ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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TORINO 32 - Félix et Meira, di Maxime Giroux

29/11/2014

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Meira vive a Montréal e fa parte di una comunità chassidica, ovvero una delle correnti più rigide e ortodosse dell'ebraismo, fondata dal rabbino Eliezer e imperniata su valori integralisti per i quali le donne sono ridotte a strumenti di sottomissione e riproduzione, tanto da essere “costrette” talvolta a generare fino a 14 figli. Come tutte le donne appartenenti alla comunità, Meira deve portare i capelli corti, mostrare la più completa devozione nei confronti del marito e occuparsi della casa e della prole; ogni forma di svago le è vietata, fosse anche soltanto l'ascolto della musica, e non le è nemmeno permesso guardare gli uomini negli occhi. Da anni accetta in silenzio questa situazione, per amore della figlioletta o forse perché non ha mai potuto provare nulla di diverso.
Un giorno Meira, per puro caso, incontra Félix, uomo che nulla a che fare con la comunità e che vive un momento di conflitto e dolore interiore, avendo appena perso il padre, con cui non ha fatto in tempo a risolvere conflitti sedimentati nel tempo. Tra i due, in apparenza così lontani e così diversi, scocca la classica scintilla che potrebbe cambiare il corso delle rispettive esistenze. Félix e Meira si guardano, si sfiorano, si pensano, si annusano, si cercano, anche se l'avvicinamento è assai complicato, soprattutto per le infinite remore psicologiche che frenano la donna in ogni minimo gesto. L'inseguimento procede dunque cauto, a piccole tappe, fino a che la voglia di uscire dalla gabbia in cui si è da troppo tempo confinati avrà la meglio.
Il regista canadese Maxime Giroux torna in concorso al Torino Film Festival, dove nel 2008 aveva presentato il suo lungometraggio d'esordio Demain, proponendo questa volta un'opera che ha saputo mettere d'accordo buona parte del pubblico e della critica, in virtù di una messinscena lieve, intima, graduale e attenta a sviluppare la trama contrapponendo il rigidissimo contesto sociale di appartenenza alla forza dirompente e un po' folle dell'amore.
Félix et Meira è un melodramma al contempo sussurrato e bruciante, un gioco di seduzione che vive di imbarazzi e remore, voglia di volare e ali tarpate, ideologie idiote e sogni di fuga, senso di possesso e orizzonti lontani. Il film indugia con buona efficacia sulle abitudini della comunità chassidica, alternando queste ultime alla precisa caratterizzazione di una donna (rappresentata dal volto soave di Anne-Élisabeth Bossé) che ne fa parte pur covando in sé una mentalità totalmente diversa, così da delineare la dicotomia tra le leggi inalienabili della dottrina religiosa e l'idea di emancipazione, tra i dogmi soffocanti della Fede e il romanticismo quasi infantile del sentimento nuovo che nasce, cresce e infine taglia i nodi della prigione interiore per esplodere in tutto il suo calore. 
Di per sé la storia raccontata da Giroux non brilla per originalità, ma la forza del film risiede proprio nella levità con cui il rapporto sulla carta impossibile tra i protagonisti trova la strada per emergere, scartare gli ostacoli e superare gli arcaici muri del dovere abbracciando l'emozione di una vita (anzi, due) che forse può finalmente rincominciare; per portare a termine il suo compito il canadese si concentra su dettagli decisivi, tremori fanciulleschi, sguardi bassi, desideri palpitanti, tenerissime “prime volte” (i jeans, mai indossati fino ad allora), inciampando in un paio di sottolineature eccessive e inutili (il topo in trappola, i due amanti spiati dalla strada) ma rialzandosi subito grazie all'indubbia qualità di una regia tanto misurata quanto efficace.
La parte finale di Félix et Meira, accattivante per sviluppo e concretezza e giustamente aperta fino all'ultima inquadratura e oltre, incontra la migliore via per una risoluzione in cui si fondono insieme malinconia e speranza, perdita e successo, rimpianto e consapevolezza, delineando l'eterna verità per la quale, volenti o nolenti, bisogna imparare a lasciar andare la persona che si ama, regalandole un ultimo ma fondamentale gesto di affetto e rispetto: la libertà. 
Anche perché poi, dopotutto, si fa sempre in tempo a tornare indietro.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda tecnica

