"Le cose non si possono risolvere con la nonviolenza. La nonviolenza permette ai più forti di dormire, la violenza ci vuole, io amo la violenza, sono un apostolo della violenza..." Queste sono le parole, sospese tra il serio e l’ironico, tra il senso di sfida e l’amore per la provocazione, di Gualtiero Jacopetti, in risposta ad un giornalista che poco dopo l’uscita di Mondo cane (1962) gli chiese se si reputava un istigatore alla violenza.
Jacopetti era così, un animale da palcoscenico, un sardonico padre-padrone che non consentiva mezze misure: o con lui o contro di lui. La lunga lista di nemici, beghe, liti, rancori e odi lo dimostrano e parlano chiaro. Forse, però, nessuno ha nutrito così tanto risentimento quanto Cavara, che confeziona un film “d’attacco” crudo e spietato, dipingendo con ferocia il suo ex-collaboratore. Si, perché nonostante molti non se lo ricordino, a firmare il primo Mondo cane sono stati, oltre che i sempre citati Jacopetti e Franco Prosperi (l’unico dei due che si discosterà dal filone per firmare l’eco-vengeance di pura finzione Wild Beasts - Belve feroci nel 1984), anche Cavara.
Non è un caso che le strade di Jacopetti e del regista di Virilità (1974) si incrocino. L’attività di Cavara come documentarista, infatti, aveva avuto inizio, per conto suo, già negli anni cinquanta, quando ancora studiava architettura presso l'Università di Firenze. Questa professione scaturì dall'attività parallela di operatore subacqueo, ed ebbe un primo riconoscimento con la spedizione all'isola di Ceylon nel 1951, condotta assieme a Carlo Gregoretti e Franco Prosperi, aiutati sul posto dalla Film Unit di Giulio Petroni. L’attività in questo ambito proseguirà fino all’incontro con Jacopetti, e in seguito confezionerà circa quaranta documentari, tra cui una serie destinata alla televisione, in qualità di collaboratore di Giorgio Moser e suo corrispondente in Indonesia e alle Maldive.
Per quanto riguarda Mondo cane, al di là di quelli che ora possiamo inquadrare nel sotto-filone "Mondo Sexy" (come Europa di Notte, 1958, di Alessandro Blasetti, o Il Mondo di Notte, 1959, di Luigi Vanzi, entrambi sceneggiati da Jacopetti - il primo con Ennio De Concini), la creatura di Jacopetti, Prosperi e Cavara non era che il perfezionamento, o se vogliamo l’accordatura, di un non-cinema pseudo-documentaristico, pseudo-scientifico, che già aveva trovato vita sotto tendoni rossi nelle sperdute lande americane del sud, decenni prima. Film come The Inside of the White Slave Traffic (1913), tanto per citarne uno, erano pellicole in cui furbamente si condivano elementi di attualità, di natura antropologica e sociale, con immagini di forte impatto visivo. Quindi, in un’era di transizione, anni luce prima di qualsiasi codice Hays, in un epoca in cui il cinema era ancora un giocattolo nuovo e tutto da scoprire, decadenti side-shows itineranti davano la possibilità di vedere sullo schermo immagini altrimenti impossibili da visionare.
Mondo Cane ha una struttura da diario di viaggio, ed è retta da ben poca continuità, in quanto si pone come display caleidoscopico di sconvolgente contenuto piuttosto che presentazione di un argomento strutturato. A parte la voce narrante off di Stefano Sibaldi, l’unico filo rosso concettuale che unisce i vari episodi del film potrebbe essere questo: "Tutte le scene che vedrete in questo film sono vere e sempre riprese dal vero. Se spesso saranno scene amare è perché molte cose sono amare su questa terra. D'altronde il dovere del cronista non è quello di addolcire la verità, ma di riferirla obbiettivamente.” Questa frase mostra il vero cinismo su cui si regge l’intera operazione. Infatti la critica più forte nei confronti dell’opera è l’eccessiva inclinazione al cinismo, che si esprime sia attraverso un impianto visivo crudele che attraverso i commenti ispirati a un violento sarcasmo dissacratorio. Come scrisse un critico all’epoca di Mondo Cane 2 (uscito l’anno seguente): “le incursioni feroci nel regno dell’orrido e le compiacenze per il dettaglio sensazionale” sono gli ingredienti di un impianto fortemente antiumanistico.
La violenza spietata e rituale nei confronti degli animali, elemento che diverrà poi parte integrante di un filone-costola dei mondo, i cannibal-movies, (la mattanza dei maiali nella Nuova Guinea, la nutrizione forzata di birra ai vitelli in Giappone e di ricci velenosi agli squali in Malesia), e la violenza che l’uomo infligge su se stesso (la casa della morte di Singapore, la scarnificazione dei calabresi al Venerdì santo) vengono mischiate insieme in una sorta di perverso frullatore, cosa che ad esempio non viene fatta in Africa Addio (1966), dove invece l’uccisione di animali (tremenda la sequenza dettagliatissima di un elefantino estratto morto dal cadavere della madre) viene separata dalla crudeltà sull’uomo.
