Olocausto. Un termine che impietrisce, la traccia scritta di una delle pagine più ignominiose della storia umana, di fronte alla quale bisogna misurare la giusta temperatura emotiva e ricomporre la messa a fuoco del proprio sguardo.
Lo sguardo inedito adottato da László Nemes ritaglia una superficie stringente, in cui la macchina da presa vortica tra i rumori affannandosi, sin da subito, alle spalle del sonderkommando Saul Ausländer, membro della squadra speciale incaricata di condurre gli ebrei appena arrivati al campo verso gli angusti spazi delle camere a gas. Ed è lì, nelle profondità di Auschwitz-Birkenau, che si celano le verità taciute, iscritte nei volti dei sonder, i Geheimnisträger, "portatori di segreti" come venivano classificati dai nazisti, deprivati d'ogni forma d'umanità, in silenzio a ridosso di quel muro di grida soffocate: la zona grigia di un passato oscuro, l'eco di un dolore descritto nel frammento d'apertura oltre i limiti della comprensione e della rappresentazione.
I lunghi piani sequenza di Son of Saul (Il figlio di Saul) strattonano e immergono nella lunga e macabra marcia all'interno dei corridoi, tra le oscenità dell'industria della morte: tra le pile dei corpi ammassati e il calore opprimente dei forni crematori, le fosse comuni, i cumuli di cenere da smaltire, le valigie e i beni razziati dagli stessi reclusi, e usati come merce di scambio per soddisfare l'avidità dei kapò.
Tra le pieghe di quelli che sembrano veri e propri gironi infernali, l'apparizione di un ragazzino scampato per miracolo al gas, e immediatamente ucciso da un medico, riaccende negli occhi di un padre gli scampoli di quella forza di volontà repressa dopo quattro mesi di prigionia, conducendolo al disperato tentativo di ridare dignità e degna sepoltura a un corpo tra i milioni.
Le violenze e gli orrori non vengono mai mostrati direttamente; al contrario, il peso di tutta l'opera si poggia sull'uso di un linguaggio febbrile che trascende la dimensione puramente visiva, enfatizzando invece il groviglio di suoni che domina il fuori campo, dove tra sussurri e fugaci scambi di parole prende sostanza la rivolta armata messa in atto dai Sonderkommando nel 1944. Nemes, con uno stile disarmante che lascia ammutoliti, riesce a raccontare piccole storie dentro quella più grande, intrappolata sullo sfondo sfocato dell'immagine in 4:3. Nel contempo costringe lo spettatore a osservare da vicino l'ossessione che abita il viso di Saul, cosciente di essere un morto in sospeso, nell'illusione che la lunga corsa tra le foreste circostanti il lager possa essere l'atto risolutivo di un tragitto salvifico, l'apparizione di un sorriso fanciullesco dimenticato. È la metafora di un'età innocente capace di sfuggire, tra il silenzio degli alberi, a un destino già segnato, marchiato da quella grande X rossa cucita sul dorso della giacca del protagonista.
Il film d'esordio del trentottenne ungherese, vincitore del Gran Prix a Cannes, raggiunge l'apice di una folgorazione di rara intensità. Il dramma della Shoah, ampiamente trattato da opere monumentali come l'omonimo documentario di Claude Lanzmann, diventa oggi il perno morale intorno cui costruire un rinnovato pensiero critico, capace di svelare l'ambiguità celata nei controracconti conosciuti come I rotoli di Auschwitz, che il regista impressiona sulla pellicola sostanziando un universo instabile e insicuro, un limbo dove si agitano fantasmi a metà fra vittime e carnefici. Son of Saul è un film che trova, in una forse inconsapevole ispirazione, l'occasione di narrare la storia del cinema, muovendosi da un vissuto personale (quello di Nemes, che ha avuto parte della famiglia assassinata) e oltrepassando la soglia di quella che, in futuro, apparirà come una mirabile esperienza estetica e una preziosa testimonianza cinematografica.