Titolo originale: Félix et Meira
Anno: 2014
Regia: Maxime Giroux
Sceneggiatura: Alexandre Laferrière, Maxime Giroux
Fotografia: Sara Mishara
Montaggio: Mathieu Bouchard-Malo
Attori: Anne-Élisabeth Bossé, Benoit Girard, Hadas Yaron, Josh Dolgin, Luzer Twersky
Musiche: Olivier Alary
Durata: 102'

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TORINO 32 - For Some Inexplicable Reason, di Gábor Reisz

28/11/2014

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Áron ha quasi trent'anni. Non ha un lavoro fisso, né un preciso obiettivo nella vita. L'amata fidanzata lo ha appena lasciato, ragione per la quale il ragazzo soffre un momento di acuta depressione, tanto che spesso e volentieri muore, lasciandosi cadere per terra all'improvviso, ovunque, per strada e sui mezzi pubblici, tra lo stupore della gente. Il ricordo della ex lo perseguita, le serate con gli amici sono più o meno tutte uguali, la prospettiva di un lavoro “normale” lo disgusta, Budapest non gli offre alcuna particolare eccitazione, la madre iper-protettiva lo opprime standogli sempre addosso, la nuova ragazza di cui si innamora non corrisponde l'attrazione, le eventualità di fugaci rapporti sessuali con sconosciute lo imbarazzano. Così vaga per la città come un'anima persa, inciampando nella sua incorreggibile imbranataggine, incapace di trovare un posto nel mondo.
In una notte ad alto tasso alcoolico Áron senza nemmeno rendersene conto prenota un viaggio per Lisbona, usando la carta di credito del padre, all'insaputa di quest'ultimo. Resosi conto del danno compiuto, capisce che forse andarsene lontano e rincominciare da zero può essere l'unica soluzione per uscire dall'oblio e dai tristi ricordi. Ma la fuga può davvero essere la giusta soluzione?
A sorpresa arriva dall'Ungheria uno dei film più belli in concorso a Torino 32. For Some Inexplicable Reason è il lungometraggio d'esordio di Gábor Reisz, classe 1980, giunto al grande passo dopo una lunga gavetta in cui ha realizzato moltissimi cortometraggi all'Università del teatro e del cinema di Budapest. Il suo primo lavoro sull'ampia distanza è semplicemente folgorante, per come riesce a dipingere il di per sé poco originale ritratto di un ragazzo smarrito e travolto dalle onde della vita con uno stile freschissimo, acuto, scanzonato e al contempo malinconico.
Il film di Reisz è una continua esplosione di gag riuscitissime, lievi dolcezze e struggenti mancanze depositate nei capelli scompigliati, negli abiti trasandati e nello sguardo fanciullesco del protagonista Áron Ferenczik; uno spaccato di analisi sociale che prova con umiltà a fare un discorso sull'alienazione della classe media, azzeccando al contempo un'infinita serie di sequenze divertentissimi e irresistibili. Dalle prime battute, con le finte morti del protagonista, sino agli originalissimi titoli di coda, in cui tutti i membri del cast e della troupe corrono accanto al protagonista, il film non accusa mai momenti di stanchezza, e accumula una stratificata e ingorda serie di scene surreali in cui il senso del grottesco viaggia di pari passo con il puro gusto per la parodia.
La strepitosa reazione balbettante del padre che si ritrova sull'estratto conto l'addebito del biglietto aereo del figlio; la crudelissima delusione per la non-festa di compleanno organizzata dagli amici; l'orsacchiotto smarrito all'età di sette anni e incredibilmente ritrovato al deposito degli autobus; il tenero smarrimento di fronte a una ragazza semi-sconosciuta che lo accoglie nuda nel letto; la mostruosa inutilità del quotidiano nel momento in cui Áron trova finalmente un lavoro decente: i momenti in cui si è colti dalle risate si sprecano, senza che per questo si scada mai nella trivialità da quattro soldi tipica (ad esempio) delle commediacce di casa nostra. Tutt'altro: la narrazione scatena i toni della farsa a ogni occasione, incrociando il cinema di Gondry ma percorrendo una strada del tutto autonoma, senza mai perdere di vista lo spleen esistenziale del personaggio e la qualità della scrittura.
Così, sommersi dalle bizzarrie e accompagnati da un leitmotiv musicale che rimane impresso nella mente anche a distanza di giorni, ci troviamo a percepire una totale empatia nei confronti del goffo protagonista, ritrovando forse qualcosa di noi nelle sue sgangherate (dis)avventure, non dimenticando le problematiche reali che strisciano sotto la coltre di un umorismo intelligente e prelibatissimo.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda tecnica

