All’interno della cinematografia di Xavier Dolan, regista prolifico e vitale, Juste la fin du monde si inserisce come un’opera apparentemente atipica, ridotta per durata e per impostazione drammaturgica. L’intenzione discorsiva descrive la scia prodotta dal ritorno a casa del protagonista Louis (Gaspard Ulliel) dal proprio auto-esilio decennale, con la missione dichiarata fin dalle prime battute di comunicare la sua morte imminente. Si dipana così un Kammerspiel tutto chiuso in se stesso, che pone l’accento sugli abbracci manca(n)ti, più che sulla narrazione specifica delle cause dell’allontanamento: Louis è il prodotto di una famiglia come tante, mai davvero disfunzionale, nella quale è facile riscontrare l’incomunicabilità degli e tra gli affetti.
Mommy, in uscita appena due anni fa, rappresentava evidentemente un punto e virgola nella sua produzione, una sorta di spartiacque simbolico su una carriera in perenne ascesa, tra messa a punto di poetica e capacità di limare i propri virtuosismi e la trasbordante propensione all’esuberanza di tecnica e sentimento. Il suo essere pop, qui, si vorrebbe del tutto fagocitato dalla restrizione degli spazi, e la stessa verbosità genetica e incessante si fa unico punto di vista focale, terreno ambiguo e irrisolto dove rintracciare i fondali dell’inconscio e il senso profondo del nido dal quale questi figli (Léa Seydoux, Vincent Cassel) faticano, in un modo o nell’altro, a prendere le distanze.
Xavier Dolan, sempre, riusciva a giustificare le proprie nevrosi autoriali, le manie e le aperture disincantate che facevano (fanno) del suo cinema un atto puro di energia, di scrutamento dell’uomo in ogni sua paresi comportamentale ed emotiva. Riusciva laddove gli espedienti tecnici (slow-motion, cambio di formato, insistenti primi piani e irregolarità kitsch dei personaggi) esulavano dalla loro portata ammiccante per farsi polmone dell’interiorità, senza vie di mezzo, religiosamente. Juste la fin du monde è figlio di questa necessità dialettica, e tenta un compromesso strutturale tra slancio visivo e caratteri teatrali, provando a fondere una tematica a lui affine (i rapporti interpersonali) con un’impostazione testuale da palcoscenico.
Il cinema di Dolan vuole farsi piccolo, vorrebbe nascondersi negli anfratti di un silenzio o di un corto circuito verbale, ridimensionando le parentesi d’evasione musicale o i flashback impalpabili e atmosferici, ma rimane incastrato nel testo, ansimando, ricercando una tensione tragica che troppo spesso si fa noia. E i caratteri umani, nonostante vengano abbracciati in tersi primi piani, sono figli d’un approccio di ancora troppo distacco, e scivolano via prima che possano sentirsi marchiati a fuoco, nobilitati da uno sguardo che è eppure sempre sorprendente.
Il mutismo di Louis, che trova specchio nella sommessa Catherine (Marion Cotillard), si confronta con la coscienza scomoda e rabbiosa di Antoine (Vincent Cassel), che dà voce al malessere sotterraneo che s’intende lasciar sopito e che prepara alla sommossa conclusiva, suggellando un’impennata emotiva che riconsidera i precedenti minuti di stallo. La sensazione è di incompiutezza, di un ritmo sincopato e mancante, mentre Dolan si fa, forse per la prima volta davvero, regista europeo e francese, sabotando la propria autorialità in favore di un testo al quale sente di doversi attenere, tirando il freno a mano, ma non rinunciando a certi suoi stilemi. Perciò, l’improvvisata danza in cucina tra madre e figlia sulla dance moldava e il sopralluogo di Louis all’interno della sua vecchia camera ricordano fin troppo quanto già avvenuto nella sua opera precedente, mentre l’incollarsi intimista ai volti (o il parziale piano-sequenza del dialogo tra fratelli in automobile, quasi tutto a camera fissa) non è sufficiente a sostenere quanto finora documentato: lo scandagliamento di un linguaggio autonomo che, a ogni episodio, trovava soluzioni e incastellature sempre originali.
In questo senso, Juste la fin du monde segna una parziale battuta d’arresto all’interno di un percorso autonomo. Ancora elaborata dalla fotografia pulita e satura di Andrè Turpin, più che mai, questa volta, la scena è inondata da orchestrazioni musicali che sovrastano il dialogo. Sempre e comunque l’occhio di Dolan rimane estasiato (ed estasiante) di fronte alla propria capienza e grandezza di ascolto, iper-sensibilità e trattamento di quanto narra, fluendo tra angoscia melodrammatica e una chiusa shock che tramortisce, ma che evita qualsiasi forma di giudizio.
