ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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TORINO 32 - The Homesman, di Tommy Lee Jones

2/12/2014

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Mary Bee Cuddy (Hilary Swank) sopravvive alla frontiera. Questo non è un paese per donne. O meglio, non è un paese per tutte le donne, quando la non aderenza alle convenzioni, il rifiuto di esse come l’incapacità di adattamento all’ambiente, alla violenza, la ribellione, portano all’esclusione. È quasi una legge antropologica, quella che fa del “diverso” il capro espiatorio. Il vecchio (nuovo?) west è un paese per mogli accondiscendenti, o madri silenziose.
Si capisce che a una come Mary vada di traverso anche l’umiliazione di offrirsi in moglie a un contadino che non sa nemmeno rispettare le norme della buona tavola. Lei è una che sta retta sulle proprie gambe, più e meglio di chiunque altro. Mary Bee Cuddy porta gonna e pantaloni, e sarà anche una zitella ma non c’è nulla – tranne un marito - che le manchi. In un territorio spinoso e respingente, che si presenta più come un deserto, una landa selvaggia dove la legge del più forte è anche la legge degli uomini, Mary si carica della responsabilità di scortare tre donne ritenute “matte” dalla comunità da cui sono state cacciate, dal Nebraska fino all’Iowa, dove qualcuno potrà aver cura di loro. La compassione, ma anche la consapevolezza di sé, muove la caparbia Mary. L’incontro con il vagabondo George Biggs (Tommy Lee Jones) sarà provvidenziale per entrambi. Mary e George intraprenderanno un viaggio difficile in una terra senza coordinate, un percorso segnato in qualche modo dalla fede, che si tratti di Dio o di un raggio di sole. Che sia la polvere mossa dal vento, o il ricordo di una perdita dolorosa. La speranza è tutto, quando nulla più, neppure la sanità mentale, rimane. 
A nove anni dalla regia de Le tre sepolture, Tommy Lee Jones torna a raccontare il west. Lo fa con toni più delicati e una differente ricerca stilistica, cambiando quadro, soggetti, storia, ma mantenendo il senso di devozione e rispetto per un genere che ancora oggi ha ancora molto da dire. Il suo west è quasi minimalista, sicuramente essenziale. Freddo, ventoso, giocato molto sui colori naturali. Sembra quasi che il regista si sia impegnato in un percorso di sottrazione: quasi non c’è città, e le case sono smarrite in territori che di conquista non hanno più nemmeno la suggestione. Cieli aperti e vaste, vastissime piane, sporche e aride, un deserto che si distende a perdita d’occhio. Tutto manca, e il vuoto che si scava nei personaggi è impietoso, in questa loro ricerca di un approdo, ovunque, con chiunque sia. 
È forse questo che rimane del west cinematografico: il progresso inarrestabile, praterie polverose, la solitudine umana e un hotel celeste, simile a una chiesa, frequentato da vigliacchi con l’abito di gentiluomini. La nuova America che si erge dove una volta regnava il sogno di John Ford è una delusione, è come la fine di un mito. E allora evviva George Biggs, quel figlio di buona donna, che non ha le maniere ma ha il senso dell’onore, e vive ancora secondo le proprie regole. Uno cui è stata data in dono, letteralmente, una seconda occasione, e che farà di tutto per meritarla.
The Homesman è un film molto maschile per taglio e durezza, ma il nodo di tutto è il femminile. Pur divertendosi a inserire camei di star come James Spader o Meryl Streep, Tommy Lee Jones non perde mai di vista le sue protagoniste. Si affida a tre caratteriste molto empatiche nella definizione tutta fisica dei loro personaggi (Miranda Otto, Grace Grummer, Sonja Richter) e, soprattutto, consegna a Hilary Swank la responsabilità di traghettare il film, come una carovana, da una sponda all’altra.
La Swank ci ha abituati a calarsi in personaggi come Mary Bee Cuddy: donne forti, complesse, che prendono da sé le loro decisioni, padrone del proprio destino. C’è qualcosa in Mary che la connette subito con i personaggi di Brandon Teena (Boys Don’t Cry) o Mary Fitzgerald (Million Dollar Baby), solo per citare i ruoli che le hanno portato i due Oscar come migliore attrice. Persone ai margini, disperate di andare incontro al proprio futuro, di ribaltarlo, di dargli una forma sensata, più vera e più autentica. Anche la Mary di The Homesman non è diversa. D’altra parte, queste sono le facce spigolose e volitive di Hilary Swank, che colleziona ruoli di combattenti, indipendenti e fiere, eroine tragiche della propria vita. Quello di Mary è quindi il ruolo su misura, e lei è così a suo agio nel tessere la sottile dimensione psicologica, così immersa nella parte, naturale e sotto le righe, da far apparire la sua splendida performance nient’altro che la norma. 
Quelle di The Homesman sono donne che il cinema sembra non amare molto, se sempre più spesso ci propone protagoniste che dividono amabilmente la scena con la star (maschile) di turno. Eppure sono queste le donne di cui è bello scrivere. Un ritratto femminile, più che femminista, perché fuori dalle ideologie ne racconta la condizione umana e ne esalta il coraggio, ne difende le scelte. 