Titolo originale: Van valami furcsa és megmagyarázhatatlan
Regia, sceneggiatura, fotografia: Gábor Reisz
Montaggio: Zsófia Tálas
Scenografia: Péter Klimó
Musiche: Lóci Csorba, Gábor Reisz
Attori: Áron Ferenczik, Katalin Takács, Zsolt Kovács, Zalán Makranczi
Anno: 2014
Durata: 96'

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TORINO 32 - Mange tes morts, di Jean-Charles Hue

27/11/2014

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Dopo il successo riscosso alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes, approda in concorso a Torino 32 il cupo e neorealista Mange tes morts, secondo capitolo della saga gitana di Jean-Charles Hue iniziata con La BM du Seigneur. Torna la comunità Jenisch della periferia parigina, ma questa volta l’intento documentaristico della prima pellicola viene completato e arricchito da un’opera più cinematografica, suddivisa in due parti distinte: la prima più intima, la seconda cupa e frenetica come un road movie che sfreccia nella notte.
Presente prima della proiezione in sala il regista francese racconta la sua produzione dedicata agli Jenisch, una comunità semi-nomade che, diversamente dai Rom che provengono dall’India, ha origini europee. Una comunità con una propria lingua (di origine germanica), fiera ed emarginata che diviene oggetto di un’analisi fisica e poetica su un mondo in continuo equilibrio fra ideali virtuosi indotti dalla Chiesa e pulsioni autodistruttive legate ad antichi valori ormai anacronistici.
Wilde diceva che parliamo per dare realtà alle cose: l’intenzione di Hue è quella di portare alla luce un mondo che vive nell’ombra. Ogni scelta nella vita di questi ragazzi è difficile, ma quello fra il bene e il male, fra la strada del Signore  e un’adrenalinica vita criminale dettata dalla necessità, è lo specifico crocevia che attanaglia Jason. Figlio illegittimo del padre defunto, ma comunque benvoluto dalla comunità, il diciottenne aspetta con ansia il ritorno del fratello Fred, libero dopo quindici anni di prigione e specchio degli antichi valori. Un disallineato, un uomo per cui non c’è più posto nella nuova via che la comunità ha intrapreso, un diverso modo di concepire l’essere gitano in un mondo profondamente cambiato. Mange tes morts non è solo un semplice titolo ma il fulcro attorno al quale ruota la scelta esistenziale di Fred, che ancorato al passato sembra inseguire l’ideale romantico di una “buona” morte.
La prima parte del film, quella dallo stile più documentarista,  immerge lo spettatore nella periferia fra tende e roulotte; gli attori interpretano se stessi, l’effetto è un neorealismo naturale e credibile. Con l’arrivo di Fred comincia un film diverso: il regista schiaccia l’acceleratore virando su un road movie sporco e notturno, irrompendo nei film di genere con uno sguardo originale contaminato da elementi western (“È una bella giornata per morire”). Il risultato è un’opera che mischia sapientemente i generi, in cui realtà e finzione si alternano grazie soprattutto alle performance degli attori che, lontano dall’essere teatrali, raccontano un pezzo delle loro vite. 
Hue confeziona un film in cui i protagonisti sono quello che vediamo, lontano da giudizi di carattere moralistico; crea un’atmosfera verosimigliante dando origine a una rappresentazione efficace che partecipa della sensibilità e della dignità della comunità Jenisch. Un racconto plurale in cui i protagonisti e gli spettatori si fondono, per un viaggio al termine della notte.

