Legame di sangue o legame di vita? È la domanda ricorrente che fa capolino in Like father, like son di Hirokazu Kore-eda, prima tra le pieghe dell'osservazione della quotidianità di un nucleo familiare, poi come un fulmine a ciel sereno quando Ryota Nonomiya (Masaharu Fukuyama) e la moglie Midori (Machiko Ono) scoprono che Keita, il figlio che hanno cresciuto sino ad allora, è stato scambiato alla nascita col loro vero figlio.
A chi somiglia Keita? Cos'ha preso dalla madre? E da suo padre? Sono interrogativi che ci risuonano familiari; quello che però ci stranisce, immergendoci nella cultura nipponica e in particolare nello status della famiglia Nonomiya, è il renderci conto che queste domande sono poste nel contesto di un esame per l'accesso alla scuola elementare. Inutile negare la rigidità del sistema scolastico giapponese; Kore-eda, attraverso questo primo elemento, inizia a restituirci il contesto della nostra famiglia: un architetto benestante devoto al mondo del lavoro e una donna che di “mestiere” fa la madre cercando di seguire/controllare suo figlio in ogni attività affinché sia il primo tra tutti.
«Bisogna avere disciplina. Se ti prendi un giorno libero te ne servono tre per recuperare». È questo l'imperativo categorico a cui Ryota è stato abituato e che restituisce al figlio, un bambino di sei anni diviso tra compiti ed esercizio del piano e a cui non è concessa la dimensione del gioco.
In questo idillio da famiglia perfetta in cui anche la casa sembra un albergo (e il geometrismo delle linee lo marca ancor di più), una notizia inaspettata romperà l'equilibrio mettendo tutto in discussione. Sono proprio le analisi di abilitazione alla scuola elementare che rivelano il non legame di sangue e, con una piccola nota di sorpresa (pensando anche al nostro modus vivendi), cogliamo l'onestà dell'ospedale nel comunicare alle famiglie “vittime” l'errore commesso il giorno della nascita di Keita e di Ryusei, il 28 luglio.
Con un tatto che ormai contraddistingue il cineasta giapponese, Like father, like son va a toccare le corde anche più nascoste della nostra anima. Colpisce per la misura e la delicatezza con cui lo fa, affonda nelle maglie dei personaggi scalfendo soprattutto la corazza dell'uomo “perfetto”, e affonda in noi interrogandoci su questioni che sembrerebbero assodate e forse scontate, ma che umanamente non lo sono. Senza banalità, ma con semplicità, Kore-eda ci mostra il contrasto tra le due famiglie: l'una benestante, l'altra - quella dei Saiki – poco abbiente, ma attenta nel condividere con i tre figli la quotidianità (il bagno in vasca tutti insieme o il padre che ripara il giocattolo rotto).
«Come ho fatto a non accorgermene? Sono una madre» - si chiede Midori. Ma cosa vuol dire essere una madre?
Per quanto il regista di Nobody knows mostri con una raffinata messa in quadro il dramma delle due famiglie, è evidente la sua scelta di concentrare l'attenzione sul rapporto padre-figlio puntando l'obiettivo della macchina da presa (e non il dito), in particolare, su Ryota. Intuiamo come per l'uomo sia importante il legame di sangue, ed è difficile descrivere l'impatto emotivo che le reazioni dei due piccoli hanno provocato; solo la pregnanza di quelle immagini e parole possono restituirlo.
Il cinema ha una forza particolare e Kore-eda sa tirarla tutta fuori pietrificando chi è davanti allo schermo con quadri familiari in apparenza semplici. Si può trapiantare un bambino in un nucleo nuovo e dirgli: “ora siamo noi i tuoi genitori e devi chiamarci mamma e papà?” Il piccolo ti (e si) chiederà “perché?” e anche se glielo si ponesse come un gioco alla lunga il perché tornerà.
Guardando a Ozu non solo nei temi, ma anche in alcune scelte di regia (un esempio è la decisione di riprendere di spalle e a distanza Midori e sua suocera, inginocchiate mentre pregano davanti all'altare in casa), Kore-eda continua a tracciare il suo percorso legato alla famiglia con cui già era andato a segno con Nobody knows (la storia di quattro fratelli e sorelle abbandonati dalla madre in un appartamento di Tokyo), Still walking (una famiglia che si riunisce per commemorare la morte di Junpei, il figlio maggiore scomparso anni prima in un tragico incidente di mare) e I wish (il ricongiungimento di due fratelli, separati dal divorzio dei genitori).
Like father, like son arriva a commuovere profondamente toccando punte di intensità emotiva che Il figlio dell'altra di Lorraine Lévy aveva sfiorato (e forse sognato); è difficile trattenere la commozione quando è provocata da uno sguardo così sincero e mai retorico. Non si può restare indifferenti di fronte a un film di questa portata, che va oltre la cultura giapponese, domandandoci se si possa valutare un rapporto affettivo sul legame di sangue, sul benessere che si può dare o se valgono gli anni di vita trascorsi insieme. Si può misurare tutto questo?