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda tecnica

Regia: Tommy Lee Jones
Sceneggiatura: Tommy Lee Jones, Kieran Fitzgerald, Wesley A. Oliver, Miles Hood Swarthout (dal romanzo di G. Swarthout)
Interpreti: Hilary Swank, Tommy Lee Jones, James Spader, Meryl Streep, Miranda Otto, Grace Grummer
Fotografia: Rodrigo Prieto
Scenografia: Merideth Boswell
Musiche: Marco Beltrami
Durata: 122 min.
Anno: 2014

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TORINO 32 - Whiplash, di Damien Chazelle

2/12/2014

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“Voi fate sogni ambiziosi: successo, fama... ma queste cose costano, ed è proprio qui che cominciate a pagare. Col sudore”: le parole che aprivano la celebre serie tv Saranno famosi, tornano utili nel confronto con Whiplash perché ribadiscono la preferenza spiccata di certa drammaturgia americana per l'etica del lavoro duro, sulla strada per il successo. Che è da sempre un modo molto interessante per ricollocare l'inafferrabilità dell'arte nella concretezza del gesto più reale. Il talento, insomma, conta fino a un certo punto, sopravanzato com'è dalla conoscenza della tecnica e dalla logorante pratica dell'esercizio, alla ricerca del proprio punto di rottura.
Il lavoro di Damien Chazelle (ex batterista che ha attinto da esperienze personali) si pone proprio in questo intervallo a metà strada fra il realismo della pratica più dura e la naturale tendenza al sopra le righe, tipica dei racconti basati su un tono ossessivo ed estremo. Una ricerca che permette al confronto fra il promettente allievo Andrew (un convincente Miles Teller) e lo spietato insegnante Fletcher (il grande J. K. Simmons), di riverberare sentimenti compositi, a tratti ambivalenti, seppur incanalati in un crescendo abbastanza prevedibile nel suo andamento.
L'ambizione evidente di Chazelle è quella di dare forma a una vicenda molto chiara nei suoi presupposti e nel fine, ma che sia capace di aprirsi alle deviazioni del caso, offerte dal magmatico incontro dei sentimenti e delle passioni. Un'unica idea e le sue possibili applicazioni, insomma, come appare evidente sin dal titolo, che rimanda al brano di Don Ellis eseguito dal protagonista nelle sue sessioni di prova, ma anche alla frustata (metaforica) imposta dall'insegnante con i suoi metodi di lavoro spietati e la maniacale ricerca della perfezione. La precisione della tecnica e la disciplina ferrea che ne deriva, si contrappongono così alla fuggevole spinta dei delicati equilibri dell'animo umano, in un gioco di rimpalli fra realismo e impalpabilità tipico del filone, ma che riesce a rivelarsi anche molto personale.
Sarà per questo che il film ha più forza quando persegue la strada della trasversalità emotiva e il fronte delle possibilità si apre agli opposti: c'è il gesto fisico del picchiare sulla batteria che descrive il campo su cui si gioca la partita per il successo, ma tutto attorno si aprono le ambiguità di animi che sono o appaiono sempre cangianti. Il protagonista Andy è infatti determinato ma volubile, goffo con le ragazze, indeciso in amore e in perenne oscillazione fra il “troppo veloce” e il “troppo lento” nell'esecuzione dei pezzi. La sua figura è continuamente disallineata rispetto ai vari contesti che attraversa: estraneo a una famiglia che non ne apprezza le scelte artistiche, novizio nella sua classe di musica, Andrew ama e odia, cerca l'amore e poi lo respinge, è presuntuoso ma costretto all'umiltà, vittima ma poi artefice del licenziamento di Fletcher. Soprattutto è un personaggio che cerca nella musica una stabilità di ruolo in grado di definirne la presenza nel mondo. La sua letterale via crucis fatta di sangue, sudore e lacrime si configura infatti come un modo per ribadire il proprio esserci in un universo altrimenti per lui inafferrabile e fuori da ogni orizzonte.
Il tirannico insegnante Fletcher, invece, è spietato nel lavoro, ma periodicamente offre spiragli di umanità, piange per un allievo morto, si presenta complice prima delle sessioni salvo poi esplodere d'ira, spesso impartisce lezioni esemplari che valgono più per l'esempio che per il risultato, e arriva al gesto volubile ed estremo (e abbastanza assurdo) di sabotare l'esibizione della propria band solo per far sbagliare l'allievo più odiato. Un gioco, il suo, tra debolezza e forza, che pure appare tanto imprevedibilmente libero, quanto attentamente studiato per far abbassare la guardia all'avversario e colpire più duro.
La frontalità dello scontro confina l'uomo nel ruolo indiscutibile del “cattivo” e lo pone sulla stessa lunghezza d'onda di altre celebri figure autoritarie, come l'infermiera Retched di Qualcuno volò sul nido del cuculo, il sergente Foley di Ufficiale e gentiluomo o l'istruttore Hartman di Full Metal Jacket: la caratterizzazione aggressiva, ma al contempo sorniona di J. K. Simmons, però, erode in parte la monodimensionalità del personaggio, che si fa banco di prova per sperimentazioni sul tono del racconto e sulla voglia di unire registri più drammatici con parti più leggere e persino divertenti. Il lavoro compiuto dall'attore sulla forza della voce e sui movimenti plastici del corpo, si accompagna alla figura glabra e perennemente in nero, che tende a levare fisicità, amplificando il gioco delle contrapposizioni.
Chazelle non fa mistero di voler quindi dare forma a un'opera jazzata nella sua continua ricerca di stimoli in grado di fornire nuovi spunti, tanto da spezzare il crescendo narrativo in più parti. C'è infatti un primo movimento tutto giocato sul percorso formativo di Andrew, in quanto uomo e musicista. A questo segue il classico momento del perdersi, in cui ogni ambizione si infrange di fronte all'insormontabile incalzare degli eventi. E infine arriva il riscatto, con una performance tanto incredibile quanto appunto in grado di sancire il passaggio dall'imprevedibilità fragile della vita alla certezza dello scopo prefigurato fin dall'inizio.
Il montaggio segue gli eventi cadenzandoli con un ritmo quanto più musicale possibile, frenando a tratti le possibilità più libere e deliranti (siamo lontani dai vertici di uno Scarpette rosse o de Il cigno nero), ma assicurando un'emotività costante, in grado di determinare il favore del pubblico, che puntualmente sta rispondendo con molto entusiasmo. Come a ribadire il delicato gioco degli equilibri, anche la storia dietro il film ha un suo percorso a metà fra la concretezza del lavoro e l'inafferrabilità delle giuste occasioni: rimasto a lungo nel limbo delle Black List (quei progetti che restano “in giro” e nessuno si decide a finanziare), Whiplash ha dapprima preso forma nel formato del cortometraggio, raccogliendo così il consenso necessario a favorire infine la dimensione definitiva del lungo.

