Si dice spesso che i grandi letterati e, in generale, gli artisti siano coloro che riescono a dire con parole e immagini quello che noi “comuni mortali” abbiamo dentro e/o abbiamo vissuto, ma che non sapremmo raccontare allo stesso modo.
Thierry de Peretti sceglie la Corsica, il suo Paese d'origine, per il debutto nel lungometraggio, spinto dalla voglia di raccontarne le contraddizioni e le ombre che la abitano. “Mio padre è originario proprio del luogo dov'è avvenuto il fatto di cronaca nera a cui mi sono ispirato per “Apache”, ossia Porto Vecchio nel Sud della Corsica, ma non posso considerarlo un film autobiografico perché sono andato via quando avevo sedici/diciassette anni. Proprio per queste origini ho deciso di ambientare in quei luoghi il mio esordio alla regia, mosso anche dalla voglia di rappresentare la Corsica (pochissimo raffigurata sia sul piano delle arti visive che in campo letterario) come non si è mai vista, scegliendo di misurarmi con una storia difficile e non facendo agiografia".
"Quello di Porto Vecchio è un ambiente pieno di differenze. C'è un capitalismo molto prospero, molti personaggi dello spettacolo che vengono appositamente per la bella stagione e intere famiglie che si sono sviluppate in conseguenza di questa invasione e detengono le imprese. C'è una gioventù privilegiata e una gioventù un po' grigia che non sta né da una parte né dall'altra. È una regione che ha avuto un'esplosione di ricchezza negli ultimi dieci/quindici anni e dove vige una forte separazione sul piano etnico e razziale dominata da un paradosso interno in quanto, per esempio, i ragazzi si ritrovano tutti indistintamente nello stesso liceo (essendo l'unico) e poi, quando la scuola finisce, si dividono, ognuno nella propria comunità. Ma le vere separazioni sono sociali” e questo in Apache lo si nota eccome, merito della struttura drammaturgica e dei pochi, ma incisivi dialoghi.
De Peretti focalizza l'attenzione su una parte del racconto, quella che riteneva la più significativa, così da addentrarsi nelle tante sfaccettature insite in “questa sorta di confine smussato” e utilizzare l'arte in senso catartico senza risultare pretenzioso. “Una delle sfide che si pone il film è quella della memoria collettiva di un ambiente, di una piccola comunità, intento che va di pari passo con la scommessa di provare a esorcizzare il delitto scegliendo di girare nei luoghi in cui il crimine era accaduto senza ricostruirli, partendo dall'idea che questo crimine appartiene alla collettività e non solo alla mia visione registica”.
Facendo tesoro dei suoi punti di riferimento (vedi Pier Paolo Pasolini) e del background teatrale, il regista corso non ha voluto attori professionisti per rappresentare questa gioventù “invisibile” e un po' allo sbaraglio, ma ha scavato nell'humus umano di quella zona. “Ho lavorato per più di un anno facendo un workshop e un casting permanente così da incontrare quasi il 95% degli attori tra i sedici e i vent'anni; questo mi ha permesso non solo di formare il cast, ma anche di farmi un'idea precisa di come fosse questa gioventù. Abbiamo molto lavorato sull'improvvisazione, sulla sceneggiatura e sulla creazione di scene non presenti nello script; ma la cosa più importante che abbiamo fatto è stata restare insieme un anno. Io vengo dal teatro per cui ci tengo a vivere con gli attori, a costruire dei momenti in cui non accade niente, non ho come obiettivo primario la performance, mi piace che si crei un gruppo con cui si possa assaporare il gusto di vivere insieme la giornata”.
Una scelta insolita e che colpisce sin dal primo fotogramma è stata quella di girare nel 4:3 classico. “È il formato del ritratto, del cinema primitivo, mi piace molto e mi sembrava il formato più adatto per realizzare un contrasto tra l'evento di cronaca e il modo anti-documentaristico di girare, così da creare uno shock tra la dimensione della realtà e la messa in scena”.
Il resoconto è tratto dalla conferenza di presentazione del film, avvenuta a Roma presso il Cinema Quattro Fontane, il 26 luglio 2013.
