ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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TORINO 32 - The Babadook, di Jennifer Kent

27/11/2014

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Inutile girarci intorno o far finta di niente: insieme allo statunitense It Follows, anch’esso presente al Torino Film Festival, l’australiano The Babadook è l’horror dell’anno, il più atteso e chiacchierato dai fan e cultori del genere grazie al tam-tam e al passaparola in rete e ai tanti premi vinti a livello internazionale.
Amelia è rimasta vedova poco prima che nascesse suo figlio Samuel. Il marito è morto in seguito a un terribile incidente stradale proprio mentre la stava accompagnando in ospedale per partorire. Sono passati sei anni da allora e Amelia, che non si è ancora ripresa dal trauma, si ritrova da sola nel gestire un figlio irrequieto e problematico. Un giorno Samuel porta a sua madre un libro per bambini intitolato Mr. Babadook; il volume, dalle illustrazioni sinistre e inquietanti, sembra uscito dal nulla, e contiene al suo interno una spaventosa filastrocca su un mostro capace, se invocato, di tormentare chi ha pronunciato il suo nome. 
Nei giorni seguenti la donna, sempre più sola, afflitta, stanca e stressata, comincia a dare preoccupanti segni di instabilità mentale. Il Babadook è reale o è solo la diretta conseguenza di un malessere interno mai sopito?
L’Australia negli ultimi anni si sta confermando un terreno assai fertile per il genere horror. Basti pensare a titoli come Wolf Creek, diretto da Greg Mclean nel 2005 (ne ha girato anche un sequel nel 2013), e The Loved Ones, realizzato da Sean Byrne nel 2009. A destare il nostro stupore quindi non è tanto il fatto che uno dei migliori film del terrore di quest’annata cinematografica provenga dalla terra dei canguri, quanto piuttosto che sia stato scritto e diretto da una regista donna, dal momento che il genere horror è da sempre a esclusivo appannaggio o quasi degli uomini. Il suo nome è Jennifer Kent, debuttante nel lungometraggio dopo aver esordito dietro la macchina da presa quasi dieci anni fa con un corto intitolato Monster, che le ha fornito lo spunto di partenza sviluppato e ampliato in The Babadook.
Nel modo in cui è tratteggiata la figura della protagonista a livello umano, emotivo e psicologico, si notano indubbiamente un approccio e una sensibilità prettamente femminili. Il personaggio di Amelia rimanda anche ad alcune figure femminili presenti nella filmografia di Roman Polanski (si pensi alle protagoniste di Repulsion e Rosemary’s Baby interpretate rispettivamente da Catherine Deneuve e Mia Farrow). Amelia, trasognata, si muove come una sonnambula, sempre più allucinata e in balia degli eventi. Il suo lento e graduale isolamento dal mondo esterno e la cronica mancanza di sonno le causano una trasformazione tanto profonda quanto drastica e irreversibile. Per interpretarla è stata scelta Essie Davis, premiata come miglior attrice all’ultima edizione del Sitges Film Festival, che ha saputo dare vita a una performance intensa e totale, spossante e sfiancante. Un vero e proprio tour de force per l’attrice australiana, capace di impressionare e spaventare il pubblico con scatti d’ira tanto repentini e violenti da farla assomigliare perfino al Jack Torrance impersonato da Nicholson in Shining.
Perfetta anche la scelta del giovanissimo Noah Wiseman per il ruolo di Samuel. Pallido e smagrito, con gli occhioni perennemente spalancati e impauriti, è davvero sorprendente come interpreta un bambino costretto a difendersi con ogni mezzo dalla madre, succube agli assalti del Babadook, novello uomo nero delle fiabe.
L’opera prima della Kent, inserita in concorso a Torino, è un dramma sociale e famigliare travestito da horror psicologico, con un crescendo da incubo che non consente vie di fuga. Il focolare domestico, non più rassicurante e protettivo, diviene oscuro e minaccioso. L’ambientazione di fondo, opprimente e deprimente, si avvale di interni poveri, scarni ed essenziali e ricorre a tutto il corollario tipico dei film dell’orrore, con tanto di ombre, insetti, voci e rumori sinistri e porte e armadi che scricchiolano. Il finale si fa inoltre apprezzare per come riesce a evitare la solita, prevedibile e furbetta chiusa ad effetto, risparmiando allo spettatore l’ultimo spavento, l’ultimo salto sulla sedia.
Un film dunque adulto e maturo, che sembra dirci che non sempre è possibile sconfiggere i propri fantasmi e demoni interiori; a volte invece è necessario imparare a conviverci.