Davide Di Giorgio

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda tecnica

Titolo originale: Whiplash
Regia: Damien Chazelle
Sceneggiatura: Damien Chazelle
Attori: Miles Teller, J. K. Simmons, Melissa Benoist, Austin Stowell
Fotografia: Sharone Meir
Montaggio: Tom Cross
Anno: 2014
Durata: 106’

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TORINO 32 - The Disappearance of Eleanor Rigby, di Ned Benson

1/12/2014

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“La storia di tutte le storie d’amore”, recitava la frase di lancio di un famoso film italiano di successo, diversi anni fa. E senza azzardare paragoni o confronti, che porterebbero il prodotto nostrano a dissolversi nel nulla come una bolla di sapone, questa tagline potrebbe adattarsi benissimo anche al film di Ned Benson. Anzi, ai film.
Perché The Disappearance of Eleanor Rigby è costituito da due parti, ovvero Him e Her, per un totale di oltre tre ore di durata, ma che convenzionalmente considereremo come un prodotto unico e indivisibile: anche e soprattutto in virtù del fatto che entrambi i suoi capitoli vivono in perfetta simbiosi l’uno con l’altro, completandosi e tracciando alla fine le coordinate generali di una vicenda osservata (anzi, vissuta) attraverso i punti di vista dell’uomo e della donna. Esiste poi una terza versione (Them), non approvata dal regista e messa a punto dal produttore Harvey Weinstein, presentata al Festival di Cannes, che riunisce l’intero plot all’interno di un film unico: plausibilmente sarà proprio questa la versione che verrà distribuita nelle sale italiane, andando però a snaturare il significato dell’intera operazione.
The Disappearance of Eleanor Rigby racconta la fine della storia d’amore tra Conor e Eleanor, dopo la scomparsa del loro bambino di appena due mesi; attraverso Him e Her assistiamo al tentativo da parte di entrambi di andare avanti con le rispettive vite: la rottura del rapporto, il rifiuto della separazione, il tentativo di ricominciare da capo, i successi e i fallimenti. Insomma, una storia comune a qualsiasi spettatore che l’abbia già vissuta sulla propria pelle, messa in scena da Benson con la grazia e la leggerezza di chi non vuole stupire attraverso risvolti narrativi inediti, ma lavorando piuttosto sulla delicatezza del racconto e sul mantenimento – necessario – di alcune zone d’ombra.
È così che tutta la potenza dimessa del film si rivela e colpisce nel profondo, al cuore, senza mai alzare la voce: nei gesti che sembrano non significare nulla, nelle parole non dette, nelle lacrime versate in silenzio. Nei racconti dei personaggi di contorno (tutti bellissimi e fondamentali, a partire dai genitori), che vanno a costituire un poco alla volta i tasselli di un mosaico che è grande quanto il mondo, perché la sofferenza è di tutti, e nessuno può esimersi dal portarne il peso delle conseguenze sulle spalle.
Solamente alla luce del secondo capitolo (l’ordine di visione Him/Her è tassativo per abbracciarne compiutamente il senso) The Disappearance of Eleanor Rigby si rivela quindi per quello che è: un film di fantasmi, di corpi che si inseguono senza mai riuscire a sfiorarsi, perché la vita ha compiuto ormai il suo corso e quello che è stato mai più sarà. Corpi che corrono e si cercano, che ridono e che piangono, che soffrono e si amano, e che in questa sorta di simmetria narrativa distorta e incompleta raccontano una storia, la propria, che non potrà mai coincidere fino in fondo con quella dell’altro.
Un film estremamente pudico nella messa in scena del dolore eppure mai freddo o cerebrale, e che, piuttosto, si dimostra commovente fino alle lacrime; una love story post mortem che, come il viaggio a ritroso di 5x2 di Ozon (ma anche come la dilatazione del tempo reale di Boyhood di Linklater), azzarda un esperimento narrativo alla ricerca di un significato per ciò che mette in scena, e non il contrario. Aiutato da un cast in stato di grazia (tutti, nessuno escluso) e da una colonna sonora sublime e fondamentale come accompagnamento alle immagini, l’esordio di Ned Benson è un film piccolo e grande allo stesso tempo, che sembra raccontare solamente qualcosa di già visto ma che rimane dentro, e cresce nel cuore dello spettatore lasciando dietro di sé il ricordo di un’esperienza. Quasi come la vita di tutti i giorni. 

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda tecnica  

Regia: Ned Benson
Sceneggiatura: Ned Benson
Montaggio: Kristina Boden
Musiche: Son Lux
Fotografia: Christopher Blauvelt
Anno: 2013
Durata: 190’
Interpreti: Jessica Chastain, James McAvoy, Viola Davis, William Hurt, Isabelle Huppert, Ciaràn Hinds, Jess Weixler

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TORINO 32 - The Drop, di Michaël R. Roskam