Maria Lucia Tangorra
Sezione di riferimento: Interviste
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Thierry de Peretti sceglie la Corsica, il suo Paese d'origine, per il debutto nel lungometraggio, spinto dalla voglia di raccontarne le contraddizioni e le ombre che la abitano. “Mio padre è originario proprio del luogo dov'è avvenuto il fatto di cronaca nera a cui mi sono ispirato per “Apache”, ossia Porto Vecchio nel Sud della Corsica, ma non posso considerarlo un film autobiografico perché sono andato via quando avevo sedici/diciassette anni. Proprio per queste origini ho deciso di ambientare in quei luoghi il mio esordio alla regia, mosso anche dalla voglia di rappresentare la Corsica (pochissimo raffigurata sia sul piano delle arti visive che in campo letterario) come non si è mai vista, scegliendo di misurarmi con una storia difficile e non facendo agiografia".
"Quello di Porto Vecchio è un ambiente pieno di differenze. C'è un capitalismo molto prospero, molti personaggi dello spettacolo che vengono appositamente per la bella stagione e intere famiglie che si sono sviluppate in conseguenza di questa invasione e detengono le imprese. C'è una gioventù privilegiata e una gioventù un po' grigia che non sta né da una parte né dall'altra. È una regione che ha avuto un'esplosione di ricchezza negli ultimi dieci/quindici anni e dove vige una forte separazione sul piano etnico e razziale dominata da un paradosso interno in quanto, per esempio, i ragazzi si ritrovano tutti indistintamente nello stesso liceo (essendo l'unico) e poi, quando la scuola finisce, si dividono, ognuno nella propria comunità. Ma le vere separazioni sono sociali” e questo in Apache lo si nota eccome, merito della struttura drammaturgica e dei pochi, ma incisivi dialoghi.
De Peretti focalizza l'attenzione su una parte del racconto, quella che riteneva la più significativa, così da addentrarsi nelle tante sfaccettature insite in “questa sorta di confine smussato” e utilizzare l'arte in senso catartico senza risultare pretenzioso. “Una delle sfide che si pone il film è quella della memoria collettiva di un ambiente, di una piccola comunità, intento che va di pari passo con la scommessa di provare a esorcizzare il delitto scegliendo di girare nei luoghi in cui il crimine era accaduto senza ricostruirli, partendo dall'idea che questo crimine appartiene alla collettività e non solo alla mia visione registica”.
Facendo tesoro dei suoi punti di riferimento (vedi Pier Paolo Pasolini) e del background teatrale, il regista corso non ha voluto attori professionisti per rappresentare questa gioventù “invisibile” e un po' allo sbaraglio, ma ha scavato nell'humus umano di quella zona. “Ho lavorato per più di un anno facendo un workshop e un casting permanente così da incontrare quasi il 95% degli attori tra i sedici e i vent'anni; questo mi ha permesso non solo di formare il cast, ma anche di farmi un'idea precisa di come fosse questa gioventù. Abbiamo molto lavorato sull'improvvisazione, sulla sceneggiatura e sulla creazione di scene non presenti nello script; ma la cosa più importante che abbiamo fatto è stata restare insieme un anno. Io vengo dal teatro per cui ci tengo a vivere con gli attori, a costruire dei momenti in cui non accade niente, non ho come obiettivo primario la performance, mi piace che si crei un gruppo con cui si possa assaporare il gusto di vivere insieme la giornata”.
Una scelta insolita e che colpisce sin dal primo fotogramma è stata quella di girare nel 4:3 classico. “È il formato del ritratto, del cinema primitivo, mi piace molto e mi sembrava il formato più adatto per realizzare un contrasto tra l'evento di cronaca e il modo anti-documentaristico di girare, così da creare uno shock tra la dimensione della realtà e la messa in scena”.
Il resoconto è tratto dalla conferenza di presentazione del film, avvenuta a Roma presso il Cinema Quattro Fontane, il 26 luglio 2013.
Maria Lucia Tangorra
Sezione di riferimento: Interviste
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