
Fa un cinema titanico e fluviale, Lav Diaz, e lo sappiamo. Un cinema che resiste ai codici canonizzati e alle durate standard per necessità e per intime ragioni espressive, come chi ha imparato a conoscerlo e ad amarlo ha avuto modo di apprendere sulla propria pelle.
Il suo penultimo film, From What Is Before, cui ha fatto seguito Storm Children, Book 1 passato all’ultimo Torino Film Festival, conferma la caratura incredibile della sua arte e se possibile ne riafferma la potenza. Perché si tratta forse del suo film più sentito e necessario; dell’ode funebre a un paese che è casa (e famiglia) ma anche maledizione, che è consolazione ma anche divinità matrigna, umorale, temibile in quanto imprevedibile.
Un’opera imperiosa e gigantesca, From What Is Before, Pardo d’Oro all’ultimo Festival di Locarno, la cui eco persiste e riaffiora nella mente anche a mesi di distanza dalla visione. Siamo nelle Filippine del 1972 e in un barrio si susseguono evidenti piuttosto oscuri: si sentono alcuni misteriosi e spaventosi lamenti provenire dal bosco, le mucche muoiono dopo essere state massacrate e squartate, delle abitazioni vengono date alle fiamme, gli uomini vengono ritrovati con addosso vistose ferite. Il dittatore Marcos ha rinnovato lo spietato magistero del suo brutale regime sul paese, che adesso si trova sottoposto ai rigidi dettami della legge marziale.
Con una mirabile e tutt’altro che azzardata associazione che poteva essere pensata solo da un cineasta enorme, Diaz traduce quei segnali nefasti in profezie di una catastrofe tanto immanente quanto imminente, a riprova del fatto che il suo è un cinema che riproduce il respiro perduto del mondo, la forza impressionante e divorante della natura, la condizione di uomini posti ai margini della realtà globalizzata e che di quel sistema capitalistico non possono non essere il controcampo, tanto tragico quanto torrenziale, subissato non a caso da monsoni e grandi piogge. Perché la loro vita così come il loro dolore non conoscono mezze misure o edulcorazioni di nessun genere e pertanto scorrono entrambi senza limiti, inarrestabili come un’emorragia. O come un fiume di lacrime.
“Questi sono tempi maledetti”, si dice nel meraviglioso dialogo tra due uomini che si appresta a chiudere il film, uno dei tanti momenti da tatuare nella memoria di un’opera che è un puro territorio esperienziale, in cui mettere in discussione se stessi con forza: le proprie convinzioni e i propri confini geografici in quanto esseri umani e cittadini, ma anche le proprie abitudini come spettatori, vessate dai canoni, dalle semplificazioni, dalle false apparenze in bella posa.
Lav Diaz, oltre che un genio del cinema, è anche un sublime antropologo, un finissimo regista politico nel senso più alto e completo (perché non spiega mai, mostra soltanto), senza contare le sue eccezionali doti di rabdomante. Perché non si può definire altrimenti un uomo di cinema che prende lo spettatore e lo trascina in un universo estetico così ruvido ma non per questo non altrettanto poetico, in cui non esistono compromessi e le sue inquadrature fisse, quasi sempre in piano-sequenza, sono dei tableaux vivants di abbagliante nettezza, che inducono a un seduttivo rapimento dei sensi. Ognuno di essi è statico eppure iper-strutturato, parte da un’idea di regia magari semplice ma la sviluppa in modo sempre sorprendente, soffermandosi sulla contemplazione e sulla paralisi dell’inquadratura come scavo per penetrare i misteri del creato, del disegno divino, dei suoi personaggi.
Ogni take di Lav Diaz è una scelta di campo risolutiva, uno sfregio a chi proprio non vuole abbattere il pregiudizio dell’ostilità nei confronti suoi e del suo cinema, oltre che una richiesta d’aiuto, un urlo, un allarme lanciato dai confini del mondo e diretto a ogni essere vivente sulla faccia del pianeta. From What Is Before è probabilmente il suo capolavoro proprio perché riesce ad amplificare tale dimensione panteista portandola alle estreme conseguenze, lavorando sul lato fortemente polarizzato del suo cinema senza nessun compiacimento - il film infatti è esente da certe asprezze più gratuite del passato di Lav Diaz, da certi radicalismi oltranzisti - e ponendosi così come un opus magnum sì interminabile ma anche di un’essenzialità a suo modo cristallina, della quale non si può spostare un millimetro e anche solo pensarlo sarebbe un delitto.