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda tecnica

Titolo originale: The Babadook
Anno: 2014
Regia: Jennifer Kent
Interpreti: Essie Davis, Daniel Henshall, Noah Wiseman
Sceneggiatura: Jennifer Kent
Musiche: Jed Kurze
Fotografia: Radek Ladczuk
Durata: 93’

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TORINO 32 - Violet, di Bas Devos

26/11/2014

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Il giovane Jesse assiste impotente all'uccisione di un coetaneo da parte di due bulli sconosciuti. La vita continua quasi come prima; l'elaborazione del dramma, per Jesse, si intreccia con i rapporti non sempre distesi con gli amici appassionati di BMX e con gli affettuosi genitori.
Presentato come il primo film selezionato per il concorso del 32° TFF e vincitore di un premio minore a Berlino, Violet si rivela, come già avvertibile dalla sinossi ufficiale, una delusione annunciata e relativa.
L'esordiente Bas Devos non è interessato a una narrazione “classica”, ma conduce quest'ultima tra tocchi e accenni, e il racconto sembra interessargli limitatamente rispetto al lavoro sulle immagini. Al contempo, però, nei momenti più interessanti, queste immagini si legano più significativamente alla narrazione, mentre altre volte sembrano viaggiare libere, in frammenti di sperimentazione visiva pura, o che fungono quasi da cuscinetto.
Le immagini del film sono in 4:3, talora a bassa definizione o con pixel a vista. C'è un lavoro sul suono, ma niente musica se non, poca, diegetica. C'è un ampio uso di ellissi e di inquadrature non utili o troppo insistite, mentre momenti teoricamente importanti sono narrati con immagini-sineddoche, come l'arresto dei giovani assassini. Lo stesso evento chiave, paradossalmente, si vede e non si vede, confinato in una piccola porzione di schermo, nel tutto sommato promettente inizio in cui la natura, l'enunciante, il mezzo che rimanda l'immagine che stiamo vedendo nella finzione scenica viene svelato dopo un po', similmente a quanto succede nel piano sequenza fisso in discoteca, dove invece è l'enunciato, l'immagine a formarsi e definirsi sotto i nostri occhi, ma senza una completa possibilità di capire.
Non sembra però che Violet riesca a conciliare, a portare a uno stadio soddisfacente la sua ricerca visiva, dalle parti della videoarte (come nei casi sopracitati), e il tema dell'elaborazione di un dramma che a livello personale, quello del protagonista, resta fumoso (sì, ci sono silenzi, primi piani – uno iniziale che dice di gioventù e bellezza sporcata, anche letteralmente per il sangue, dalla tragedia; o il volto di Jesse a occhi aperti, insonne; c'è un suo momento di sfogo e un gesto molto simbolico alla fine. Ma basta?), per non parlare di quanto lo sia a livello della comunità che lo circonda: quasi non pervenuto.
Alcuni singoli passaggi (se dire “passaggi” non è improprio), lucidamente, sono apprezzabili, germogli che con meno compiacimento si sarebbero distinti anche di più: il ritorno di Jesse sul luogo del delitto, con rumori d'ambiente amplificati che però potrebbero nascere nella sua mente; il lento piano sequenza finale per la strada deserta, che per il suo terminare in una gran nebbia sorprende ed è (quasi) suggestivo. Ma il tutto, a meno di non voler formulare un giudizio del tutto tecnico e asettico mettendo a tacere lo spettatore in favore del critico puro, è un po' inerte, e nonostante una durata contenuta tende a indisporre. Se è nelle immagini che va cercata tutta la pregnanza contenutistica di ciò che il film, bene o male, racconta, il risultato è francamente poco palpabile; né siamo di fronte a un lavoro per cui la pazienza di chi guarda ripaghi davvero, anche se acquista qualcosa a distanza dalla visione.
Non si vuole sostenere che siano sovrapponibili, ma viene voglia, se non di vedere qualcosa di un po' più convenzionale, di rivedere il progenitore nobile del film: Paranoid Park di Gus Van Sant. Senza contare che al festival un film simile per protagonisti, ambientazione e in parte atmosfere si era già visto: il poco riuscito Pavilion di Tim Sutton, che però, oltre a mancare di un motore drammatico, aveva un approccio arty ma più aperto allo spettatore (non che sia un obbligo).
Violet è cinema che si situa ai limiti del cinema, che vorrebbe farsi ammirare, che vuole avere un'alta dignità artistica, che ricerca un pubblico che sia dalla sua parte dall'inizio (senza coinvolgerlo, si intende, ma solo cerebralmente). Cinema da festival non necessariamente nell'accezione positiva, che si è restii a consigliare di persona, ma che in onestà non merita neppure una facile bocciatura.
Resta anche il dubbio sull'inserimento in concorso, perché Violet avrebbe avuto una collocazione più naturale nella sezione “Onde”, composta da lavori più sperimentali e poco canonici.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda tecnica