Luigi Locapo

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda Tecnica

Titolo originale: Mange tes morts
Anno: 2014
Regia: Jean-Charles Hue
Soggetto: Jean-Charles Hue, Salvatore Lista
Fotografia: Jonathan Ricquebourg
Montaggio: Isabelle Proust
Musiche: Vincert-Marie Bouvot
Durata: 94’
Interpreti principali: Jason François,  Mickael Dauber,  Frédéric Dorkel,  Moïse Dorkel,  Philippe Martin

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TORINO 32 - The Kings Surrender, di Philipp Leinemann

27/11/2014

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Presentata in concorso a Torino 32, The kings surrender è l’opera seconda del regista e sceneggiatore tedesco Philipp Leinemann. Un noir metropolitano ispirato, come ammesso dall’autore stesso, all’estetica di C’era una volta in America, ma nella rappresentazione forse più vicino a Scorsese o al Friedkin del Braccio violento della legge.
Il film è un opera corale, dalla trama intricata, che si discosta dal poliziesco di genere per la scrittura; un avvio al cardiopalma con tanto di irruzione stile swat non è l’inizio di una frenetica serie di sparatorie o inseguimenti, l’azione è presente ma dosata in ottime scene crude e improvvise, e lascia spazio a una narrazione che favorisce l’approfondimento psicologico dei personaggi. Il cast è ampio, sono tante le trame e le sottotrame che si intersecano dando origine a un plot complesso privo di un protagonista dal minutaggio preponderante.
La miccia si accende con un’operazione di polizia andata male che scatena la voglia di rivalsa degli agenti per un collega ferito; una caccia all’uomo non per consegnare il colpevole alla giustizia ma per vendetta, in una spirale di violenza che porterà alla luce corruzione e segreti. Sullo sfondo le vicende di due bande rivali parte di una narrazione dove tutto, personaggi, azioni e conseguenze sono destinati a un incontro-scontro.
Al centro di tutto questo c’è Nassim, figlio tredicenne di una coppia di immigrati, desideroso di conquistarsi la fiducia del suo eroe Thorsten capobanda in libertà vigilata, che in una quotidianità fatta di vessazioni e soprusi diviene il modello distorto a cui aspirare per avere rispetto. Il ragazzo è uno dei personaggi più interessanti della pellicola: i suoi desideri e le sue azioni intrise di un machiavellismo ingenuo, perché solo parzialmente consapevole, porteranno a conseguenze drammatiche, figlie di una malata ricerca di accettazione. Il risultato è una spirale in cui verranno risucchiati tutti i protagonisti dell’azione.
La sola apparente ancora di salvezza è offerta dalle uniche due figure femminili presenti nel film: una cerca di evitare al suo compagno un futuro così simile al passato che gli ha distrutto la vita, l’altra (poliziotta) cerca di frenare questa spietata caccia all’uomo così lontana dalla legge e così simile al mondo criminale che insegue. Il confine fra potere e giustizia diventa labile come la personale percezione del ruolo istituzionale che si riveste, tematiche quanto mai attuali nelle cronache contemporanee e significative del contrasto tra l’interpretazione soggettiva e le reali possibilità di applicazione della legge (“Se facciamo passare questa merda che differenza c’è tra noi e loro ?” - “Che noi possiamo”).
The Kings Surrender è un climax discendente in cui tutti prima della fine dovranno guardarsi allo specchio, fare i conti con se stessi e scegliere se e fino a che punto scendere a compromessi.
Immagine emblematica della pellicola è la foto ricordo della serata al pub in cui poliziotti e criminali festeggiano insieme, dimenticando i ruoli che li separano ogni giorno; annullata la dicotomia buoni/cattivi restano solo persone e scelte giuste o sbagliate.