“Questa storia è la memoria di un cataclisma. Questa storia è la memoria del mio paese”. È lo stesso Lav Diaz a irrompere sulle immagini con la sua voce fuori campo, poco dopo il prologo e poco prima dell’epilogo, ribadendo che la cronaca dell’episodio traumatico isolato, nonché per estensione la storia personale del singolo individuo, è parimenti importante per determinare la Storia, quella ufficiale, quella che i popoli come il suo, ancora preda dei loro limiti animisti e della propria stessa naiveté naturalista, non hanno il diritto non solo di scrivere ma nemmeno, più drasticamente, di vivere.
Grazie al vigore senza pari delle sue immagini come sempre sovrumane e di un incanto mai così commovente e struggente, Lav Diaz riesce anche nell’impresa di mettere in scena una giovane connazionale gravemente disturbata senza far apparire quel frangente ambiguo e ricattatorio, ma solo umano e onesto come poche altre cose. Moralmente altissimo come un cinema che è capace di unire civiltà ed epica senza lasciare a quest’ultima la licenza di stritolare la prima, che è in grado di guardare in faccia un popolo oppresso con occhi impassibili eppure palpitanti. Il tutto in un “paese morto” diventato “paese dei morti”, nel quale la traspirante bellezza della natura (le scene alla scogliera mettono spalle al muro, tanto sono potenti) sposa l’efferatezza del gesto dell’uomo dando luogo a un ossimoro che è senza ritorno come tutte le tragedie ineluttabili e tutte le compresenze drammatiche che martorizzano certi angoli del mondo.
È soprattutto questo aspetto, tra i tanti, a fare di From What Is Before, senza mezzi termini, una delle più grandi esperienze cinematografiche degli ultimi anni, il manifesto perfetto di un cinema atto a spingersi oltre l’impossibile e di guadare qualsiasi fiume. Anche il più ostile. Anzi, proprio quello.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Festival Locarno
Scheda tecnica
Titolo originale: Mula sa kung ano ang noon
Regia: Lav Diaz
Sceneggiatura: Lav Diaz
Montaggio: Lav Diaz
Fotografia: Lav Diaz
Anno: 2014
Durata: 338'
Interpreti: Hazel Orencio, Perry Dizon, Liryc Paolo Dela Cruz, Kim Perez, Lucky Jay De Guzman
Il suo penultimo film, From What Is Before, cui ha fatto seguito Storm Children, Book 1 passato all’ultimo Torino Film Festival, conferma la caratura incredibile della sua arte e se possibile ne riafferma la potenza. Perché si tratta forse del suo film più sentito e necessario; dell’ode funebre a un paese che è casa (e famiglia) ma anche maledizione, che è consolazione ma anche divinità matrigna, umorale, temibile in quanto imprevedibile.
Un’opera imperiosa e gigantesca, From What Is Before, Pardo d’Oro all’ultimo Festival di Locarno, la cui eco persiste e riaffiora nella mente anche a mesi di distanza dalla visione. Siamo nelle Filippine del 1972 e in un barrio si susseguono evidenti piuttosto oscuri: si sentono alcuni misteriosi e spaventosi lamenti provenire dal bosco, le mucche muoiono dopo essere state massacrate e squartate, delle abitazioni vengono date alle fiamme, gli uomini vengono ritrovati con addosso vistose ferite. Il dittatore Marcos ha rinnovato lo spietato magistero del suo brutale regime sul paese, che adesso si trova sottoposto ai rigidi dettami della legge marziale.
Con una mirabile e tutt’altro che azzardata associazione che poteva essere pensata solo da un cineasta enorme, Diaz traduce quei segnali nefasti in profezie di una catastrofe tanto immanente quanto imminente, a riprova del fatto che il suo è un cinema che riproduce il respiro perduto del mondo, la forza impressionante e divorante della natura, la condizione di uomini posti ai margini della realtà globalizzata e che di quel sistema capitalistico non possono non essere il controcampo, tanto tragico quanto torrenziale, subissato non a caso da monsoni e grandi piogge. Perché la loro vita così come il loro dolore non conoscono mezze misure o edulcorazioni di nessun genere e pertanto scorrono entrambi senza limiti, inarrestabili come un’emorragia. O come un fiume di lacrime.
