Polanski parte dal romanzo Il club Dumas scritto da Arturo Perez-Reverte, prosciugandolo di molti passaggi narrativi e semplificandone alcuni aspetti, per raccontare la verifica dell’autenticità delle tre copie esistenti del famigerato tomo “Le nove porte” da parte di Dean Corso, ricercatore di libri rari quasi mai incline al compromesso. Per il regista polacco è l’occasione per ritornare su alcuni territori già battuti in precedenza: se la componente “demoniaca” rimanda ovviamente a Rosemary’s Baby, allo stesso modo la struttura investigativa ricalca quella del celebre Chinatown, trasformando così il film in un affascinante ibrido a metà tra l’horror e il noir senza mai appartenere definitivamente all’uno o all’altro genere.
Quello che da molti è stato frettolosamente dipinto come il semplice divertissement da parte di un regista in vacanza, rivisto oggi a quattordici anni di distanza rimane invece un’opera di grande e indiscutibile fascino. La nona porta è un film che vive entro i confini di un’atmosfera magica e sospesa, nella quale lo spettatore viene rapito nonostante l’assenza di qualsiasi progressione psicologica; un film di puro cinema insomma, fatto di detection e ricerca, in grado di catturare l’attenzione attraverso quei pochi elementi basilari che, nelle mani di Polanski, da soli riescono a imprimersi indelebilmente nella memoria. Per dirla in altri termini: un’indagine che si dipana attraverso pile di libri, omicidi misteriosi, treni di notte, viaggi in una vecchia Europa che non puzza mai di cartolina e, soprattutto, un senso di mistero e impenetrabilità che sembra quasi evaporare dalla pellicola e raggiungerci le narici, senza mai riuscire a comprenderlo fino in fondo.
Perché La nona porta stesso è così: imperscrutabile, inafferrabile, fatto di una materia intangibile che costringe, tutte le volte, a rimanere incollati allo schermo. E poi c’è quel finale, così odiato e incompreso, ma in realtà perfettamente coerente con la poetica del suo autore: regista da sempre votato allo sberleffo e all’assurdo, stavolta Polanski non può fare a meno di concludere questa seriosissima ricerca del demonio e dell’immortalità con una fragorosa presa in giro nei confronti di chi, fino a quel momento, ha preso sul serio quanto mostrato.
Quasi in risposta a tutti coloro che presero alla lettera Rosemary’s Baby (film notoriamente da lui poco amato), l’irriverente folletto polacco rimescola le carte in tavola e ribadisce, una volta per tutte, che del Diavolo e della Santità gli interessa poco o niente. Piuttosto, meglio raggiungere la Conoscenza attraverso l’amore fisico con una bella donna dagli occhi verdi (Emmanuelle Seigner, sua moglie nella realtà, e non è un caso) che con tutti i sotterfugi e le meschinità del sottobosco esoterico. Un divertissement, quindi? Assolutamente. Privo di una profondità vera e propria? Può anche darsi, ma di una leggerezza e di una spensieratezza (filmica) assolutamente ricercata.
Una particolare nota di merito, infine, a due aspetti tecnici che contribuiscono in maniera non indifferente alla riuscita della pellicola: la fotografia di Darius Khonji e, soprattutto, le musiche magnetiche di Wojciech Kilar. Insomma, che non sia il miglior film di Roman Polanski è un dato di fatto, ma è vero anche che questa ricerca spasmodica e oltranzista del capolavoro a tutti i costi rischia sempre più di privare lo spettatore di un puro e genuino divertimento. Diletto mai così raffinato e intelligente come in questo caso.
Giacomo Calzoni
Sezione di riferimento: Special Roman Polanski
Scheda tecnica
Titolo originale: The Ninth Gate
Anno: 1999
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura: Enrique Urbizu, John Browjohn, Roman Polanski
Fotografia: Darius Khonji
Musiche: Wojciech Kilar
Durata: 127’
Attori principali: Johnny Depp, Emmanuelle Seigner, Frank Langella, Lena Olin, James Russo, Jack Taylor