Regia e sceneggiatura: Bas Devos
Attori: Cesar De Sutter, Raf Walschaerts, Mira Helmer, Koen De Sutter
Sound design: Boris Debackere
Fotografia: Nicolas Karakatsanis
Montaggio: Dieter Diependaele
Anno: 2013
Durata: 82'

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TORINO 32 - Cold in July, di Jim Mickle

26/11/2014

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Dopo un inizio di carriera orientato prepotentemente verso il genere horror, stavolta Jim Mickle abbraccia il noir puro e semplice della grande tradizione statunitense; per fare ciò, adatta l’omonimo romanzo di Joe R. Lansdale pubblicato nel 1989 (da noi tradotto Freddo a luglio) e chiama a raccolta un superbo cast di nomi e volti noti al grande pubblico, per un viaggio di sola andata verso i territori dell’America profonda.
Siamo in Texas, nel 1989: Richard Dane è un pacifico corniciaio con moglie e figlio a carico che una notte uccide un malvivente che si era introdotto in casa sua; da questo momento si ritroverà coinvolto in una spirale di vendetta dalla quale non riuscirà a uscire senza affondare le mani nella melma putrida della violenza.
Lansdale è da sempre un autore interessato alla contaminazione dei generi più popolari della letteratura: dal noir al pulp, passando per il western e l’action puro e semplice, mantenendo sempre uno sguardo ferocemente grottesco sulla società degli Stati Uniti del Sud. Mickle accetta di buon grado la sfida di riproporre su grande schermo uno dei suoi romanzi più famosi e riusciti, e il risultato è un grande noir che va ben oltre le aspettative; se è vero che la scrittura del romanziere texano è già molto cinematografica di suo, allo stesso tempo questo non è automaticamente sinonimo di riuscita filmica: il giovane regista però evita intelligentemente le trappole autoriali e si dimostra un ottimo conoscitore dei meccanismi del genere.
Esattamente come il romanzo, Cold in July è un film in grado di rilanciarsi in continuazione mantenendo una sua omogeneità di base, passando con disinvoltura dall’home invasion al revenge movie, e poi ancora più in là, disegnando i contorni di un vortice di violenza che sorprende e stupisce proprio perché rimane con i piedi per terra, umilmente. Forse è stata proprio questa la scelta vincente di Mickle: l’aver cioè realizzato un grande film di genere fedele ai dettami richiesti da una materia simile, senza mai strafare. E come nella migliore tradizione del noir, la vicenda non è mai fine a se stessa: la storia dell’uomo qualunque che si ritrova catapultato all’interno di un intreccio più grande di lui è ancora una volta l’occasione per riflettere sulla follia del mondo contemporaneo (anche se la vicenda si svolge un quarto di secolo fa, tra la presidenza di Reagan e quella di Bush Sr) e sulla diffusione a macchia d’olio di un male oscuro in grado di contaminare i cuori e le menti dei suoi personaggi. In più, volti e corpi da antologia, in grado di richiamare alla mente immagini e suggestioni squisitamente popolari: se Michael C. Hall (Dexter) è assolutamente credibile e funzionale nel ruolo di protagonista, un plauso particolare va agli immensi Sam Shepard e Don Johnson, capaci con la loro sola presenza di trasformare il film in un moderno western di frontiera.
Con tutti i suoi ingredienti dosati alla perfezione, non ultima una giusta dose di ironia, Cold in July è quindi un ottimo intrattenimento capace di mettere in evidenza il filtro sporco e deformante attraverso il quale interpretare la realtà; forse un film che guarda troppo alle forme del passato, è vero, con i suoi protagonisti, le musiche, gli autori di punta, e che quindi finisce così per rivelarsi inevitabilmente subordinato ai suoi prototipi. Ma è anche (e soprattutto) un film che crede in ciò che mette in scena, riuscendo a trasmettere un genuino senso di empatia e amore nei confronti dei suoi personaggi: non è affatto poco, soprattutto perché recupera una forma di racconto che oggi il cinema sembra aver quasi definitivamente consegnato alla televisione. 