Luigi Locapo

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda Tecnica

Titolo originale : Wir waren kӧnige
Anno : 2014
Regia : Philipp Leinemann
Soggetto : Philipp Leinemann
Fotografia : Christian Stangassinger
Montaggio : Max Fey, Jochen Retter
Durata : 107’
Interpreti principali : Ronald Zehrfeld, Misel Maticevic, Tilman Strauß, Oliver Konietzny, Mohamed Issa

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TORINO 32 - The Babadook, di Jennifer Kent

27/11/2014

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Inutile girarci intorno o far finta di niente: insieme allo statunitense It Follows, anch’esso presente al Torino Film Festival, l’australiano The Babadook è l’horror dell’anno, il più atteso e chiacchierato dai fan e cultori del genere grazie al tam-tam e al passaparola in rete e ai tanti premi vinti a livello internazionale.
Amelia è rimasta vedova poco prima che nascesse suo figlio Samuel. Il marito è morto in seguito a un terribile incidente stradale proprio mentre la stava accompagnando in ospedale per partorire. Sono passati sei anni da allora e Amelia, che non si è ancora ripresa dal trauma, si ritrova da sola nel gestire un figlio irrequieto e problematico. Un giorno Samuel porta a sua madre un libro per bambini intitolato Mr. Babadook; il volume, dalle illustrazioni sinistre e inquietanti, sembra uscito dal nulla, e contiene al suo interno una spaventosa filastrocca su un mostro capace, se invocato, di tormentare chi ha pronunciato il suo nome. 
Nei giorni seguenti la donna, sempre più sola, afflitta, stanca e stressata, comincia a dare preoccupanti segni di instabilità mentale. Il Babadook è reale o è solo la diretta conseguenza di un malessere interno mai sopito?
L’Australia negli ultimi anni si sta confermando un terreno assai fertile per il genere horror. Basti pensare a titoli come Wolf Creek, diretto da Greg Mclean nel 2005 (ne ha girato anche un sequel nel 2013), e The Loved Ones, realizzato da Sean Byrne nel 2009. A destare il nostro stupore quindi non è tanto il fatto che uno dei migliori film del terrore di quest’annata cinematografica provenga dalla terra dei canguri, quanto piuttosto che sia stato scritto e diretto da una regista donna, dal momento che il genere horror è da sempre a esclusivo appannaggio o quasi degli uomini. Il suo nome è Jennifer Kent, debuttante nel lungometraggio dopo aver esordito dietro la macchina da presa quasi dieci anni fa con un corto intitolato Monster, che le ha fornito lo spunto di partenza sviluppato e ampliato in The Babadook.
Nel modo in cui è tratteggiata la figura della protagonista a livello umano, emotivo e psicologico, si notano indubbiamente un approccio e una sensibilità prettamente femminili. Il personaggio di Amelia rimanda anche ad alcune figure femminili presenti nella filmografia di Roman Polanski (si pensi alle protagoniste di Repulsion e Rosemary’s Baby interpretate rispettivamente da Catherine Deneuve e Mia Farrow). Amelia, trasognata, si muove come una sonnambula, sempre più allucinata e in balia degli eventi. Il suo lento e graduale isolamento dal mondo esterno e la cronica mancanza di sonno le causano una trasformazione tanto profonda quanto drastica e irreversibile. Per interpretarla è stata scelta Essie Davis, premiata come miglior attrice all’ultima edizione del Sitges Film Festival, che ha saputo dare vita a una performance intensa e totale, spossante e sfiancante. Un vero e proprio tour de force per l’attrice australiana, capace di impressionare e spaventare il pubblico con scatti d’ira tanto repentini e violenti da farla assomigliare perfino al Jack Torrance impersonato da Nicholson in Shining.
Perfetta anche la scelta del giovanissimo Noah Wiseman per il ruolo di Samuel. Pallido e smagrito, con gli occhioni perennemente spalancati e impauriti, è davvero sorprendente come interpreta un bambino costretto a difendersi con ogni mezzo dalla madre, succube agli assalti del Babadook, novello uomo nero delle fiabe.
L’opera prima della Kent, inserita in concorso a Torino, è un dramma sociale e famigliare travestito da horror psicologico, con un crescendo da incubo che non consente vie di fuga. Il focolare domestico, non più rassicurante e protettivo, diviene oscuro e minaccioso. L’ambientazione di fondo, opprimente e deprimente, si avvale di interni poveri, scarni ed essenziali e ricorre a tutto il corollario tipico dei film dell’orrore, con tanto di ombre, insetti, voci e rumori sinistri e porte e armadi che scricchiolano. Il finale si fa inoltre apprezzare per come riesce a evitare la solita, prevedibile e furbetta chiusa ad effetto, risparmiando allo spettatore l’ultimo spavento, l’ultimo salto sulla sedia.
Un film dunque adulto e maturo, che sembra dirci che non sempre è possibile sconfiggere i propri fantasmi e demoni interiori; a volte invece è necessario imparare a conviverci.

