La zoofilia, però, non è certo una devianza del nuovo millennio, e, se per questo, neanche riconducibile al lembo più distante del Novecento. Il rapporto e le interconnessioni psicosessuali che legano uomo e animale aleggiano nelle zone più ombrose della nostra natura primordiale, e, quindi, trattasi di una parafilia che poco ha che fare con la trasgressività dei tempi moderni. Chi scrive non ha certamente nessun desiderio o impulso nel fare l’apologia della bestialità, ma bisogna pur ammettere che, per quanto possa risultare - e di certo lo è - un desiderio, quello zoofilo, grottesco e deprecabile, lo si può notare di continuo, ed è più comune nelle sue ramificazioni più lievi di quanto siamo disposti ad ammettere.
La signora che veste il suo quadrupede, il padrone che ci dorme avvinghiato e, in generale, tutta la morbosità che porta a iper-umanizzare un animale non è, forse, il terreno fertile su cui la zoofilia affonda le proprie radici? Del resto, il rapporto tra animale e uomo è composto da proiezioni e transfert, rifugi e ipocrisia. Per la sua grande capacità di prestarsi alla metafora umana e sociale, la zoofilia è stata spesso usata all’interno di opere artistiche. Il cinema ha di rado affrontato il discorso di petto, per una ovvia questione di presentazione scenica, che facilmente scadrebbe nell’osceno e nel pornografico. Un posto d’onore all’interno di quello che si può, quasi, identificare come un vero e proprio filone lo si deve lasciare a Bestialità, pellicola realizzata nel 1976 e diretta da Peter Skerl.
Skerl, svedese, è un personaggio enigmatico e misterioso del nostro cinema, di cui poco si sa, e di cui tanto si suppone. Attore adolescente, doppiatore e adattatore dialoghi (anche per film di Ingmar Bergman), sceneggiatore (spesso insieme a Gianni Martucci), e, infine, anche regista (innumerevoli i film annunciati e mai realizzati; il più famoso è senz’altro Zoorastia, 1978, pellicola ferma a causa di problemi finanziari). Mai intervistato, ora vive a Los Angeles. La fama di questo italo-svedese risiede totalmente in Bestialità.
Iniziamo, quindi, con il chiarire il primo equivoco: Virgilio Mattei, che risulta avere la paternità del film, è solo un prestanome, necessario per questioni di quote produttive, dato che Skerl non è di nazionalità italiana. Quanto al fatto (come si può leggere su alcuni siti) che alla regia possa aver collaborato Luigi Montefiori/George Eastman, trattasi di falsità assoluta senza fondamento. Montefiori, nel suo periodo di maggior prolificità, firma comunque sia il soggetto che la sceneggiatura.
L’architetto Paul (Philippe March) si trasferisce, per ragioni di lavoro, con sua moglie Yvette (Juliette Mayniel), su un’isola mediterranea abitata da pochi turisti, dal pescatore sciancato Ugo (Enrico Maria Salerno) e da una ragazzina, Jeanine (Leonora Fani), traumatizzata nell’infanzia dalla vista della madre che s’accoppiava con il suo dobermann. La giovane che, scappata di casa, vive tra le rovine del castello di famiglia (incendiato dal padre per vendicarsi del cane, che fu poi salvato da Ugo) si lega, anche a letto, con Paul e sua moglie, risvegliando i sopiti sensi del primo. Ma il dobermann, con cui anche a Jeanine piace far l’amore, mostra possessivi segni di gelosia.
Crisi della borghesia, decadenza morale, dubbi esistenziali, controcultura spicciola e datato maledettismo di grana grossa: temi spesso ricorrenti in film inclassificabili, sospesi tra il prodotto meramente commerciale e l’opera di presunta critica sociale. Messa in scena povera e personaggi stilizzati, cui vengono affidati dialoghi incredibili. Inconsistenza ampollosa. Queste, riassumendo, sono le critiche e le osservazioni più comuni che si possono trovare nei confronti di questo film, che usa il tema della zoofilia come metafora della corruzione morale dell’uomo occidentale, e, in particolare, della coppia borghese. Non si può negare che almeno i toni di tali critiche siano legittimi, ma, come accadde spesso nel cinema italiano di genere di quegli anni, nonostante tutto, la pellicola si pervade di un inafferrabile fascino, e, improvvisamente, le musiche melò a firma di Lallo Gori, la fotografia spenta e monocromatica, i dialoghi astrusi e artefatti (“Tu invece sei una mignotta che cerchi il cazzo più lungo della lingua per prolungare il ponte che ti separa dall’effimera sponda del successo”), il mare mosso del Mediterraneo e la desolazione delle scogliere si animano di una forza narrativa contagiosa.
Quello che Skerl sembra capire a fondo, e su cui si concentra maggiormente, è il rapporto tra la bellissima e conturbante Jeanine e il suo cane. Skerl, che collabora alla sceneggiatura, sembra comprendere la vera natura della zoofilia. Non assume un tono moralista e non giudica il suo personaggio. Skerl affronta il tutto comprendendo che la zoofilia è, in realtà, un sentimento multi-stratificato e più complesso di quanto si possa pensare. Non si tratta soltanto di sfogo sessuale o della voglia di infrangere tabù.
Per quanto sia difficile da accettare o comprendere pienamente, la componente emotiva gioca un ruolo molto forte nella psicologia di chi è attratto da un animale. Spesso gli zoofili attribuiscono all’animale delle qualità superiori che non riscontrano negli esseri umani, come l’onestà, la fedeltà, l’innocenza o la saggezza, e così via. Le emozioni verso gli animali possono essere reali, relazionali, autentiche, e non solo sostitutive di partner umani. Anzi, il quadro che emerge è composto da persone che molto spesso hanno avuto, o hanno, relazioni umane a lungo termine. Persone fragili che vedono nell’animale meno bestialità e più purezza che in tanti esseri umani.
Eugenio Ercolani
Sezione di riferimento: Italia Terza Visione
Scheda tecnica
Titolo originale: Bestialità
Anno: 1976
Regia: Peter Skerl
Sceneggiatura: Luigi Montefiori, Peter Skerl
Fotografia: Giuseppe Bernardini
Musiche: Lello Gori
Durata: 75 min
Attori: Philippe Marsch, Juliette Mayniel, Leonora Fani, Enrico Maria Salerno, Paul Muller, Ilona Staller