30/11/2014

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Dopo Bullhead, folgorante e potente opera d’esordio candidata agli Oscar per il miglior film non in lingua inglese e definita da un autore del calibro di Michael Mann “il miglior lungometraggio uscito nel 2011”, il regista belga Michaël R. Roskam è stato prontamente reclutato da Hollywood, che ha messo al suo servizio un cast di primissimo piano dove tra gli altri figura anche il compianto James Gandolfini, qui alla sua ultima interpretazione.
Bob, uomo schivo e solitario, fa il barista in un locale gestito da suo cugino Marv, che una volta ne era anche il proprietario prima che arrivasse la mafia cecena a rilevarlo e a dettar legge nel quartiere. La vita di Bob, monotona e quasi priva di legami affettivi, sembra giungere a una svolta dopo il ritrovamento di un cucciolo picchiato e abbandonato e l’incontro con Nadia, che lo aiuta a prendersi cura del cagnolino. Tutto si complica a causa di una rapina nel locale a cui fa seguito la strana e minacciosa ricomparsa nel quartiere di Eric, ex della ragazza. 
The Drop era uno dei titoli più attesi tra quelli selezionati quest’anno in Festa Mobile, come di consueto una delle sezione più ricche, variegate e appetibili del Torino Film Festival. Forse proprio a causa di queste altissime aspettative si arriva al termine della visione con un po’ d’amaro in bocca e con la sensazione di una buona occasione in parte sprecata. Il regista, nel passaggio dal cinema europeo a quello statunitense, è costretto a pagare pegno, dovendo incanalare la narrazione all’interno di binari più classici e tradizionali, ovvero assai più convenzionali rispetto allo stile emerso nel suo film precedente. La tensione costante, il dolore e la furia, elementi palpabili in Bullhead, qui si vanno smorzando e affievolendo. Siamo davanti a un prodotto, certamente ben confezionato, che rispetta i dettami e le codifiche del genere a cui appartiene. 
The Drop, noir metropolitano tratto da un racconto di Dennis Lehane che lo ha anche sceneggiato, risulta convincente solo a tratti e perde compattezza nel suo insieme col procedere della narrazione. Probabilmente il film appartiene più al suo sceneggiatore, l’acclamato autore di Mystic River, che non al regista, il quale sembra mettersi al servizio della storia rinunciando in parte al suo stile, imbrigliando e disinnescando la sua poetica. 
Buona la prova del cast a partire dal protagonista, il lanciatissimo Tom Hardy, reduce dall'ottimo Locke e qui alle prese con un personaggio che sembra muoversi come un automa, indifferente al mondo – non proprio idilliaco e edificante - che lo circonda. Un uomo semplice, con una vita piatta, anonima e “tranquilla” nonostante lavori in un bar gestito dalla malavita organizzata. Un orso che vive da sempre in semi-letargo, capace di non scomporsi davanti a situazioni crude e violente e in grado di conservare un suo codice etico e morale. Efficace l’intesa sullo schermo con Gandolfini, che interpreta la parte di Marv, un uomo incattivito e rancoroso. Alcuni siparietti tra i due non sono privi di una certa ironia e servono a stemperare l’atmosfera cupa e dolente che caratterizza il film di Roskam. Per il suo debutto americano il regista ha voluto inoltre affidare al suo connazionale, l’attore Matthias Schoenaerts,  protagonista di Bullhead e già scoperto da Hollywood dove ha girato anche il remake del film belga Loft, il ruolo di un criminale psicotico e violento. 
Il film, che probabilmente in Italia uscirà a marzo, s’intitolerà Chi è senza colpa: un'ennesima, infelice, sciatta e sciagurata traduzione che conferma quanto privi d’idee e d’inventiva siano i nostri titolisti.

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda tecnica

Titolo originale: The Drop
Anno: 2014
Regia: Michael Roskam
Sceneggiatura: Denis Lehane
Interpreti principali: Tom Hardy, James Gandolfini, Noomi Rapace, Matthias Schoenaerts
Fotografia: Nicolas Karakatsanis    
Musiche: Marco Beltrami, Raf Keunen  
Durata: 106’

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TORINO 32 - Vince "Mange tes morts": tutti i premi ufficiali

30/11/2014

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Ci piace, il palmarès del 32° Torino Film Festival. Ci piace molto. Capita spesso di trovarsi in disaccordo con i premi assegnati negli eventi cinematografici più importanti, ma in questa occasione dobbiamo dire che le scelte effettuate dalla giuria composta da Ferzan Ozpetek (presidente), Carolina Crescentini, Debra Granik, Geoff Andrew e Gyorgy Palfi ci sembrano assolutamente adeguate, oltreché interessanti e coraggiose.
Vince la Francia, a sorpresa, con Mange tes morts, crudo viaggio al termine della notte ambientato in una comunità gitana; un film senz'altro imperfetto ma valido sia per il contesto sociale affrontato che per la bontà della messinscena. Il premio speciale della giuria, ovvero il secondo riconoscimento in ordine di importanza, va all'ungherese For Some Inexplicable Reason, la vera rivelazione di questo festival: una deliziosa commedia esistenziale che abbiamo amato tantissimo e che fa incetta di successi, conquistando anche il tutt'altro che trascurabile Premio del Pubblico e il Premio degli allievi della Scuola Holden. Non possiamo che esserne felici.
Riconoscimenti importanti anche per il bel melodramma canadese Félix et Meira, che fa la doppietta con i suoi protagonisti portando a casa i meritati premi come miglior attore e miglior attrice (quest'ultima ex aequo con l'arcigna "dominatrice" dell'inglese The Duke of Burgundy), e per la horror comedy neozelandese What We Do in the Shadows, che vince addirittura come miglior sceneggiatura, a confermare l'audacia di una giuria che ha compiuto scelte azzeccatissime.
Così si conclude anche quest'anno il Torino Film Festival. Diamo il nostro soddisfatto saluto a un evento che ha saputo un'altra volta vincere la propria sfida, nonostante i tagli dell'ultima ora nel budget, che hanno portato a evidenti difficoltà organizzative generando la diminuzione delle sale e la dolorosa (e ingiusta) eliminazione dei cataloghi cartacei. Nonostante qualche malumore dovuto ai punti appena citati e all'inserimento in concorso di alcune opere che sarebbero state più adatte ad altre sezioni (il belga Violet, l'argentino Anuncian Sismos), il TFF, come sempre, è riuscito a offrire a pubblico e addetti ai lavori tantissimi spunti di interesse, ricerca e scoperta, e soprattutto tanto cinema di qualità, in un appassionante viaggio nel cinema del passato, del presente e perché no, anche del futuro. Appuntamento al 2015.