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda tecnica  

Regia: Jim Mickle
Sceneggiatura: Jim Mickle, Nick Damici
Attori: Michael C. Hall, Sam Shepard, Don Johnson
Musiche: Jeff Grace
Fotografia: Ryan Samul
Montaggio: John Paul Horstmann, Jim Mickle
Anno: 2014
Durata: 110’

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TORINO 32 - The Duke of Burgundy, di Peter Strickland

25/11/2014

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La padrona e la serva. La dominatrice e la schiava. Il possesso e l'umiliazione. Un gioco eccitante, perverso, morboso, che di giorno si reitera all'infinito e di notte si quieta, lasciando il posto al vero amore. Cynthia ed Evelyn si vogliono bene sul serio, ma la loro relazione si fonda sull'eterna coazione a ripetere, facendosi continuo strumento di obbligato rispetto dei rispettivi ruoli. Perché dietro al teatrino si nasconde l'inquieta ombra della noia, con le sue fauci spietate; in essa alberga il pericolo dell'allontanamento, della distrazione, del tradimento.
Senza il gioco della dominazione non ci può essere l'amore, e viceversa; ma quando la recitazione perde di convinzione, il meccanismo in essa contenuto si sfalda, trascinando con sé la polvere di una convivenza troppo poco solida per poter reggere l'onda d'urto. Così la quotidiana eccitazione si trasforma in forzatura, distacco, fastidio. Punire la schiava per non aver lavato bene le proprie mutandine non basta più; sedersi sulla sua faccia neanche; chiuderla in un cassone nemmeno. Ci vorrebbe altro, ma questo altro nel gioco non è contemplato. Infine la voragine si spalanca, gettando la passione nel vuoto.
Il regista inglese Peter Strickland torna alla regia dopo il lynchiano Katalin Varga e il notevole Berberian Sound Studio, cercando ancora una volta di imporre la propria idea di cinema, basata sul coriaceo rimescolamento di generi ed epoche; anche qui, nel nuovo The Duke of Burgundy, in concorso al TFF, Strickland pare voglia centrifugare classicismo e modernità, per cucire addosso a entrambi un vestito per quanto possibile originale. I bellissimi titoli di testa sembrano farci tornare all'epoca d'oro del giallo/horror all'italiana, la dettagliata cura di abiti ed arredi pare cullarci negli schemi di un film in costume, alcuni inserti inseguono una sorta di onirica psichedelia, mentre la narrazione vera e propria devia verso tutt'altre direzioni. Il bizzarro mélange dà vita a un film ai limiti dell'inclassificabile, almeno in apparenza, anche se poi, a conti fatti, la realtà che emerge si assesta sui lidi del melodramma erotico, con la particolarità della totale assenza di personaggi maschili.
