Germain ha 75 anni. Uomo tranquillo e riflessivo, accanito lettore, vuol bene alla moglie Lise e mal sopporta l’invasività dei loro figli. Quando un giorno all’improvviso si ritrova vedovo, il suo unico desiderio sarebbe poter vivere in pace il dolore, progetto reso pressoché impossibile dal continuo assalto di parenti e vicine di casa che lo disturbano a suon di martellanti telefonate, consegne quotidiane di pasti e turni di compagnia stabiliti con certosina precisione. La vita di Germain potrebbe comunque incastrarsi nelle pieghe della malinconia, se non fosse che ha una promessa da rispettare: portare a termine ciò che Lise aveva iniziato prima di andarsene, ovvero partecipare a uno spettacolo di danza contemporanea. Un mondo totalmente sconosciuto gli si apre così davanti agli occhi.
Presentato nella sfarzosa cornice di Piazza Grande a Locarno e vincitore del premio del pubblico, Last Dance è un film di produzione svizzero/belga che si pone come inno all’amore senza fine, e al contempo come esempio di una riscoperta di sé in grado di superare imbarazzi, limiti e confini mai nemmeno avvicinati. La regista e sceneggiatrice Delphine Lehericey sfrutta le coreografie di Maria Ribot, qui in veste di attrice ma nella realtà ballerina e artista visiva di successo (ha conseguito il Leone d'Oro alla Biennale Danza di Venezia nel 2020), e dopo il complesso ritratto adolescenziale del precedente Le milieu de l’horizon, crea il toccante disegno di un soggetto anziano che nell’ottemperare il patto con la compagna perduta le (e si) regala un afflato di romantica eternità.
Non è un caso se Germain, interpretato con sincera partecipazione dal sempre bravo François Berléand, tiene sul comodino accanto al letto À la recherche du temps perdu di Proust. Tra una pagina e l’altra, il suo romanzo esistenziale si arricchisce di un capitolo prima impossibile da prevedere, nel quale la recherche si traduce nel significato del movimento, nella liberazione del corpo, nello scioglimento dell’afflizione attraverso l’ipnotica celebrazione del gesto sinuoso, possibile eccome anche in età avanzata, a patto di lasciar defluire pregiudizi e timidezze.
La missione di Germain diventa inoltre una fuga dalle insopportabili insistenze di chi gli sta intorno, soffocanti figure iper-protettive convinte di fornirgli un necessario aiuto quando invece lui vorrebbe semplicemente essere lasciato in pace. Le sproporzionate attenzioni scatenano l’effetto opposto, totale insofferenza e persino piccole vendette (le torte quotidiane preparate dalla vicina date da mangiare al gatto, i telefoni staccati di proposito), perché l’indipendenza è un’anelata virtù, così come lo è mantenere il segreto sul luogo dove Germain inizia a recarsi ogni giorno (il teatro), al fine di evitare ulteriori ingerenze.
Le prove dello spettacolo sono un intimo e silente legame con cui mantenere il filo della passione prima di salutare davvero Lise e traghettarla verso l’aldilà, e si rivelano un supporto essenziale (questo sì) per combattere la nostalgia senza crollare. Nei passi inventati su quel palco, misurati eppure carichi di mistero e seduzione, Germain consacra decenni di felice relazione con la donna della vita e le indirizza un ultimo e commovente bacio.
Last Dance, per alcuni aspetti affine al recente e pregevolissimo C’est ça l’amour con Bouli Lanners, è un lavoro che tenta di abbinare commedia e dramma, serie riflessioni sulla terza età e tocchi di ilarità, mondo del cinema e peculiarità della danza, senza inventare nulla. La regia si amalgama con le coreografie studiate dalla Ribot, trovando momenti di notevole forza visiva e idee ragguardevoli (i teneri messaggi alla moglie defunta scritti a mano su bigliettini poi nascosti nei libri in biblioteca), ma la struttura d’insieme risulta prevedibile in ogni sviluppo. Ciò peraltro non elimina il preminente fattore umanistico, abile a far breccia senza sforzo nel cuore dello spettatore, per una storia in fondo basilare e tuttavia densa di valore.
Per un’opera di questo genere, affidarsi a volti giusti non è elemento secondario. La decisione di puntare su Berléand risulta vincente, e non dispiacciono nemmeno le presenze, accanto ad attori non professionisti, di qualche faccia piuttosto nota. Tra loro Déborah Lukumuena, già vista nell’apprezzabile Divines (per il quale si aggiudicò un César) insieme a Kacey Mottet-Klein, arrivato a Locarno da ragazzino sette anni fa per l'anteprima di Keeper di Guillaume Senez e nel frattempo diventato adulto.
Un titolo come Last Dance può essere accusato di strizzate d’occhio alla platea, ridondanze, eccessiva melensaggine. Non del tutto a torto. Ma se è vero che il concetto di grande film risiede altrove, è altrettanto vero che siamo di fronte a una pellicola delicata, emozionante e dolce come le fusa feline. Di questi tempi, non è poco.
«Tu es avec moi, pour toujours.»