Tutte le recensioni scritte durante il nostro reportage in diretta da Torino le trovate qui: Torino 32

Alessio Gradogna


Ecco l'elenco completo dei premiati:

Miglior Film (€ 15.000) a: 
Mange tes morts di Jean-Charles Hue (Francia, 2014)

Premio Speciale della giuria – Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (€ 7.000) a:
For Some Inexplicable Reason di Gábor Reisz (Ungheria, 2014)

Menzione speciale della giuria a: 
N-Capace di Eleonora Danco (Italia, 2014)

Premio per la Miglior attrice ex aequo a:
Sidse Babett Knudsen, nel ruolo di Cynthia in The Duke of Burgundy di Peter Strickland (UK, 2014)
e a:
Hadas Yaron, nel ruolo di Meira in Felix & Meira di Maxime Giroux (Canada, 2014)

Premio per il Miglior attore a: 
Luzer Twersky, nel ruolo di Shulem in Felix & Meira di Maxime Giroux (Canada, 2014)

Menzione speciale ai personaggi intervistati di N-Capace di Eleonora Danco (Italia, 2014)

Premio per la Miglior sceneggiatura a: 
What We Do in the Shadows di Jemaine Clement e Taika Waititi (Nuova Zelanda, 2014)

Premio del pubblico a: 
For Some Inexplicable Reason di Gábor Reisz (Ungheria, 2014)



INTERNAZIONALE.DOC

Miglior Film per Internazionale.doc (€ 5.000) a: 
Endless Escape, Eternal Return di Harutyun Khachatryan (Armenia/Olanda/Svizzera, 2014)

Premio Speciale della giuria per Internazionale.doc a: 
Snakeskin di Daniel Hui (Singapore/Portogallo, 2014)


ITALIANA.DOC

Miglior Film per Italiana.doc in collaborazione con Persol (€ 5.000) a: 
Rada di Alessandro Abba Legnazzi (Italia, 2014)
Premio Speciale della giuria per Italiana.doc a: 24 heures sur place di Ila Bêka e Louise Lemoine (Francia/Italia, 2014)


ITALIANA.CORTI

Premio Chicca Richelmy per il Miglior film (€ 2.000 offerti da Associazione Chicca Richelmy) a:
Panorama di Gianluca Abbate (Italia, 2014)
Premio Speciale della giuria a: Il mare di Guido Nicolás Zingari (Italia, 2014)


SPAZIO TORINO – CORTOMETRAGGI REALIZZATI DA REGISTI NATI O RESIDENTI IN PIEMONTE

Premio Achille Valdata per il Miglior cortometraggio in collaborazione con La Stampa – Torino Sette a:
Mon baiser de cinéma di Guillaume Lafond e Gianluca Matarrese (Francia, 2014)


PREMIO FIPRESCI

Premio per il Miglior film a:
Mercuriales di Virgil Vernier (Francia, 2014)


PREMIO CIPPUTI

Premio Cipputi 2014 – Miglior film sul mondo del lavoro a:
Triangle di Costanza Quatriglio (Italia, 2014)


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TORINO 32 - Félix et Meira, di Maxime Giroux

29/11/2014

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Meira vive a Montréal e fa parte di una comunità chassidica, ovvero una delle correnti più rigide e ortodosse dell'ebraismo, fondata dal rabbino Eliezer e imperniata su valori integralisti per i quali le donne sono ridotte a strumenti di sottomissione e riproduzione, tanto da essere “costrette” talvolta a generare fino a 14 figli. Come tutte le donne appartenenti alla comunità, Meira deve portare i capelli corti, mostrare la più completa devozione nei confronti del marito e occuparsi della casa e della prole; ogni forma di svago le è vietata, fosse anche soltanto l'ascolto della musica, e non le è nemmeno permesso guardare gli uomini negli occhi. Da anni accetta in silenzio questa situazione, per amore della figlioletta o forse perché non ha mai potuto provare nulla di diverso.
Un giorno Meira, per puro caso, incontra Félix, uomo che nulla a che fare con la comunità e che vive un momento di conflitto e dolore interiore, avendo appena perso il padre, con cui non ha fatto in tempo a risolvere conflitti sedimentati nel tempo. Tra i due, in apparenza così lontani e così diversi, scocca la classica scintilla che potrebbe cambiare il corso delle rispettive esistenze. Félix e Meira si guardano, si sfiorano, si pensano, si annusano, si cercano, anche se l'avvicinamento è assai complicato, soprattutto per le infinite remore psicologiche che frenano la donna in ogni minimo gesto. L'inseguimento procede dunque cauto, a piccole tappe, fino a che la voglia di uscire dalla gabbia in cui si è da troppo tempo confinati avrà la meglio.
Il regista canadese Maxime Giroux torna in concorso al Torino Film Festival, dove nel 2008 aveva presentato il suo lungometraggio d'esordio Demain, proponendo questa volta un'opera che ha saputo mettere d'accordo buona parte del pubblico e della critica, in virtù di una messinscena lieve, intima, graduale e attenta a sviluppare la trama contrapponendo il rigidissimo contesto sociale di appartenenza alla forza dirompente e un po' folle dell'amore.
Félix et Meira è un melodramma al contempo sussurrato e bruciante, un gioco di seduzione che vive di imbarazzi e remore, voglia di volare e ali tarpate, ideologie idiote e sogni di fuga, senso di possesso e orizzonti lontani. Il film indugia con buona efficacia sulle abitudini della comunità chassidica, alternando queste ultime alla precisa caratterizzazione di una donna (rappresentata dal volto soave di Anne-Élisabeth Bossé) che ne fa parte pur covando in sé una mentalità totalmente diversa, così da delineare la dicotomia tra le leggi inalienabili della dottrina religiosa e l'idea di emancipazione, tra i dogmi soffocanti della Fede e il romanticismo quasi infantile del sentimento nuovo che nasce, cresce e infine taglia i nodi della prigione interiore per esplodere in tutto il suo calore. 
Di per sé la storia raccontata da Giroux non brilla per originalità, ma la forza del film risiede proprio nella levità con cui il rapporto sulla carta impossibile tra i protagonisti trova la strada per emergere, scartare gli ostacoli e superare gli arcaici muri del dovere abbracciando l'emozione di una vita (anzi, due) che forse può finalmente rincominciare; per portare a termine il suo compito il canadese si concentra su dettagli decisivi, tremori fanciulleschi, sguardi bassi, desideri palpitanti, tenerissime “prime volte” (i jeans, mai indossati fino ad allora), inciampando in un paio di sottolineature eccessive e inutili (il topo in trappola, i due amanti spiati dalla strada) ma rialzandosi subito grazie all'indubbia qualità di una regia tanto misurata quanto efficace.
La parte finale di Félix et Meira, accattivante per sviluppo e concretezza e giustamente aperta fino all'ultima inquadratura e oltre, incontra la migliore via per una risoluzione in cui si fondono insieme malinconia e speranza, perdita e successo, rimpianto e consapevolezza, delineando l'eterna verità per la quale, volenti o nolenti, bisogna imparare a lasciar andare la persona che si ama, regalandole un ultimo ma fondamentale gesto di affetto e rispetto: la libertà. 
Anche perché poi, dopotutto, si fa sempre in tempo a tornare indietro.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda tecnica