La narrazione tutta al femminile di Strickland si concentra dunque sul rapporto masochista tra l'arcigna e matura entomologa Cynthia e la giovane e sottomessa Evelyn, anche se è la seconda a guidare il gioco; è proprio lei, infatti, a lasciare tutte le sere alla compagna istruzioni precise sulla messinscena che dovrà essere recitata l'indomani, ed è sempre lei a regalare all'amante complessi e provocanti capi di lingerie per i quali “ci vorrebbe un manuale di istruzioni”. Il divertimento, o presunto tale, risulta tanto eccitante quanto faticoso, soprattutto per Cynthia: non è facile dover ogni volta dedicare la massima attenzione al trucco perfetto, all'abbigliamento adeguato, alla scelta della parrucca giusta, all'intensità nell'impersonificazione del ruolo assegnato.
Tutto ciò risulta assai gravoso, quando invece spesso verrebbe solo voglia di mettersi comode in pigiama, farsi massaggiare la schiena e prendersi qualche coccola, così, al naturale, senza finzioni e senza orpelli. Ma non è possibile, perché il patto implicito tra le due non prevede soluzioni alternative; la schiavitù non può cessare, la dominazione nemmeno. La teorica libertà espressiva è in realtà una prigione soffocante; le farfalle sembrano volare ma in verità sono chiuse in una gabbia stretta come i bustini che Cynthia detesta; la perversione e la lussuria spremono ogni goccia di liquido orgasmico e finiscono per risultare secche, aride, deprivate di ogni vibrazione godereccia; infine l'amore lascia il posto al rancore, e quel cassone in cui la schiava è per l'ennesima volta rinchiusa vien voglia di non aprirlo più. Mai più.
Nelle sue peculiarità stilistiche, nella sua atmosfera retrò in cui si accavallano morbosità e disperazione, echi bunueliani e rimandi perfino bergmaniani, The Duke of Burgundy riesce pian piano a trovare una strada vincente, risultando efficace nonostante alcune ridondanti sottolineature grottesche. Il film distribuisce qui e là qualche sorriso velandosi in realtà di un'aura solennemente tragica, fino a quando, a circa venti minuti dal termine, Strickland ci regala una magnifica sequenza di horror gotico che spinge gli accadimenti sino alle potenziali, estreme conseguenze di un rapporto ormai imputridito.
Se questo fosse stato l'epilogo, tutta l'opera ne avrebbe giovato. Invece l'autore decide di non decidere, e prolunga il racconto accartocciandosi in una stancante serie di finali / non finali che nulla aggiungono al senso della storia, togliendo in compenso compattezza e concretezza al film. Un inciampo che frena un lavoro comunque interessante, diretto da un regista che sarà bene tenere d'occhio.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda tecnica