Vincenzo Verderame
Sezione di riferimento: Cannes 68, Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: Saul Fia
Anno: 2015
Durata: 107'
Regia: László Nemes
Sceneggiatura: László Nemes, Clara Royer
Fotografia: Mátyás Erdély
Musiche: László Melis
Attori principali: Géza Röhrig, Levente Molnár, Urs Rechn
Uscita italiana: 21 gennaio 2016
Lo sguardo inedito adottato da László Nemes ritaglia una superficie stringente, in cui la macchina da presa vortica tra i rumori affannandosi, sin da subito, alle spalle del sonderkommando Saul Ausländer, membro della squadra speciale incaricata di condurre gli ebrei appena arrivati al campo verso gli angusti spazi delle camere a gas. Ed è lì, nelle profondità di Auschwitz-Birkenau, che si celano le verità taciute, iscritte nei volti dei sonder, i Geheimnisträger, "portatori di segreti" come venivano classificati dai nazisti, deprivati d'ogni forma d'umanità, in silenzio a ridosso di quel muro di grida soffocate: la zona grigia di un passato oscuro, l'eco di un dolore descritto nel frammento d'apertura oltre i limiti della comprensione e della rappresentazione.
I lunghi piani sequenza di Son of Saul (Il figlio di Saul) strattonano e immergono nella lunga e macabra marcia all'interno dei corridoi, tra le oscenità dell'industria della morte: tra le pile dei corpi ammassati e il calore opprimente dei forni crematori, le fosse comuni, i cumuli di cenere da smaltire, le valigie e i beni razziati dagli stessi reclusi, e usati come merce di scambio per soddisfare l'avidità dei kapò.
Tra le pieghe di quelli che sembrano veri e propri gironi infernali, l'apparizione di un ragazzino scampato per miracolo al gas, e immediatamente ucciso da un medico, riaccende negli occhi di un padre gli scampoli di quella forza di volontà repressa dopo quattro mesi di prigionia, conducendolo al disperato tentativo di ridare dignità e degna sepoltura a un corpo tra i milioni.
Le violenze e gli orrori non vengono mai mostrati direttamente; al contrario, il peso di tutta l'opera si poggia sull'uso di un linguaggio febbrile che trascende la dimensione puramente visiva, enfatizzando invece il groviglio di suoni che domina il fuori campo, dove tra sussurri e fugaci scambi di parole prende sostanza la rivolta armata messa in atto dai Sonderkommando nel 1944. Nemes, con uno stile disarmante che lascia ammutoliti, riesce a raccontare piccole storie dentro quella più grande, intrappolata sullo sfondo sfocato dell'immagine in 4:3. Nel contempo costringe lo spettatore a osservare da vicino l'ossessione che abita il viso di Saul, cosciente di essere un morto in sospeso, nell'illusione che la lunga corsa tra le foreste circostanti il lager possa essere l'atto risolutivo di un tragitto salvifico, l'apparizione di un sorriso fanciullesco dimenticato. È la metafora di un'età innocente capace di sfuggire, tra il silenzio degli alberi, a un destino già segnato, marchiato da quella grande X rossa cucita sul dorso della giacca del protagonista.
Il film d'esordio del trentottenne ungherese, vincitore del Gran Prix a Cannes, raggiunge l'apice di una folgorazione di rara intensità. Il dramma della Shoah, ampiamente trattato da opere monumentali come l'omonimo documentario di Claude Lanzmann, diventa oggi il perno morale intorno cui costruire un rinnovato pensiero critico, capace di svelare l'ambiguità celata nei controracconti conosciuti come I rotoli di Auschwitz, che il regista impressiona sulla pellicola sostanziando un universo instabile e insicuro, un limbo dove si agitano fantasmi a metà fra vittime e carnefici. Son of Saul è un film che trova, in una forse inconsapevole ispirazione, l'occasione di narrare la storia del cinema, muovendosi da un vissuto personale (quello di Nemes, che ha avuto parte della famiglia assassinata) e oltrepassando la soglia di quella che, in futuro, apparirà come una mirabile esperienza estetica e una preziosa testimonianza cinematografica.
Vincenzo Verderame
Sezione di riferimento: Cannes 68, Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: Saul Fia
Anno: 2015
Durata: 107'
Regia: László Nemes
Sceneggiatura: László Nemes, Clara Royer
Fotografia: Mátyás Erdély
Musiche: László Melis
Attori principali: Géza Röhrig, Levente Molnár, Urs Rechn
Uscita italiana: 21 gennaio 2016