Titolo originale: Félix et Meira
Anno: 2014
Regia: Maxime Giroux
Sceneggiatura: Alexandre Laferrière, Maxime Giroux
Fotografia: Sara Mishara
Montaggio: Mathieu Bouchard-Malo
Attori: Anne-Élisabeth Bossé, Benoit Girard, Hadas Yaron, Josh Dolgin, Luzer Twersky
Musiche: Olivier Alary
Durata: 102'

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TORINO 32 - Jack Strong, di Wladyslaw Pasikowski

28/11/2014

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Presentato in anteprima nazionale al TFF, all’interno del ricco e variegato programma di Festa Mobile, Jack Strong è un solido e robusto spy movie ispirato alla storia vera di Ryszard Kuklinski, alto ufficiale dell’esercito polacco. 
Primi anni '70: in piena Guerra Fredda la Polonia si ritrova sempre più attanagliata nella morsa dell’Unione Sovietica. L’alto ufficiale Ryszard Kuklinski, marito e padre di due figli, è ben visto dai vertici militari polacchi e soprattutto da quelli russi, grazie alle sue doti di abile stratega che gli hanno permesso di contribuire alla pianificazione dell’invasione sovietica in Cecoslovacchia che ha messo fine alla Primavera di Praga. Preoccupato per la minacciosa e spregiudicata politica estera sovietica, che potrebbe portare a un nuovo conflitto mondiale o peggio ancora a una devastante guerra nucleare, decide di collaborare con la CIA inviando agli americani documenti segreti col nome in codice di Jack Strong, mettendo così a rischio la sua vita e quella dei suoi cari. 
Il nono lungometraggio del regista polacco Wladyslaw Pasikowski, grande successo di pubblico in patria, si fa apprezzare per l’accurata e minuziosa ricostruzione d’epoca e per come restituisce sullo schermo l’opprimente e minaccioso clima da Guerra Fredda che si respirava in quegli anni. L’efficace utilizzo di colori freddi, opachi e desaturati riporta alla mente La Talpa di Tomas Alfredson, uno dei titoli spionistici più eleganti e raffinati degli ultimi anni. Lo script, fitto di dialoghi, risulta un po’ faticoso nella prima parte, anche a causa di un ritmo non particolarmente elevato che riesce invece a decollare col passare dei minuti divenendo sempre più serrato e avvincente. 
Buona la prova di Marcin Dorocinski, che riesce a dar vita a un bel ritratto umano di Kuklinski, figura tuttora controversa in patria dove per alcuni (Pasikowski  è tra questi, come si deduce dalla visione del film) è considerato un eroe e per altri un traditore, un uomo che ha vissuto per anni in costante tensione e pressione e che ha dovuto nascondere a lungo anche agli affetti più cari la sua attività segreta. L’interpretazione di Dorocinski è estremamente controllata e volutamente sottotono ma risulta comunque intensa, a tratti persino dolorosa quando deve incassare le accuse e le lamentele della moglie e del figlio maggiore senza poter spiegare e ribattere alcunché. 
Nelle didascalie finali del film veniamo a sapere che grazie al “caso Kuklinski” la Polonia poté entrare nella NATO (12 marzo 1999) e che i due figli del colonnello, venuto a mancare nel 2004, morirono in circostanze sospette nel corso degli anni ’90.
In conclusione Jack Strong si dimostra un buon film di genere, un thriller spionistico lontano dalla facile e immediata spettacolarità del cinema hollywoodiano e più vicino alla sensibilità del cinema europeo anche nelle rare e centellinate sequenze d’azione presenti nella parte finale. 