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda tecnica

Titolo originale: The Babadook
Anno: 2014
Regia: Jennifer Kent
Interpreti: Essie Davis, Daniel Henshall, Noah Wiseman
Sceneggiatura: Jennifer Kent
Musiche: Jed Kurze
Fotografia: Radek Ladczuk
Durata: 93’

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TORINO 32 - Violet, di Bas Devos

26/11/2014

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Il giovane Jesse assiste impotente all'uccisione di un coetaneo da parte di due bulli sconosciuti. La vita continua quasi come prima; l'elaborazione del dramma, per Jesse, si intreccia con i rapporti non sempre distesi con gli amici appassionati di BMX e con gli affettuosi genitori.
Presentato come il primo film selezionato per il concorso del 32° TFF e vincitore di un premio minore a Berlino, Violet si rivela, come già avvertibile dalla sinossi ufficiale, una delusione annunciata e relativa.
L'esordiente Bas Devos non è interessato a una narrazione “classica”, ma conduce quest'ultima tra tocchi e accenni, e il racconto sembra interessargli limitatamente rispetto al lavoro sulle immagini. Al contempo, però, nei momenti più interessanti, queste immagini si legano più significativamente alla narrazione, mentre altre volte sembrano viaggiare libere, in frammenti di sperimentazione visiva pura, o che fungono quasi da cuscinetto.
Le immagini del film sono in 4:3, talora a bassa definizione o con pixel a vista. C'è un lavoro sul suono, ma niente musica se non, poca, diegetica. C'è un ampio uso di ellissi e di inquadrature non utili o troppo insistite, mentre momenti teoricamente importanti sono narrati con immagini-sineddoche, come l'arresto dei giovani assassini. Lo stesso evento chiave, paradossalmente, si vede e non si vede, confinato in una piccola porzione di schermo, nel tutto sommato promettente inizio in cui la natura, l'enunciante, il mezzo che rimanda l'immagine che stiamo vedendo nella finzione scenica viene svelato dopo un po', similmente a quanto succede nel piano sequenza fisso in discoteca, dove invece è l'enunciato, l'immagine a formarsi e definirsi sotto i nostri occhi, ma senza una completa possibilità di capire.
Non sembra però che Violet riesca a conciliare, a portare a uno stadio soddisfacente la sua ricerca visiva, dalle parti della videoarte (come nei casi sopracitati), e il tema dell'elaborazione di un dramma che a livello personale, quello del protagonista, resta fumoso (sì, ci sono silenzi, primi piani – uno iniziale che dice di gioventù e bellezza sporcata, anche letteralmente per il sangue, dalla tragedia; o il volto di Jesse a occhi aperti, insonne; c'è un suo momento di sfogo e un gesto molto simbolico alla fine. Ma basta?), per non parlare di quanto lo sia a livello della comunità che lo circonda: quasi non pervenuto.
Alcuni singoli passaggi (se dire “passaggi” non è improprio), lucidamente, sono apprezzabili, germogli che con meno compiacimento si sarebbero distinti anche di più: il ritorno di Jesse sul luogo del delitto, con rumori d'ambiente amplificati che però potrebbero nascere nella sua mente; il lento piano sequenza finale per la strada deserta, che per il suo terminare in una gran nebbia sorprende ed è (quasi) suggestivo. Ma il tutto, a meno di non voler formulare un giudizio del tutto tecnico e asettico mettendo a tacere lo spettatore in favore del critico puro, è un po' inerte, e nonostante una durata contenuta tende a indisporre. Se è nelle immagini che va cercata tutta la pregnanza contenutistica di ciò che il film, bene o male, racconta, il risultato è francamente poco palpabile; né siamo di fronte a un lavoro per cui la pazienza di chi guarda ripaghi davvero, anche se acquista qualcosa a distanza dalla visione.
Non si vuole sostenere che siano sovrapponibili, ma viene voglia, se non di vedere qualcosa di un po' più convenzionale, di rivedere il progenitore nobile del film: Paranoid Park di Gus Van Sant. Senza contare che al festival un film simile per protagonisti, ambientazione e in parte atmosfere si era già visto: il poco riuscito Pavilion di Tim Sutton, che però, oltre a mancare di un motore drammatico, aveva un approccio arty ma più aperto allo spettatore (non che sia un obbligo).
Violet è cinema che si situa ai limiti del cinema, che vorrebbe farsi ammirare, che vuole avere un'alta dignità artistica, che ricerca un pubblico che sia dalla sua parte dall'inizio (senza coinvolgerlo, si intende, ma solo cerebralmente). Cinema da festival non necessariamente nell'accezione positiva, che si è restii a consigliare di persona, ma che in onestà non merita neppure una facile bocciatura.
Resta anche il dubbio sull'inserimento in concorso, perché Violet avrebbe avuto una collocazione più naturale nella sezione “Onde”, composta da lavori più sperimentali e poco canonici.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda tecnica