Alessio Gradogna
Sezione di riferimento: Locarno 75
Scheda tecnica
Titolo originale: Last Dance
Anno: 2022
Durata: 84’
Regia e sceneggiatura: Delphine Lehericey
Fotografia: Hichame Alaouié
Montaggio: Nicolas Rumpl
Musiche: Nicolas Rabaeus
Attori: François Berléand, Kacey Mottet Klein, La Ribot, Déborah Lukumuena, Astrid Whettnall
Presentato nella sfarzosa cornice di Piazza Grande a Locarno e vincitore del premio del pubblico, Last Dance è un film di produzione svizzero/belga che si pone come inno all’amore senza fine, e al contempo come esempio di una riscoperta di sé in grado di superare imbarazzi, limiti e confini mai nemmeno avvicinati. La regista e sceneggiatrice Delphine Lehericey sfrutta le coreografie di Maria Ribot, qui in veste di attrice ma nella realtà ballerina e artista visiva di successo (ha conseguito il Leone d'Oro alla Biennale Danza di Venezia nel 2020), e dopo il complesso ritratto adolescenziale del precedente Le milieu de l’horizon, crea il toccante disegno di un soggetto anziano che nell’ottemperare il patto con la compagna perduta le (e si) regala un afflato di romantica eternità.
Non è un caso se Germain, interpretato con sincera partecipazione dal sempre bravo François Berléand, tiene sul comodino accanto al letto À la recherche du temps perdu di Proust. Tra una pagina e l’altra, il suo romanzo esistenziale si arricchisce di un capitolo prima impossibile da prevedere, nel quale la recherche si traduce nel significato del movimento, nella liberazione del corpo, nello scioglimento dell’afflizione attraverso l’ipnotica celebrazione del gesto sinuoso, possibile eccome anche in età avanzata, a patto di lasciar defluire pregiudizi e timidezze.
La missione di Germain diventa inoltre una fuga dalle insopportabili insistenze di chi gli sta intorno, soffocanti figure iper-protettive convinte di fornirgli un necessario aiuto quando invece lui vorrebbe semplicemente essere lasciato in pace. Le sproporzionate attenzioni scatenano l’effetto opposto, totale insofferenza e persino piccole vendette (le torte quotidiane preparate dalla vicina date da mangiare al gatto, i telefoni staccati di proposito), perché l’indipendenza è un’anelata virtù, così come lo è mantenere il segreto sul luogo dove Germain inizia a recarsi ogni giorno (il teatro), al fine di evitare ulteriori ingerenze.
Le prove dello spettacolo sono un intimo e silente legame con cui mantenere il filo della passione prima di salutare davvero Lise e traghettarla verso l’aldilà, e si rivelano un supporto essenziale (questo sì) per combattere la nostalgia senza crollare. Nei passi inventati su quel palco, misurati eppure carichi di mistero e seduzione, Germain consacra decenni di felice relazione con la donna della vita e le indirizza un ultimo e commovente bacio.
Last Dance, per alcuni aspetti affine al recente e pregevolissimo C’est ça l’amour con Bouli Lanners, è un lavoro che tenta di abbinare commedia e dramma, serie riflessioni sulla terza età e tocchi di ilarità, mondo del cinema e peculiarità della danza, senza inventare nulla. La regia si amalgama con le coreografie studiate dalla Ribot, trovando momenti di notevole forza visiva e idee ragguardevoli (i teneri messaggi alla moglie defunta scritti a mano su bigliettini poi nascosti nei libri in biblioteca), ma la struttura d’insieme risulta prevedibile in ogni sviluppo. Ciò peraltro non elimina il preminente fattore umanistico, abile a far breccia senza sforzo nel cuore dello spettatore, per una storia in fondo basilare e tuttavia densa di valore.
Per un’opera di questo genere, affidarsi a volti giusti non è elemento secondario. La decisione di puntare su Berléand risulta vincente, e non dispiacciono nemmeno le presenze, accanto ad attori non professionisti, di qualche faccia piuttosto nota. Tra loro Déborah Lukumuena, già vista nell’apprezzabile Divines (per il quale si aggiudicò un César) insieme a Kacey Mottet-Klein, arrivato a Locarno da ragazzino sette anni fa per l'anteprima di Keeper di Guillaume Senez e nel frattempo diventato adulto.
Un titolo come Last Dance può essere accusato di strizzate d’occhio alla platea, ridondanze, eccessiva melensaggine. Non del tutto a torto. Ma se è vero che il concetto di grande film risiede altrove, è altrettanto vero che siamo di fronte a una pellicola delicata, emozionante e dolce come le fusa feline. Di questi tempi, non è poco.
«Tu es avec moi, pour toujours.»
Alessio Gradogna
Sezione di riferimento: Locarno 75
Scheda tecnica
Titolo originale: Last Dance
Anno: 2022
Durata: 84’
Regia e sceneggiatura: Delphine Lehericey
Fotografia: Hichame Alaouié
Montaggio: Nicolas Rumpl
Musiche: Nicolas Rabaeus
Attori: François Berléand, Kacey Mottet Klein, La Ribot, Déborah Lukumuena, Astrid Whettnall