Di conseguenza, nei primi due Mondo Cane si può trovare un atteggiamento non documentaristico o antropologico nei confronti delle propensioni umane, bensì zoologico, vale a dire che il comportamento dell’essere umano è analizzato alla luce della più ampia famiglia animale. In questo senso viene alla mente il monologo interiore finale del protagonista de L’isola del Dottor Moreau di Wells: “Non riuscivo a persuadermi, per esempio, che le donne e gli uomini che incontravo non fossero, come io credevo, dei mostri, sia pure d'aspetto più umano, animali trasformati solo esteriormente in uomini, e che presto o tardi avrebbero cominciato a degenerare mostrando la loro origine bestiale.” Proprio su Mondo cane 2 il rapporto tra Jacopetti e Cavara si incrina, tanto che quest’ultimo gira svariate sequenze senza essere accreditato. Le ragioni date da Prosperi, assoluto difensore di Jacopetti, tendono verso motivazioni di salute. “Cavara era debole di costituzione e non adatto per questo genere di lavoro.”
Con il suo primo lungometraggio di pura finzione Cavara, finalmente, racconta la sua. L’occhio selvaggio è un attacco nei confronti proprio di quel cinema con cui aveva da poco chiuso amaramente i ponti. Un grido di spietata lucidità nei confronti dei suoi ex-compagni di viaggio e sulla rappresentazione della violenza sensazionalistica da parte di documentaristi senza scrupoli, nonché sul dualismo verità/finzione.
La trama non lascia dubbi: Paolo (il bravo Philippe Leroy che ha più volte dichiarato che forse non aveva ancora raggiunto una maturità artistica tale per poter interpretare un personaggio così complesso) è un carismatico e coriaceo documentarista che si sposta tra i meandri sperduti del pianeta alla ricerca di rituali, usanze e spettacoli sensazionalistici. Il suo desiderio di scioccare ed il suo cinismo non danno segni di cedimento dinanzi a qualsiasi ostacolo, pur di portare a casa il suo ultimo documentario. E quando la realtà delude le sue aspettative e non disseta la sua voglia di bizzarro, non esita a manipolarla, a distorcerla artificiosamente, solleticando o provocando situazioni shock. Fa sì che lui e la sua troupe rimangano senza benzina nel deserto pur di avere un’ulteriore agonizzante odissea su pellicola; provoca la morte di un bonzo che si brucerà vivo davanti agli occhi sbigottiti dei suoi fratelli (sequenza che non può non riportare alla mente la crudele scena di Mondo Cane 2, che si è dimostrato essere un ben orchestrato fake); organizza falsi attentati dinamitardi; arriva a far spostare un condannato alla fucilazione da un muro scuro a un muro bianco per accentuare il contrasto cromatico (episodio raccontato da Carlo Gregoretti sulle pagine de "L'Espresso" a proposito del film Africa Addio e del suo regista Jacopetti).
Ma il protagonista, per quanto disumano e ripugnante, è dotato di sguardo critico e di una notevole consapevolezza di sé e del prodotto che sta tentando di confezionare. Paolo non è il generale Kurtz, di coppoliana memoria, ma è un uomo di rigorosa coerenza teorica e pratica; la sua non è follia. Quando viene catturato dai Vietcong, la prima cosa che chiede al suo operatore, dopo essere stato picchiato a sangue, è se ha filmato tutto; così come nello splendido finale, dove dopo la morte della propria compagna (l’unico essere umano per cui sembra nutrire un qualche tipo di rispetto, interpretato dalla sempre bella Delia Boccardo), sollecita il suo operatore a filmare il suo dolore mentre tiene stretto a sé il corpo inerme e privo di vita della donna.
Le implicazioni e dinamiche psicologiche dello spettatore sono quelle che denuncia Cavara, autore complesso e tutto ancora da storicizzare, che con quest’opera raggiunge il massimo della sua espressione artistica. L’opera di Cavara (il cui script, ricordiamo, porta la firma anche di Tonino Guerra e Alberto Moravia, noto nemico di Jacopetti), non solo punta il dito fermamente verso il suo ex-collega, ma può essere letta come una sorta di mea culpa ante litteram (è un caso il nome del protagonista?), come innanzitutto un grido disperato verso il pubblico. Perché l’occhio selvaggio è, innanzitutto, il nostro.
Eugenio Ercolani
Sezione di riferimento: Italia Terza Visione
Scheda tecnica:
Titolo originale: L’occhio selvaggio
Anno: 1967
Regia: Paolo Cavara
Sceneggiatura: Paolo Cavara, Tonino Guerra, Alberto Moravia
Fotografia: Marcello Masciocchi, Raffaele Masciocchi
Musiche: Gianni Marchetti
Durata: 98 min
Attori principali: Philippe Leroy, Delia Boccardo, Gabriele Tinti