Regia: Peter Strickland
Sceneggiatura: Peter Strickland
Attrici: Sidse Babett Knudsen, Chiara D'Anna, Monica Swinn
Musiche: Cat's Eyes
Fotografia: Nic Knowland
Montaggio: Mátyás Fekete
Anno: 2014
Durata: 106'

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TORINO 32 - It Follows, di David Robert Mitchell

24/11/2014

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L’opera seconda di David Robert Mitchell (dopo l’esordio di The Myth of the American Sleepover) arriva al Festival di Torino dopo l’ottima accoglienza ottenuta a Cannes, dove è stata presentata all’interno della prestigiosa Semaine de la Critique. Dimostrazione, questa, di un’attenzione tutta particolare nei confronti di uno dei più interessanti tra i giovani talenti statunitensi contemporanei, che questa volta vira violentemente il suo sguardo verso il genere, e in particolare verso l’horror.
It Follows riprende il discorso adolescenziale della sua opera prima, guardando però ai punti di riferimento del new horror degli anni Settanta e Ottanta; di quel cinema qui se ne respira a pieni polmoni, nonostante Mitchell sembri particolarmente attento nell’evitare qualsiasi eccesso o deriva sanguinolenta, preferendo lavorare di sottrazione sul non visto e sul non detto.
La vicenda ruota intorno a un contagio trasmesso attraverso i rapporti sessuali: è appunto quello che succede alla protagonista Jay, che dopo aver trascorso una notte insieme a un ragazzo appena conosciuto si ritrova a fare i conti con apparizioni misteriose e la costante sensazione che qualcuno la stia seguendo. L’unica soluzione per evitare di essere raggiunti e uccisi è quella di scappare, oppure di contagiare qualcun altro, “trasferendo” così la maledizione.
Sembra quindi abbastanza semplice individuare le coordinate generali entro le quali si muove tutto il film, legato profondamente a un concetto di disagio giovanile che, nonostante la componente fisica e sessuale, si guarda bene dall’abbracciare qualsiasi forma di moralismo reazionario. Basterebbe la straordinaria sequenza iniziale per rendersi conto, finalmente, di trovarsi di fronte a un film che utilizza il genere per guardare oltre la superficie delle cose, recuperando quella sua funzione destabilizzante per raccontare il mondo e gli orrori che si nascondono appena sotto la superficie: una strada deserta, una ragazza che esce di casa urlando e invocando aiuto, ripresa attraverso un carrello circolare a 360 gradi; e poi la fuga, disperata e improvvisa, verso una salvezza che appare come un miraggio.
In una città di provincia che sembra provenire direttamente dalla Haddonfield di Halloween, ma anche dalla Springfield di Nightmare – Dal profondo della notte, Mitchell racconta di giovani vite smarrite nella periferia post-industriale di un mondo e di una società, riconducendo l’origine del disagio a nuclei famigliari costituiti da padri assenti e madri alcolizzate. Un film fatto di macerie, reali o morali che siano, dalle quali è impossibile elevarsi perché qualsiasi tentativo di fuga è destinato a risolversi in un fallimento; e questo fallimento ci riguarda tutti, senza distinzione di sorta, perché il contagio ormai ha sparso le sue metastasi ovunque.
Che lo si voglia interpretare come una metafora sull’AIDS o altro, nulla riesce a modificare la portata del discorso di Mitchell: it follows, esso ti segue. In questa contemporaneità fredda e spietata, fatta di profili Facebook e account Instagram, nella quale non si esiste se non ci si mette in mostra, il film mette a nudo il desiderio (o la necessità) di essere osservati; lavorando magistralmente sullo sguardo, moltiplicandolo e sfaccettandolo continuamente senza fare ricorso a found footage di sorta (al contrario, invece, richiamando un immaginario profondamente legato agli anni Ottanta), il giovane regista americano realizza l’unico horror possibile (oggi) sul contagio virale, trasformando il fuoricampo in motore narrativo e lasciando che lo spettatore trovi da solo la propria strada da percorrere, nel tentativo di districarsi all’interno di un plot che pone tantissime domande senza fornire le risposte.
L’inquietudine che si sprigiona in questo modo è indiscutibilmente autentica: It Follows è l’incisione sulla lapide di un’intera generazione, condannata dalle colpe dei padri e impossibilitata ad affrontare l’orrore; perché nel momento stesso in cui lo si guarda in faccia, è già troppo tardi. 

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda tecnica  

Regia: David Robert Mitchell
Sceneggiatura: David Robert Mitchell
Attori: Maika Monroe, Keir Gilchrist, Jake Weary, Olivia Luccardi
Fotografia: Mike Gioulakis
Musiche: Disasterpeace
Montaggio: Julio Perez IV
Anno: 2014
Durata: 107’

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TORINO 32 – Tokyo Tribe, di Sion Sono