“Questi sono tempi maledetti”, si dice nel meraviglioso dialogo tra due uomini che si appresta a chiudere il film, uno dei tanti momenti da tatuare nella memoria di un’opera che è un puro territorio esperienziale, in cui mettere in discussione se stessi con forza: le proprie convinzioni e i propri confini geografici in quanto esseri umani e cittadini, ma anche le proprie abitudini come spettatori, vessate dai canoni, dalle semplificazioni, dalle false apparenze in bella posa.
Lav Diaz, oltre che un genio del cinema, è anche un sublime antropologo, un finissimo regista politico nel senso più alto e completo (perché non spiega mai, mostra soltanto), senza contare le sue eccezionali doti di rabdomante. Perché non si può definire altrimenti un uomo di cinema che prende lo spettatore e lo trascina in un universo estetico così ruvido ma non per questo non altrettanto poetico, in cui non esistono compromessi e le sue inquadrature fisse, quasi sempre in piano-sequenza, sono dei tableaux vivants di abbagliante nettezza, che inducono a un seduttivo rapimento dei sensi. Ognuno di essi è statico eppure iper-strutturato, parte da un’idea di regia magari semplice ma la sviluppa in modo sempre sorprendente, soffermandosi sulla contemplazione e sulla paralisi dell’inquadratura come scavo per penetrare i misteri del creato, del disegno divino, dei suoi personaggi.
Ogni take di Lav Diaz è una scelta di campo risolutiva, uno sfregio a chi proprio non vuole abbattere il pregiudizio dell’ostilità nei confronti suoi e del suo cinema, oltre che una richiesta d’aiuto, un urlo, un allarme lanciato dai confini del mondo e diretto a ogni essere vivente sulla faccia del pianeta. From What Is Before è probabilmente il suo capolavoro proprio perché riesce ad amplificare tale dimensione panteista portandola alle estreme conseguenze, lavorando sul lato fortemente polarizzato del suo cinema senza nessun compiacimento - il film infatti è esente da certe asprezze più gratuite del passato di Lav Diaz, da certi radicalismi oltranzisti - e ponendosi così come un opus magnum sì interminabile ma anche di un’essenzialità a suo modo cristallina, della quale non si può spostare un millimetro e anche solo pensarlo sarebbe un delitto.
“Questa storia è la memoria di un cataclisma. Questa storia è la memoria del mio paese”. È lo stesso Lav Diaz a irrompere sulle immagini con la sua voce fuori campo, poco dopo il prologo e poco prima dell’epilogo, ribadendo che la cronaca dell’episodio traumatico isolato, nonché per estensione la storia personale del singolo individuo, è parimenti importante per determinare la Storia, quella ufficiale, quella che i popoli come il suo, ancora preda dei loro limiti animisti e della propria stessa naiveté naturalista, non hanno il diritto non solo di scrivere ma nemmeno, più drasticamente, di vivere.
Grazie al vigore senza pari delle sue immagini come sempre sovrumane e di un incanto mai così commovente e struggente, Lav Diaz riesce anche nell’impresa di mettere in scena una giovane connazionale gravemente disturbata senza far apparire quel frangente ambiguo e ricattatorio, ma solo umano e onesto come poche altre cose. Moralmente altissimo come un cinema che è capace di unire civiltà ed epica senza lasciare a quest’ultima la licenza di stritolare la prima, che è in grado di guardare in faccia un popolo oppresso con occhi impassibili eppure palpitanti. Il tutto in un “paese morto” diventato “paese dei morti”, nel quale la traspirante bellezza della natura (le scene alla scogliera mettono spalle al muro, tanto sono potenti) sposa l’efferatezza del gesto dell’uomo dando luogo a un ossimoro che è senza ritorno come tutte le tragedie ineluttabili e tutte le compresenze drammatiche che martorizzano certi angoli del mondo.
È soprattutto questo aspetto, tra i tanti, a fare di From What Is Before, senza mezzi termini, una delle più grandi esperienze cinematografiche degli ultimi anni, il manifesto perfetto di un cinema atto a spingersi oltre l’impossibile e di guadare qualsiasi fiume. Anche il più ostile. Anzi, proprio quello.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Festival Locarno
Scheda tecnica
Titolo originale: Mula sa kung ano ang noon
Regia: Lav Diaz
Sceneggiatura: Lav Diaz
Montaggio: Lav Diaz
Fotografia: Lav Diaz
Anno: 2014
Durata: 338'
Interpreti: Hazel Orencio, Perry Dizon, Liryc Paolo Dela Cruz, Kim Perez, Lucky Jay De Guzman