I titoli di testa sballottano immediatamente il film catapultandolo indietro di almeno un cinquantennio, e il resto non è da meno: dissolvenza incrociata e subito l’interno di un’automobile, in cui i personaggi si distinguono nitidamente e lo sfondo appare invece sfocato in profondità. Una notazione fotografica che chi ha letto il meraviglioso dialogo-testamento Il cinema secondo Hitchcock di François Truffaut, uno dei volumi cardine di tutta la letteratura cinematografica, non avrà problemi a contestualizzare a dovere, ricordando come lo stesso Hitch abbia chiarito in quell’occasione le ragioni di questa scollatura fotografica tirando in ballo una sostanziale differenza d’approccio visivo tra film inglesi e americani di quel periodo (la distinzione si trova per altro nelle prime pagine del volume). Ecco, anche solo fermandosi ai titoli di testa di Frantic sembra già di stare dentro una riesumazione filologica de L’uomo che sapeva troppo (la seconda versione a colori, naturalmente), condotta entro i parametri intelligenti e illuminati del conoscitore profondo e allo stesso tempo rispettoso, che mira più che altro a interiorizzare l’oggetto del plaisir d’amour e la sua lezione incomparabile piuttosto che entrarvi goffamente in competizione.
Roman Polanski evita la mossa suicida e porta a casa il miglior tributo possibile al geniale maestro inglese, emulandone in maniera certosina – e non riproducendone stancamente - lo spirito, la formalità, perfino certe liturgie collocabili esattamente a metà tra vizio, vezzo e virtù. La sagoma del regista de L’ombra del dubbio non è però ingombrante o ingerente e se ne arriva a stemperare la gravosità con qualche citazione ai limiti del calco: la scena in cui il Richard di Harrison Ford regge per la mano Michelle, che si appresta a precipitare rovinosamente nel vuoto dalla sommità del palazzo, è un palese riferimento alla celebre sequenza di Intrigo Internazionale, il film hitchcockiano al quale Frantic guarda più direttamente negli occhi, in cui Cary Grant salva Eva Marie Saint sul celebre e iconico monte Rushmore. Per non parlare della scena sul tetto consumata tra Marlboro scartabellate e antenne, riproduzione esemplificativa e perfetta della vertigo hitchockiana e del suo valore cinematografico, storico, addirittura umano.
Polanski fa esplodere la partitura legata al maestro del brivido, semmai a qualcuno fosse venuto in mente il rischio di un’ingessatura, rendendola però acida oltre ogni previsione, tra formalità alberghiere che vengono esasperate ben al di là dell’umana sopportazione e una cura maniacale per i dettagli che intende trasmettere un senso di oppressione e di mistero incombente. Ma la detection condotta dal personaggio di Ford, protagonista di una vera e propria odissea frustrante e virata in nero nel tentativo di rintracciare la moglie inspiegabilmente scomparsa, è manco a dirlo solo un pretesto per congelare il film, raffreddandone i toni per farne una sorta di parabola emblematica e universale.
Come sempre Polanski lavora sui fantasmi e sui corridoi deformi della psiche, secondo modalità sia fisiche che metafisiche che hanno ugualmente diritto di cittadinanza nella sua distorta e rovesciata visione della realtà. Frantic, nella fattispecie, somiglia a un imbuto che mira irreversibilmente verso il basso nonostante l’orizzontalità di una messa in scena di grande impatto, applicata a una Parigi che smette la veste da cartolina per lasciarsi imprigionare da nuvole e grigiori. Sembra una Londra corrosa sotterraneamente da una decadenza oscura, ed è un punto a favore non da poco per la riuscita complessiva di un film che fa della capitale transalpina un valore aggiunto e perfino un personaggio a sé. Gli inquilini di questa metropoli insolitamente ammusonita e mai così anti-romantica non potrebbero essere più sprezzanti e ributtanti, insinuando il lecito sospetto che Polanski abbia voluto fornire uno smaliziato ritratto al vetriolo dei francesi e della loro generalizzata riluttanza verso tutto e tutti.
Grande apporto quello di Harrison Ford, mai così fascinoso ed elegante, uomo relativamente comune catapultato in una situazione più grande di lui che lo (s)travolge e ne causa il crollo trasversale delle certezze, fedelmente a un altro meccanismo proprio del magistero hitchcockiano e anch’esso piuttosto collaudato (nel film c’è anche il famoso McGuffin, a dirla tutta...). Incredibile anche il tappeto sonoro, che può beneficiare di un ispirato e contenuto Ennio Morricone alle prese con un accompagnamento musicale sottile e sfumato nei minimi dettagli, davvero adeguato alle atmosfere di crescente paranoia di quello che è in assoluto uno dei più grandi gioielli di morbosità della filmografia polanskiana.
In definitiva Frantic, oltre ad averci messo davanti agli occhi una volta per tutte la bellezza annichilente di Emmanuelle Seigner, ha il merito innegabile di essere una delle regie in assoluto più raffinate e affascinanti di Polanski, un piccolo classico della sua carriera da coccolare gelosamente al pari dei titoli dell'autore polacco che più di altri hanno bucato l’immaginario.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Special Roman Polanski
Scheda tecnica
Anno: 1988
Durata: 120’
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura: Roman Polanski e Gérard Bach
Fotografia: Witold Sobocinski
Montaggio: Sam O’Steen
Musiche: Ennio Morricone e Grace Jones
Scenografia: Pierre Guffroy
Attori: Harrison Ford, Betty Buckley, Emmanuelle Seigner, Yorgo Voyagis