Louis permane debole e impotente dinnanzi a una madre tenuta stretta da una cultura per nulla grandangolare; immobile e spaurito nel guardarsi dentro il fratello, non così diverso, che a medesime condizioni ha potuto solo diventare una gigantografia terribile di se stesso; distante e straniero per la sorella; forse solo complementare alla cognata Catherine, anch’ella dalla voce flebile e adattatasi ad ascoltare, rimanendo nell’angolo. Il riavvicinamento non può che essere monco, fittizio obbligatoriamente. La sua promessa di tornare, meglio e più di frequente, nient’altro che una “farsa”. Così si consuma il carcere casalingo nel quale Louis desiste, trascinato dal più scaltro Antoine che smuove il bollore coperto, irreprensibile davanti a una così decisa forma di condivisione terminale, sbagliata, di superficie. Dove l’amore è toccabile, solo vetusto di polvere, o arginato all’interno di una tubatura arrugginita.
Dolan firma il suo film più monotono, e soprattutto più sconsolato, grondante di rassegnazione, nel quale non esiste libertà né positiva abnegazione. Steve (Mommy) scappava, trionfante, da una vita di relegazione, nell’ammutinamento degli istinti; Tom (Tom à la ferme) tornava alla civiltà dopo aver affrontato il proprio demone rurale, come finalmente evacuato da un incubo a occhi aperti; il sacrificio sentimentale di Laurence (Laurence Anyways) avveniva in virtù di una conquistata identità di genere; Francis (J’ai tué ma mère) e Hubert (Les amours imaginaires) rimanevano, ciechi, attaccati alle loro dinamiche adolescenziali, con un ingenuo incanto a loro modo compiaciuto.
Qui per la prima volta Dolan si accartoccia, dolente, in una sconfitta crepuscolare, passiva, dove si espleta quanto possibile, in un regime di disabilità che diversa non potrà mai essere. Il passerotto agonizzante, che sbatte contro ogni parete, è allora simbolo chiaro di un’opera che riflette, anche nella sua costruzione a tratti castrante e imperfetta, tutto l’autismo della consanguineità. “La prossima volta saremo più preparati”, sospira la madre (Nathalie Baye), e insieme a lei, ci auspichiamo, un po’ anche il suo cinema.
Laura Delle Vedove
Sezioni di riferimento: Cannes 69, Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: Juste la fin du monde
Anno: 2016
Regia: Xavier Dolan
Attori: Gaspard Ulliel, Vincent Cassel, Marion Cotillard, Lèa Seyxdoux, Nathalie Baye
Sceneggiatura: Xavier Dolan, basata sul dramma di Jean-Luc Lagarce
Fotografia: Andrè Turpin
Montaggio: Xavier Dolan
Musiche: Gabriel Yared
Durata: 97’
Uscita italiana: 7 dicembre 2016
Mommy, in uscita appena due anni fa, rappresentava evidentemente un punto e virgola nella sua produzione, una sorta di spartiacque simbolico su una carriera in perenne ascesa, tra messa a punto di poetica e capacità di limare i propri virtuosismi e la trasbordante propensione all’esuberanza di tecnica e sentimento. Il suo essere pop, qui, si vorrebbe del tutto fagocitato dalla restrizione degli spazi, e la stessa verbosità genetica e incessante si fa unico punto di vista focale, terreno ambiguo e irrisolto dove rintracciare i fondali dell’inconscio e il senso profondo del nido dal quale questi figli (Léa Seydoux, Vincent Cassel) faticano, in un modo o nell’altro, a prendere le distanze.
Xavier Dolan, sempre, riusciva a giustificare le proprie nevrosi autoriali, le manie e le aperture disincantate che facevano (fanno) del suo cinema un atto puro di energia, di scrutamento dell’uomo in ogni sua paresi comportamentale ed emotiva. Riusciva laddove gli espedienti tecnici (slow-motion, cambio di formato, insistenti primi piani e irregolarità kitsch dei personaggi) esulavano dalla loro portata ammiccante per farsi polmone dell’interiorità, senza vie di mezzo, religiosamente. Juste la fin du monde è figlio di questa necessità dialettica, e tenta un compromesso strutturale tra slancio visivo e caratteri teatrali, provando a fondere una tematica a lui affine (i rapporti interpersonali) con un’impostazione testuale da palcoscenico.
Il cinema di Dolan vuole farsi piccolo, vorrebbe nascondersi negli anfratti di un silenzio o di un corto circuito verbale, ridimensionando le parentesi d’evasione musicale o i flashback impalpabili e atmosferici, ma rimane incastrato nel testo, ansimando, ricercando una tensione tragica che troppo spesso si fa noia. E i caratteri umani, nonostante vengano abbracciati in tersi primi piani, sono figli d’un approccio di ancora troppo distacco, e scivolano via prima che possano sentirsi marchiati a fuoco, nobilitati da uno sguardo che è eppure sempre sorprendente.
