«Vittima e carnefice non sono uguali!» rivendica Penelope Longstreet (Jodie Foster); ma esiste, oggi, una demarcazione così netta tra vittima e carnefice? Vale ancora oppure è bianco o è nero?
Con un punto di partenza in superficie semplice, quasi banale, come un litigio tra due undicenni, la Reza con la sua scrittura, Polanski con la sottile ed elegante regia e il cast con un'interpretazione magistrale (il film va visto rigorosamente in originale per apprezzarlo appieno) riescono a rendere i personaggi delle persone (per poi sfociare in altre sfumature). Zachary, figlio di Nancy (Kate Winslet) e Alan (Christoph Waltz) Cowen, ha colpito con un bastone Ethan, figlio di Penelope e Michael (John C. Reilly) Longstreet, provocandogli la tumefazione del labbro e la rottura di due incisivi. Il gesto fisico di Zachary appare quasi insignificante davanti alla carneficina che i rispettivi genitori scateneranno di lì a poco, perché il massacro più forte e corrosivo è quello che avverrà tra le due coppie.
Fedeli alla logica dell'unità di tempo e luogo, assistiamo a un'azione in tempo reale: due uomini e due donne diametralmente diversi tra loro, dove neanche moglie e marito viaggiano sulla stessa lunghezza d'onda. Trascinati dagli eventi, i Cowen si ritrovano intrappolati nella casa dei Longstreet; a tratti sono in procinto di andarsene, ma poi tornano indietro incapaci di assumersi le proprie responsabilità sia come genitori che come uomini, perché è più facile rimbalzarsi le colpe. Sono due famiglie borghesi dove c'è chi è “costretto” a vestirsi da intellettuale di sinistra (Michael) e chi preferisce dire grenade launcher (Alan) piuttosto che lanciagranate perché è più “in”; ma è proprio il farsi del film a richiamarci e a ricordarci che le etichette non esistono, o meglio, sono pronte a cadere: basta perdere il self-control e toccare le corde giuste.
Grazie alla lente di ingrandimento di un cineasta ombroso e illuminante qual è Polanski, la partitura impeccabile dell'autrice franco-iraniana prende forma sullo schermo dando vita a uno scoppiettante match in cui siamo chiamati a fare i conti con noi stessi. Il cineasta polacco (francese d'adozione) si diverte nel giocare dinamicamente con lo spazio; con savoir faire costringe lo spettatore a specchiarsi nel riflesso del primo filtro che abbiamo di fronte - lo schermo - perché per quanto la rappresentazione possa essere caricata (ma mai caricaturale), intuiamo che quei personaggi potremmo essere noi. Sul ring quattro stereotipi della società occidentale: da un lato Penelope, colei che cerca di salvarsi (e salvare) interessandosi al Darfur, e Michael, il venditore di sciacquoni e marito pecora (a detta di Alan); dall'altro Nancy, la broker finanziaria che tenta di far la madre secondo quel che detta il modello sociale, sposata con Alan, avvocato squaliforme, forse l'unico limpido sin dall'inizio pur nel suo cinismo scoppiettante e menefreghista.
In un primo tempo è soprattutto Alan, con le sue continue telefonate, a dettare il ritmo; ma sul piano drammaturgico sarà proprio un gesto eclatante di Nancy a fungere da spartiacque tra la prima parte in cui le maschere sono indossate alla perfezione – a parte qualche sbavatura, dovuta soprattutto al cinismo sulfureo di Alan - e la seconda in cui i personaggi iniziano a scoprirsi. La donna somatizza, infatti, la disattenzione del marito e il film esemplifica alla perfezione questo aspetto mettendo in campo le componenti di entrambe le parti.
Seguendo il flusso narrativo, scopriamo come l'esasperazione per le continue conversazioni telefoniche di Alan sia portata all'estremo da Roman Polanski in linea con il lucido e studiato parossismo che permea tutta la pellicola; un climax che riscontriamo innanzi tutto nel testo teatrale di partenza, che, anzi, si chiude con un disincanto totale.
Si ride assistendo al work in progress del conflitto; poi però, immersi nei colori baconiani e nelle parole, un sapore amaro ci fa da retrogusto mentre prendiamo consapevolezza di ciò che può accadere quando non si riesce a dominare ciò che ci domina.
Il regista de Il pianista riesce a entrare magistralmente nella partitura tragicomica della Reza, la fa sua (e lo vediamo anche nella messa in quadro) per poi tradirla intenzionalmente nel finale trasmettendo un messaggio diverso. Per quanto, infatti, il linguaggio teatrale entri e si sposi con quello cinematografico, è giusto che il cinema (mezzo espressivo scelto per l'occasione) e chi lo fa non si facciano oscurare dall'arte di partenza, ed è anche in quest'ottica che riconosciamo una cifra stilistica e semantica tipicamente polanskiana: la ciclicità (basti ricordare l'apertura e chiusura sui grattacieli di New York in Rosemary's Baby).
Applausi anche al cast stellare, per il loro essere grandi interpreti e squadra a servizio di un acutissimo testo, dove ogni cambio di registro e ogni gesto determinano la temperatura della rappresentazione.
Carnage finisce per interrogarci sbattendoci davanti agli occhi (seppur con maestria) come la vita sia fatta di "caos ed equilibrio", ora scandita dallo squillo del telefono, ora calibrata sui condizionali; ci schiaffeggia con quelle frecciate fatte di parole vestite di humour per dirci che oggi «ci occupiamo tutti solo ed esclusivamente di noi stessi, vorremmo tutti credere in un eventuale miglioramento e possibilmente anche esserne sia gli artefici che i beneficiari». Ma sarà possibile? A noi scrivere il nostro finale di partita.
Maria Lucia Tangorra
Sezione di riferimento: Special Roman Polanski
Scheda tecnica
Titolo originale: Carnage
Anno: 2011
Durata: 79 min
Regia: Roman Polański
Sceneggiatura: Roman Polański, Yasmina Reza
Fotografia: Pawel Edelman
Montaggio: Hervé de Luze
Musiche: Alexandre Desplat
Costumi: Milena Canonero
Attori: Jodie Foster, Kate Winslet, Christoph Waltz, John C. Reilly