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda tecnica

Titolo originale: Jack Strong
Anno: 2014
Regia: Wladyslaw Pasikowski
Sceneggiatura: Wladyslaw Pasikowski
Fotografia: Magdalena Górka
Musiche: Piotr Witkowski
Durata: 128’
Interpreti principali: Marcin Dorocinski, Maja Ostaszewska, Patrick Wilson

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TORINO 32 - For Some Inexplicable Reason, di Gábor Reisz

28/11/2014

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Áron ha quasi trent'anni. Non ha un lavoro fisso, né un preciso obiettivo nella vita. L'amata fidanzata lo ha appena lasciato, ragione per la quale il ragazzo soffre un momento di acuta depressione, tanto che spesso e volentieri muore, lasciandosi cadere per terra all'improvviso, ovunque, per strada e sui mezzi pubblici, tra lo stupore della gente. Il ricordo della ex lo perseguita, le serate con gli amici sono più o meno tutte uguali, la prospettiva di un lavoro “normale” lo disgusta, Budapest non gli offre alcuna particolare eccitazione, la madre iper-protettiva lo opprime standogli sempre addosso, la nuova ragazza di cui si innamora non corrisponde l'attrazione, le eventualità di fugaci rapporti sessuali con sconosciute lo imbarazzano. Così vaga per la città come un'anima persa, inciampando nella sua incorreggibile imbranataggine, incapace di trovare un posto nel mondo.
In una notte ad alto tasso alcoolico Áron senza nemmeno rendersene conto prenota un viaggio per Lisbona, usando la carta di credito del padre, all'insaputa di quest'ultimo. Resosi conto del danno compiuto, capisce che forse andarsene lontano e rincominciare da zero può essere l'unica soluzione per uscire dall'oblio e dai tristi ricordi. Ma la fuga può davvero essere la giusta soluzione?
A sorpresa arriva dall'Ungheria uno dei film più belli in concorso a Torino 32. For Some Inexplicable Reason è il lungometraggio d'esordio di Gábor Reisz, classe 1980, giunto al grande passo dopo una lunga gavetta in cui ha realizzato moltissimi cortometraggi all'Università del teatro e del cinema di Budapest. Il suo primo lavoro sull'ampia distanza è semplicemente folgorante, per come riesce a dipingere il di per sé poco originale ritratto di un ragazzo smarrito e travolto dalle onde della vita con uno stile freschissimo, acuto, scanzonato e al contempo malinconico.
Il film di Reisz è una continua esplosione di gag riuscitissime, lievi dolcezze e struggenti mancanze depositate nei capelli scompigliati, negli abiti trasandati e nello sguardo fanciullesco del protagonista Áron Ferenczik; uno spaccato di analisi sociale che prova con umiltà a fare un discorso sull'alienazione della classe media, azzeccando al contempo un'infinita serie di sequenze divertentissimi e irresistibili. Dalle prime battute, con le finte morti del protagonista, sino agli originalissimi titoli di coda, in cui tutti i membri del cast e della troupe corrono accanto al protagonista, il film non accusa mai momenti di stanchezza, e accumula una stratificata e ingorda serie di scene surreali in cui il senso del grottesco viaggia di pari passo con il puro gusto per la parodia.
La strepitosa reazione balbettante del padre che si ritrova sull'estratto conto l'addebito del biglietto aereo del figlio; la crudelissima delusione per la non-festa di compleanno organizzata dagli amici; l'orsacchiotto smarrito all'età di sette anni e incredibilmente ritrovato al deposito degli autobus; il tenero smarrimento di fronte a una ragazza semi-sconosciuta che lo accoglie nuda nel letto; la mostruosa inutilità del quotidiano nel momento in cui Áron trova finalmente un lavoro decente: i momenti in cui si è colti dalle risate si sprecano, senza che per questo si scada mai nella trivialità da quattro soldi tipica (ad esempio) delle commediacce di casa nostra. Tutt'altro: la narrazione scatena i toni della farsa a ogni occasione, incrociando il cinema di Gondry ma percorrendo una strada del tutto autonoma, senza mai perdere di vista lo spleen esistenziale del personaggio e la qualità della scrittura.
Così, sommersi dalle bizzarrie e accompagnati da un leitmotiv musicale che rimane impresso nella mente anche a distanza di giorni, ci troviamo a percepire una totale empatia nei confronti del goffo protagonista, ritrovando forse qualcosa di noi nelle sue sgangherate (dis)avventure, non dimenticando le problematiche reali che strisciano sotto la coltre di un umorismo intelligente e prelibatissimo.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda tecnica

Titolo originale: Van valami furcsa és megmagyarázhatatlan
Regia, sceneggiatura, fotografia: Gábor Reisz
Montaggio: Zsófia Tálas
Scenografia: Péter Klimó
Musiche: Lóci Csorba, Gábor Reisz
Attori: Áron Ferenczik, Katalin Takács, Zsolt Kovács, Zalán Makranczi
Anno: 2014
Durata: 96'

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TORINO 32 - Mange tes morts, di Jean-Charles Hue