22/11/2014

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Talento incontenibile e in grado di entusiasmare le platee festivaliere, Sion Sono continua a portare avanti un'idea di cinema tanto personale e divertita, quanto coerente e lucida nella serietà con cui cerca di radiografare il mondo e l'identità del Giappone. Il pretesto in questo caso è dato dal manga Tokyo Tribe 2, realizzato da Santa Inoue nel 1997, che in Italia si vide per le edizioni d/books (ne esiste anche una versione anime, ancora inedita), incentrato su una guerra tra bande nella capitale giapponese, e chiaramente influenzato dalla cultura hip hop. Nelle mani del regista nipponico, la materia si fa una sorta di incandescente musical tutto giocato sulle metriche serrate dei rapper (autentici), che definiscono in tal modo la propria identità culturale, all'interno di una città ritratta con toni post apocalittici degni di un 1997: Fuga da New York (citato esplicitamente con il furgone adornato da vistosi candelabri), e delle sue degradazioni più pulp, fra il trionfo del bric-à-brac e dell'estetica da street art.
L'origine fumettistica serve all'autore per saturare l'immagine di dettagli e per giocare con una recitazione perennemente sopra le righe, che crea un linguaggio omogeneo nella sua sovraeccitazione: lens flare, treni e scie luminose che tagliano l'inquadratura, motivi architettonici che descrivono geometrie fatiscenti e, nel contempo, permettono di snocciolare set in grande continuità. Un mondo decadente ma generoso nel suo accumulo di spunti visivi, in grado perciò di dare continuità all'idea di una città-universo, dove ogni angolo è in grado di descrivere una piccola grande realtà, mentre lo stile narrativo affastella musica, iconografie gangster e combattimenti a colpi di mazze, katane e arti marziali. Seguendo la linea già intrapresa con il precedente Jigoku de naze warui (Why Dont' You Play in Hell?), Sion Sono si abbandona a un piacere dell'accumulo che è pura gioia di fare cinema, fra piani sequenza lunghissimi ed elaborati, con una libertà narrativa e stilistica che non si vedeva dai tempi del primo Jonathan Demme, ma con un'anarchia tutta propria, che finisce per auto-sabotare volutamente anche il proprio citazionismo (si veda il dissacrante “tributo” al Kill Bill di Quentin Tarantino).
Eppure, tra le righe del divertimento estremo che trasmette questa folle guerra tra bande, emerge un'attenzione molto precisa alla scomposizione sociale di un mondo afflitto dal problema dell'identità e che sembra per questo incapace di afferrarne davvero l'essenza unificatrice. Se il tema è centrale sin dagli albori della carriera dell'autore, è nella fase più recente (quella che ha avuto in Kibo no kuni/The Land of Hope il suo spartiacque) che sembra essersi acutizzato e che, quantomeno, continua a rivolgersi ai fatti della storia recente – in Tokyo Tribe ogni tanto fa capolino un temibile terremoto, che naturalmente non può non ricordare quello vero del 2011. 
Così, la guerra tra bande diventa un terreno di coltura per possibili nuove alleanze che disfano e ricombinano continuamente i fronti: i personaggi passano dal ruolo di vittime a quello di eroi, e ci riescono ancor più quando uniscono le forze contro le avversità di una guerra totale che viene chiaramente identificata come futile e frutto unicamente di una innata tendenza distruttiva tipica di un meccanismo umano cui è utile opporre un atteggiamento di fratellanza. In questo modo, Sion Sono auspica una società meno frammentata nei particolarismi dei rispettivi microcosmi, invero molto forti in una realtà coesa ma anche parecchio parcellizzata quale è quella giapponese.
Il gioco delle citazioni e dei continui cambiamenti stilistici può dunque essere ricondotto anch'esso nell'ottica della continua ricerca di un punto di unione fra dinamiche altrimenti distanti, e rivela l'estrema complessità di un meccanismo che sta fra la sofisticazione della propria consapevolezza tecnica e l'idealismo anche un po' ingenuo (ma in senso non deteriore) di chi cerca ad ogni costo di leggere il proprio tempo e la propria società, trasmettendo al contempo dei valori allo spettatore. 
In tal senso, la filiazione dalla cultura hip hop si ritrova non solo nel rapporto vivo con una città che definisce i caratteri e i ruoli dei personaggi, ma anche nella natura controcorrente della propria visione d'autore, che però si stempera in un messaggio propositivo. Estremi che si toccano, all'interno di una concezione filmica complessa e per questo sempre entusiasmante, sia che la si affronti da un versante meramente sensoriale (il film può essere tranquillamente visto anche senza seguire la storia, godendo dei suoi eccessi e delle sue invenzioni visive) che più schiettamente contenutistico.

Davide Di Giorgio

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda tecnica

Titolo originale: Tokyo Toraibu
Regia: Sion Sono
Sceneggiatura: Sion Sono (ispirato al manga “Tokyo Tribe 2”, di Santa Inoue)
Attori: Ryohei Suzuki, Young Dais, Nana Seino, Shôta Sometani, Yôsuke Kubozuka, Riki Takeuchi, Yui Ichikawa
Fotografia: Daisuke Soma
Montaggio: Junichi Ito
Anno: 2014
Durata: 116’

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TORINO 32 - La chambre bleue, di Mathieu Amalric