Regia e sceneggiatura: Bas Devos
Attori: Cesar De Sutter, Raf Walschaerts, Mira Helmer, Koen De Sutter
Sound design: Boris Debackere
Fotografia: Nicolas Karakatsanis
Montaggio: Dieter Diependaele
Anno: 2013
Durata: 82'

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TORINO 32 - The Duke of Burgundy, di Peter Strickland

25/11/2014

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La padrona e la serva. La dominatrice e la schiava. Il possesso e l'umiliazione. Un gioco eccitante, perverso, morboso, che di giorno si reitera all'infinito e di notte si quieta, lasciando il posto al vero amore. Cynthia ed Evelyn si vogliono bene sul serio, ma la loro relazione si fonda sull'eterna coazione a ripetere, facendosi continuo strumento di obbligato rispetto dei rispettivi ruoli. Perché dietro al teatrino si nasconde l'inquieta ombra della noia, con le sue fauci spietate; in essa alberga il pericolo dell'allontanamento, della distrazione, del tradimento.
Senza il gioco della dominazione non ci può essere l'amore, e viceversa; ma quando la recitazione perde di convinzione, il meccanismo in essa contenuto si sfalda, trascinando con sé la polvere di una convivenza troppo poco solida per poter reggere l'onda d'urto. Così la quotidiana eccitazione si trasforma in forzatura, distacco, fastidio. Punire la schiava per non aver lavato bene le proprie mutandine non basta più; sedersi sulla sua faccia neanche; chiuderla in un cassone nemmeno. Ci vorrebbe altro, ma questo altro nel gioco non è contemplato. Infine la voragine si spalanca, gettando la passione nel vuoto.
Il regista inglese Peter Strickland torna alla regia dopo il lynchiano Katalin Varga e il notevole Berberian Sound Studio, cercando ancora una volta di imporre la propria idea di cinema, basata sul coriaceo rimescolamento di generi ed epoche; anche qui, nel nuovo The Duke of Burgundy, in concorso al TFF, Strickland pare voglia centrifugare classicismo e modernità, per cucire addosso a entrambi un vestito per quanto possibile originale. I bellissimi titoli di testa sembrano farci tornare all'epoca d'oro del giallo/horror all'italiana, la dettagliata cura di abiti ed arredi pare cullarci negli schemi di un film in costume, alcuni inserti inseguono una sorta di onirica psichedelia, mentre la narrazione vera e propria devia verso tutt'altre direzioni. Il bizzarro mélange dà vita a un film ai limiti dell'inclassificabile, almeno in apparenza, anche se poi, a conti fatti, la realtà che emerge si assesta sui lidi del melodramma erotico, con la particolarità della totale assenza di personaggi maschili.