Maria Lucia Tangorra
Sezione di riferimento: Cannes 2013
Scheda tecnica
Titolo originale: Soshite chichi ni naru
Anno: 2013
Regia: Hirokazu Kore-eda
Sceneggiatura: Hirokazu Kore-eda
Fotografia: Mikiya Takimoto
Montaggio: Hirokazu Kore-eda
Scenografia: Keiko Mitsumatsu
Sonoro Yutaka Tsurumaki
Durata: 120'
Interpreti: Masaharu Fukuyama, Machiko Ono, Yoko Maki, Lily Franky
A chi somiglia Keita? Cos'ha preso dalla madre? E da suo padre? Sono interrogativi che ci risuonano familiari; quello che però ci stranisce, immergendoci nella cultura nipponica e in particolare nello status della famiglia Nonomiya, è il renderci conto che queste domande sono poste nel contesto di un esame per l'accesso alla scuola elementare. Inutile negare la rigidità del sistema scolastico giapponese; Kore-eda, attraverso questo primo elemento, inizia a restituirci il contesto della nostra famiglia: un architetto benestante devoto al mondo del lavoro e una donna che di “mestiere” fa la madre cercando di seguire/controllare suo figlio in ogni attività affinché sia il primo tra tutti.
«Bisogna avere disciplina. Se ti prendi un giorno libero te ne servono tre per recuperare». È questo l'imperativo categorico a cui Ryota è stato abituato e che restituisce al figlio, un bambino di sei anni diviso tra compiti ed esercizio del piano e a cui non è concessa la dimensione del gioco.
In questo idillio da famiglia perfetta in cui anche la casa sembra un albergo (e il geometrismo delle linee lo marca ancor di più), una notizia inaspettata romperà l'equilibrio mettendo tutto in discussione. Sono proprio le analisi di abilitazione alla scuola elementare che rivelano il non legame di sangue e, con una piccola nota di sorpresa (pensando anche al nostro modus vivendi), cogliamo l'onestà dell'ospedale nel comunicare alle famiglie “vittime” l'errore commesso il giorno della nascita di Keita e di Ryusei, il 28 luglio.
Con un tatto che ormai contraddistingue il cineasta giapponese, Like father, like son va a toccare le corde anche più nascoste della nostra anima. Colpisce per la misura e la delicatezza con cui lo fa, affonda nelle maglie dei personaggi scalfendo soprattutto la corazza dell'uomo “perfetto”, e affonda in noi interrogandoci su questioni che sembrerebbero assodate e forse scontate, ma che umanamente non lo sono. Senza banalità, ma con semplicità, Kore-eda ci mostra il contrasto tra le due famiglie: l'una benestante, l'altra - quella dei Saiki – poco abbiente, ma attenta nel condividere con i tre figli la quotidianità (il bagno in vasca tutti insieme o il padre che ripara il giocattolo rotto).
«Come ho fatto a non accorgermene? Sono una madre» - si chiede Midori. Ma cosa vuol dire essere una madre?
Per quanto il regista di Nobody knows mostri con una raffinata messa in quadro il dramma delle due famiglie, è evidente la sua scelta di concentrare l'attenzione sul rapporto padre-figlio puntando l'obiettivo della macchina da presa (e non il dito), in particolare, su Ryota. Intuiamo come per l'uomo sia importante il legame di sangue, ed è difficile descrivere l'impatto emotivo che le reazioni dei due piccoli hanno provocato; solo la pregnanza di quelle immagini e parole possono restituirlo.
Il cinema ha una forza particolare e Kore-eda sa tirarla tutta fuori pietrificando chi è davanti allo schermo con quadri familiari in apparenza semplici. Si può trapiantare un bambino in un nucleo nuovo e dirgli: “ora siamo noi i tuoi genitori e devi chiamarci mamma e papà?” Il piccolo ti (e si) chiederà “perché?” e anche se glielo si ponesse come un gioco alla lunga il perché tornerà.
Guardando a Ozu non solo nei temi, ma anche in alcune scelte di regia (un esempio è la decisione di riprendere di spalle e a distanza Midori e sua suocera, inginocchiate mentre pregano davanti all'altare in casa), Kore-eda continua a tracciare il suo percorso legato alla famiglia con cui già era andato a segno con Nobody knows (la storia di quattro fratelli e sorelle abbandonati dalla madre in un appartamento di Tokyo), Still walking (una famiglia che si riunisce per commemorare la morte di Junpei, il figlio maggiore scomparso anni prima in un tragico incidente di mare) e I wish (il ricongiungimento di due fratelli, separati dal divorzio dei genitori).
Like father, like son arriva a commuovere profondamente toccando punte di intensità emotiva che Il figlio dell'altra di Lorraine Lévy aveva sfiorato (e forse sognato); è difficile trattenere la commozione quando è provocata da uno sguardo così sincero e mai retorico. Non si può restare indifferenti di fronte a un film di questa portata, che va oltre la cultura giapponese, domandandoci se si possa valutare un rapporto affettivo sul legame di sangue, sul benessere che si può dare o se valgono gli anni di vita trascorsi insieme. Si può misurare tutto questo?
Maria Lucia Tangorra
Sezione di riferimento: Cannes 2013
Scheda tecnica
Titolo originale: Soshite chichi ni naru
Anno: 2013
Regia: Hirokazu Kore-eda
Sceneggiatura: Hirokazu Kore-eda
Fotografia: Mikiya Takimoto
Montaggio: Hirokazu Kore-eda
Scenografia: Keiko Mitsumatsu
Sonoro Yutaka Tsurumaki
Durata: 120'
Interpreti: Masaharu Fukuyama, Machiko Ono, Yoko Maki, Lily Franky