27/11/2014

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Dopo il successo riscosso alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes, approda in concorso a Torino 32 il cupo e neorealista Mange tes morts, secondo capitolo della saga gitana di Jean-Charles Hue iniziata con La BM du Seigneur. Torna la comunità Jenisch della periferia parigina, ma questa volta l’intento documentaristico della prima pellicola viene completato e arricchito da un’opera più cinematografica, suddivisa in due parti distinte: la prima più intima, la seconda cupa e frenetica come un road movie che sfreccia nella notte.
Presente prima della proiezione in sala il regista francese racconta la sua produzione dedicata agli Jenisch, una comunità semi-nomade che, diversamente dai Rom che provengono dall’India, ha origini europee. Una comunità con una propria lingua (di origine germanica), fiera ed emarginata che diviene oggetto di un’analisi fisica e poetica su un mondo in continuo equilibrio fra ideali virtuosi indotti dalla Chiesa e pulsioni autodistruttive legate ad antichi valori ormai anacronistici.
Wilde diceva che parliamo per dare realtà alle cose: l’intenzione di Hue è quella di portare alla luce un mondo che vive nell’ombra. Ogni scelta nella vita di questi ragazzi è difficile, ma quello fra il bene e il male, fra la strada del Signore  e un’adrenalinica vita criminale dettata dalla necessità, è lo specifico crocevia che attanaglia Jason. Figlio illegittimo del padre defunto, ma comunque benvoluto dalla comunità, il diciottenne aspetta con ansia il ritorno del fratello Fred, libero dopo quindici anni di prigione e specchio degli antichi valori. Un disallineato, un uomo per cui non c’è più posto nella nuova via che la comunità ha intrapreso, un diverso modo di concepire l’essere gitano in un mondo profondamente cambiato. Mange tes morts non è solo un semplice titolo ma il fulcro attorno al quale ruota la scelta esistenziale di Fred, che ancorato al passato sembra inseguire l’ideale romantico di una “buona” morte.
La prima parte del film, quella dallo stile più documentarista,  immerge lo spettatore nella periferia fra tende e roulotte; gli attori interpretano se stessi, l’effetto è un neorealismo naturale e credibile. Con l’arrivo di Fred comincia un film diverso: il regista schiaccia l’acceleratore virando su un road movie sporco e notturno, irrompendo nei film di genere con uno sguardo originale contaminato da elementi western (“È una bella giornata per morire”). Il risultato è un’opera che mischia sapientemente i generi, in cui realtà e finzione si alternano grazie soprattutto alle performance degli attori che, lontano dall’essere teatrali, raccontano un pezzo delle loro vite. 
Hue confeziona un film in cui i protagonisti sono quello che vediamo, lontano da giudizi di carattere moralistico; crea un’atmosfera verosimigliante dando origine a una rappresentazione efficace che partecipa della sensibilità e della dignità della comunità Jenisch. Un racconto plurale in cui i protagonisti e gli spettatori si fondono, per un viaggio al termine della notte.

Luigi Locapo

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda Tecnica

Titolo originale: Mange tes morts
Anno: 2014
Regia: Jean-Charles Hue
Soggetto: Jean-Charles Hue, Salvatore Lista
Fotografia: Jonathan Ricquebourg
Montaggio: Isabelle Proust
Musiche: Vincert-Marie Bouvot
Durata: 94’
Interpreti principali: Jason François,  Mickael Dauber,  Frédéric Dorkel,  Moïse Dorkel,  Philippe Martin

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TORINO 32 - The Kings Surrender, di Philipp Leinemann

27/11/2014

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Presentata in concorso a Torino 32, The kings surrender è l’opera seconda del regista e sceneggiatore tedesco Philipp Leinemann. Un noir metropolitano ispirato, come ammesso dall’autore stesso, all’estetica di C’era una volta in America, ma nella rappresentazione forse più vicino a Scorsese o al Friedkin del Braccio violento della legge.
Il film è un opera corale, dalla trama intricata, che si discosta dal poliziesco di genere per la scrittura; un avvio al cardiopalma con tanto di irruzione stile swat non è l’inizio di una frenetica serie di sparatorie o inseguimenti, l’azione è presente ma dosata in ottime scene crude e improvvise, e lascia spazio a una narrazione che favorisce l’approfondimento psicologico dei personaggi. Il cast è ampio, sono tante le trame e le sottotrame che si intersecano dando origine a un plot complesso privo di un protagonista dal minutaggio preponderante.
La miccia si accende con un’operazione di polizia andata male che scatena la voglia di rivalsa degli agenti per un collega ferito; una caccia all’uomo non per consegnare il colpevole alla giustizia ma per vendetta, in una spirale di violenza che porterà alla luce corruzione e segreti. Sullo sfondo le vicende di due bande rivali parte di una narrazione dove tutto, personaggi, azioni e conseguenze sono destinati a un incontro-scontro.
Al centro di tutto questo c’è Nassim, figlio tredicenne di una coppia di immigrati, desideroso di conquistarsi la fiducia del suo eroe Thorsten capobanda in libertà vigilata, che in una quotidianità fatta di vessazioni e soprusi diviene il modello distorto a cui aspirare per avere rispetto. Il ragazzo è uno dei personaggi più interessanti della pellicola: i suoi desideri e le sue azioni intrise di un machiavellismo ingenuo, perché solo parzialmente consapevole, porteranno a conseguenze drammatiche, figlie di una malata ricerca di accettazione. Il risultato è una spirale in cui verranno risucchiati tutti i protagonisti dell’azione.
La sola apparente ancora di salvezza è offerta dalle uniche due figure femminili presenti nel film: una cerca di evitare al suo compagno un futuro così simile al passato che gli ha distrutto la vita, l’altra (poliziotta) cerca di frenare questa spietata caccia all’uomo così lontana dalla legge e così simile al mondo criminale che insegue. Il confine fra potere e giustizia diventa labile come la personale percezione del ruolo istituzionale che si riveste, tematiche quanto mai attuali nelle cronache contemporanee e significative del contrasto tra l’interpretazione soggettiva e le reali possibilità di applicazione della legge (“Se facciamo passare questa merda che differenza c’è tra noi e loro ?” - “Che noi possiamo”).
The Kings Surrender è un climax discendente in cui tutti prima della fine dovranno guardarsi allo specchio, fare i conti con se stessi e scegliere se e fino a che punto scendere a compromessi.
Immagine emblematica della pellicola è la foto ricordo della serata al pub in cui poliziotti e criminali festeggiano insieme, dimenticando i ruoli che li separano ogni giorno; annullata la dicotomia buoni/cattivi restano solo persone e scelte giuste o sbagliate.

Luigi Locapo

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda Tecnica

Titolo originale : Wir waren kӧnige
Anno : 2014
Regia : Philipp Leinemann
Soggetto : Philipp Leinemann
Fotografia : Christian Stangassinger
Montaggio : Max Fey, Jochen Retter
Durata : 107’
Interpreti principali : Ronald Zehrfeld, Misel Maticevic, Tilman Strauß, Oliver Konietzny, Mohamed Issa

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