La narrazione tutta al femminile di Strickland si concentra dunque sul rapporto masochista tra l'arcigna e matura entomologa Cynthia e la giovane e sottomessa Evelyn, anche se è la seconda a guidare il gioco; è proprio lei, infatti, a lasciare tutte le sere alla compagna istruzioni precise sulla messinscena che dovrà essere recitata l'indomani, ed è sempre lei a regalare all'amante complessi e provocanti capi di lingerie per i quali “ci vorrebbe un manuale di istruzioni”. Il divertimento, o presunto tale, risulta tanto eccitante quanto faticoso, soprattutto per Cynthia: non è facile dover ogni volta dedicare la massima attenzione al trucco perfetto, all'abbigliamento adeguato, alla scelta della parrucca giusta, all'intensità nell'impersonificazione del ruolo assegnato.
Tutto ciò risulta assai gravoso, quando invece spesso verrebbe solo voglia di mettersi comode in pigiama, farsi massaggiare la schiena e prendersi qualche coccola, così, al naturale, senza finzioni e senza orpelli. Ma non è possibile, perché il patto implicito tra le due non prevede soluzioni alternative; la schiavitù non può cessare, la dominazione nemmeno. La teorica libertà espressiva è in realtà una prigione soffocante; le farfalle sembrano volare ma in verità sono chiuse in una gabbia stretta come i bustini che Cynthia detesta; la perversione e la lussuria spremono ogni goccia di liquido orgasmico e finiscono per risultare secche, aride, deprivate di ogni vibrazione godereccia; infine l'amore lascia il posto al rancore, e quel cassone in cui la schiava è per l'ennesima volta rinchiusa vien voglia di non aprirlo più. Mai più.
Nelle sue peculiarità stilistiche, nella sua atmosfera retrò in cui si accavallano morbosità e disperazione, echi bunueliani e rimandi perfino bergmaniani, The Duke of Burgundy riesce pian piano a trovare una strada vincente, risultando efficace nonostante alcune ridondanti sottolineature grottesche. Il film distribuisce qui e là qualche sorriso velandosi in realtà di un'aura solennemente tragica, fino a quando, a circa venti minuti dal termine, Strickland ci regala una magnifica sequenza di horror gotico che spinge gli accadimenti sino alle potenziali, estreme conseguenze di un rapporto ormai imputridito.
Se questo fosse stato l'epilogo, tutta l'opera ne avrebbe giovato. Invece l'autore decide di non decidere, e prolunga il racconto accartocciandosi in una stancante serie di finali / non finali che nulla aggiungono al senso della storia, togliendo in compenso compattezza e concretezza al film. Un inciampo che frena un lavoro comunque interessante, diretto da un regista che sarà bene tenere d'occhio.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda tecnica

Regia: Peter Strickland
Sceneggiatura: Peter Strickland
Attrici: Sidse Babett Knudsen, Chiara D'Anna, Monica Swinn
Musiche: Cat's Eyes
Fotografia: Nic Knowland
Montaggio: Mátyás Fekete
Anno: 2014
Durata: 106'

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