvisa sul set; a differenza di quello che si potrebbe credere è molto lucido, sa quello che vuole. I suoi set sono tremolanti e vibranti e per giunta ti dà una chiave di lettura interessante per il tuo ruolo d’attrice. Io per il mio personaggio mi sono ispirata a delle creazioni di Salvador Dalì, su sua indicazione”.
Entusiasta di Manuli anche il bravo Luciano Curreli, attore poco noto ma anche nome di punta di un certo sommerso cinema di qualità nostrano, visto di recente nel ruolo del padre respingente, trasandato ed erotomane delle Bellas Mariposas di Salvatore Mereu. “Con Davide siamo amici, ho trovato molte cose in comune con lui, siamo molto più che colleghi e le nostre vite sono entrare in relazione. I suoi set vanno sempre al di là dell’esperienza lavorativa fine a se stessa. I suoi film hanno una longevità rara e differente, non certo come la roba di oggi che la vedi due settimane nei multisala e poi sparisce dalla tua vista. E la cosa bella di lui è che con Davide puoi fare film liberi, privi di mediazione”

Il resoconto è tratto dalla conferenza di presentazione del film, avvenuta a Roma alla Casa del Cinema il 9 maggio 2013.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Interviste

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NELLA CASA - Intervista a François Ozon

17/4/2013

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Incontriamo François Ozon in lussuoso albergo romano nei dintorni di via Veneto, avvolto nella solita raffinatissima classe irreprensibile e in quel sorriso fascinoso. Il regista transalpino è a Roma per presentare il suo nuovo film, Nella casa (Dans la maison), che apre il Rendez-vous romano del cinema francese (fino al 21 Aprile) e che dal 18 aprile arriva nelle sale. A scanso di equivoci un film importante per la carriera e la poetica dell’autore di 8 donne e un mistero, un’opera ambiziosa, sottile e complessa, legata a doppio filo col tema dell’ossessione. 
“Non è voyeurismo da intendere con una connotazione necessariamente negativa: per poter raccontare una storia io ho bisogno di partire dalla realtà, e questo posso farlo attraverso delle ricerche o, più semplicemente, osservando ciò che mi sta intorno”. Ascoltandolo, si percepisce bene l’amore suadente e l’affezione profonda di Ozon per i suoi personaggi: Germain e Claude, ovvero un professore (Fabrice Luchini) che sprona un alunno (Ernst Umhauer) a continuare a scrivere un tema a puntate, come un fotoromanzo, che altro non è che un resoconto venato di letterarietà del tempo che il giovane passa col suo migliore amico Rapha e la sua famiglia. “I miei personaggi sono caratterizzati da solitudine e noia. Mi interessava tratteggiare caratteri malinconici, persi, smarriti e alla ricerca del senso della vita, di qualcosa che li riaccenda. Il finale, anche se mi rendo conto che può sembrare paradossale, per me è un happy end, l’apice di due solitudini che s’incontrano e che riescono a trovare il loro senso e la loro ragione d’esistere soltanto nella capacità di proiettarsi nella storia che decidono di raccontare”. 
In particolare, Claude è un ritratto d’adolescente particolarmente oscuro e problematico, che con l’andare della storia si fa anche vagamente perverso. Una figura di giovane sulla quale l’assenza di un padre adeguato pesa non poco. “Non sapevo se mostrare o no il vero padre di Claude, ma alla fine ho deciso di farlo brevemente, come faccio in quella rapidissima scena. Mi sembrava un bel modo per penetrare le sue origini, il suo background ambientale, in modo tale che diventasse evidente che le connotazioni del personaggio che abbiamo percepito sono pienamente motivate e che Claude è alla ricerca non solo di una paternità stabile ma di un vero e proprio posto nel mondo.” Un mondo che per Ozon coincide naturalmente con l’amore per il cinema come viatico per l’esplorazione, per una recherche non inferiore a quella realizzata dai suoi personaggi, che qui pare conciliare analisi metodologica sulla scrittura e buffa, lieve irrisione dei luoghi comuni più arcinoti sull’arte contemporanea: “Mi interessava compiere un mèlange ma anche opporre due visioni antagoniste, due antipodi da inglobare. La concezione di Germain è letteraria, classicistica, conservatrice, quella della moglie interpretata da Kristin Scott Thomas è invece più avvezza alla modernità, a delle forme nuove. Il cinema ha questo potere di sintesi, se ne parla spesso in questi termini d’altronde, e io sono d’accordo”. 
Interrogato sui suoi prossimi progetti, Ozon dimostra di non voler certo concedersi soste: “Ho pronto il mio nuovo film, Jeune et Jolie, incentrato sulle scoperte sessuali di una diciassettenne, un romanzo di formazione che uscirà in Francia il prossimo agosto.” Naturalmente, si parla anche dell’imminente Festival di Cannes. Il 18 Aprile la conferenza stampa che annuncerà i film presenti: “Entro mezzanotte, se il mio telefono che attualmente non funziona dovesse riprendere a funzionare, scoprirò se parteciperò al Festival o meno, ma sono abbastanza pessimista. Vi confesso: per Potiche mi dissero che il film non avrebbe incontrato il gusto degli stranieri, poi però passò a Venezia e fu accolto con entusiasmo e non mi pare con particolari problemi. Per Nella casa mi dissero che non c’era posto e che ormai era troppo tardi, poi il film è andato al Festival di San Sebastián e ha vinto due premi là...” 
Gli si chiede se ormai Cannes non si sia fossilizzata sempre sugli stessi autori, su un club fisso in cui nuovi registi sono entrati e dei vecchi sono usciti praticamente in maniera definitiva, al di fuori dei quali gli altri non trovano mai granché posto. “Da noi si fanno tanti film ogni anno, è naturale che non ci sia posto per tutti. Quando poi una cinematografia straniera magari non troppo sviluppata ha ben pochi esponenti di grido, è naturale che si finisca col tirare in ballo sempre gli stessi nomi. Comunque, non vorrei proprio essere Thierry Fremaux. Il suo è un lavoro e un compito davvero difficile e impegnativo.”

Davide Eustachio Stanzione

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