Il mutismo di Louis, che trova specchio nella sommessa Catherine (Marion Cotillard), si confronta con la coscienza scomoda e rabbiosa di Antoine (Vincent Cassel), che dà voce al malessere sotterraneo che s’intende lasciar sopito e che prepara alla sommossa conclusiva, suggellando un’impennata emotiva che riconsidera i precedenti minuti di stallo. La sensazione è di incompiutezza, di un ritmo sincopato e mancante, mentre Dolan si fa, forse per la prima volta davvero, regista europeo e francese, sabotando la propria autorialità in favore di un testo al quale sente di doversi attenere, tirando il freno a mano, ma non rinunciando a certi suoi stilemi. Perciò, l’improvvisata danza in cucina tra madre e figlia sulla dance moldava e il sopralluogo di Louis all’interno della sua vecchia camera ricordano fin troppo quanto già avvenuto nella sua opera precedente, mentre l’incollarsi intimista ai volti (o il parziale piano-sequenza del dialogo tra fratelli in automobile, quasi tutto a camera fissa) non è sufficiente a sostenere quanto finora documentato: lo scandagliamento di un linguaggio autonomo che, a ogni episodio, trovava soluzioni e incastellature sempre originali.
In questo senso, Juste la fin du monde segna una parziale battuta d’arresto all’interno di un percorso autonomo. Ancora elaborata dalla fotografia pulita e satura di Andrè Turpin, più che mai, questa volta, la scena è inondata da orchestrazioni musicali che sovrastano il dialogo. Sempre e comunque l’occhio di Dolan rimane estasiato (ed estasiante) di fronte alla propria capienza e grandezza di ascolto, iper-sensibilità e trattamento di quanto narra, fluendo tra angoscia melodrammatica e una chiusa shock che tramortisce, ma che evita qualsiasi forma di giudizio.
Louis permane debole e impotente dinnanzi a una madre tenuta stretta da una cultura per nulla grandangolare; immobile e spaurito nel guardarsi dentro il fratello, non così diverso, che a medesime condizioni ha potuto solo diventare una gigantografia terribile di se stesso; distante e straniero per la sorella; forse solo complementare alla cognata Catherine, anch’ella dalla voce flebile e adattatasi ad ascoltare, rimanendo nell’angolo. Il riavvicinamento non può che essere monco, fittizio obbligatoriamente. La sua promessa di tornare, meglio e più di frequente, nient’altro che una “farsa”. Così si consuma il carcere casalingo nel quale Louis desiste, trascinato dal più scaltro Antoine che smuove il bollore coperto, irreprensibile davanti a una così decisa forma di condivisione terminale, sbagliata, di superficie. Dove l’amore è toccabile, solo vetusto di polvere, o arginato all’interno di una tubatura arrugginita.
Dolan firma il suo film più monotono, e soprattutto più sconsolato, grondante di rassegnazione, nel quale non esiste libertà né positiva abnegazione. Steve (Mommy) scappava, trionfante, da una vita di relegazione, nell’ammutinamento degli istinti; Tom (Tom à la ferme) tornava alla civiltà dopo aver affrontato il proprio demone rurale, come finalmente evacuato da un incubo a occhi aperti; il sacrificio sentimentale di Laurence (Laurence Anyways) avveniva in virtù di una conquistata identità di genere; Francis (J’ai tué ma mère) e Hubert (Les amours imaginaires) rimanevano, ciechi, attaccati alle loro dinamiche adolescenziali, con un ingenuo incanto a loro modo compiaciuto.
Qui per la prima volta Dolan si accartoccia, dolente, in una sconfitta crepuscolare, passiva, dove si espleta quanto possibile, in un regime di disabilità che diversa non potrà mai essere. Il passerotto agonizzante, che sbatte contro ogni parete, è allora simbolo chiaro di un’opera che riflette, anche nella sua costruzione a tratti castrante e imperfetta, tutto l’autismo della consanguineità. “La prossima volta saremo più preparati”, sospira la madre (Nathalie Baye), e insieme a lei, ci auspichiamo, un po’ anche il suo cinema.
Laura Delle Vedove
Sezioni di riferimento: Cannes 69, Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: Juste la fin du monde
Anno: 2016
Regia: Xavier Dolan
Attori: Gaspard Ulliel, Vincent Cassel, Marion Cotillard, Lèa Seyxdoux, Nathalie Baye
Sceneggiatura: Xavier Dolan, basata sul dramma di Jean-Luc Lagarce
Fotografia: Andrè Turpin
Montaggio: Xavier Dolan
Musiche: Gabriel Yared
Durata: 97’
Uscita italiana: 7 dicembre 2016
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