22/11/2014

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L'amore che non muore. Quello che ti resta dentro, ti consuma e ti devasta, al punto di commettere gesti insensati che potrebbero disintegrare la tua vita. L'amore passionale, estremo, radicale, che scavalca ogni confine etico e ti precipita nel vuoto. L'amore che non finisce, per il quale sei disposto a puntare tutto sulla giocata più pericolosa, oltre la quale non c'è più alcuna via di ritorno.
Siamo in un piccolo paese della provincia francese; uno di quei luoghi ristretti in cui tutti fanno finta di non vedere ma in fondo osservano, spiano, sanno. Un imprenditore agricolo ritrova una donna con cui aveva avuto un principio di relazione alcuni anni prima; tra i due scoppia l'incendio carnale, morboso e inarrestabile, una droga di cui in breve tempo non si può più fare a meno. Entrambi sono sposati, ma iniziano a tradire i rispettivi consorti, incontrandosi regolarmente nella stanza di un hotel; lì, in quella camera dalle pareti azzurre, si tuffano in amplessi goderecci e rabbiosi. Dopodiché tornano a casa, nascondendo sotto lo zerbino l'odore del sesso appena consumato. Il meccanismo pare funzionare senza troppi intoppi, ma dopo un po' la lussuria non basta più; chi sta loro intorno diventa un ostacolo fastidioso, troppo fastidioso; un qualcosa che bisogna eliminare.
Come forse ormai saprete chi scrive considera Mathieu Amalric un attore di livello eccelso, con pochissimi eguali nell'intero panorama europeo. Non contento di fornire prove recitative sempre ai limiti della perfezione, Amalric conferma una volta ancora di avere ottime doti anche in veste di regista, grazie a La chambre bleue, sua quarta prova dietro la macchina da presa, tratta da un romanzo di Georges Simenon e presentata al Torino Film Festival dopo il soddisfacente passaggio a Cannes.
Scritto insieme a Stéphanie Cléau, anche co-protagonista del film nonché sua compagna nella vita, e girato in sole tre settimane, con budget e troupe ai minimi termini, il lavoro di Amalric compie la non facile impresa di trasportare ai giorni nostri un romanzo pubblicato nel 1963, mantenendo intatte le peculiarità dell'opera narrativa. Un po' come accade in Diplomacy di Schlöndorff (derivato da una pièce teatrale), anch'esso in programma al TFF, ci troviamo di fronte a un lavoro filmico che rispetta la materia d'origine e la rimodella senza pretendere di reinventarla, affidandosi a una messinscena puntuale e ben sintonizzata con le connotazioni linguistiche e sociali da cui prende spunto.
Amalric costruisce la sua regia come un meccanismo a incastro, in cui i tempi  si alternano e si contraggono, giustapponendo il presente, ovvero il pressante interrogatorio a cui sono sottoposti i due amanti, arrestati con l'accusa di aver assassinato i rispettivi compagni, con il recente passato, ovvero i fatti (realmente?) accaduti. Di fronte al commissario di polizia il protagonista Julien Gahyde ricostruisce giorno per giorno e parola per parola la sua relazione fedifraga, cercando di divincolarsi di fronte alle sempre più evidenti prove che pendono sulla sua testa; nel contempo noi vediamo le stesse scene declamate durante la testimonianza, scivolando a piene mani nel racconto per soppesare fatti e probabilità, bugie e verità. La sentenza finale del giudice accoglie senza troppe sorprese i due amanti, ma ciò che più (ci) interessa è rivivere il prima e provare a capire il perché, affinché ognuno di noi possa formare il proprio parere, senza condizionamenti in un senso o nell'altro.
Amalric compie un delicato ed efficace lavoro di sintesi, mantenendo la giusta equidistanza da ogni orpello stilistico e da ogni eventuale giudizio morale. La sua messinscena sa essere elegante e raffinata, ma al contempo riesce a trovare spunti originali, soffermandosi su primi piani, segmenti e lievi particolari, escludendo quasi totalmente i campi totali e focalizzandosi sui contrasti che nascono all'interno di ogni inquadratura.
Il regista/attore, a proprio agio nel doppio ruolo, esibisce senza alcuna remora il suo corpo nudo, così come quello della sua compagna nella finzione e nella realtà, azzardando perfino un paio di coraggiosi dettagli anatomici; l'amour fou che domina il racconto è visualizzato fin dentro le viscere, nel sangue di un morso e nei caldi liquidi dell'eccitazione. Le differenti tonalità cromatiche, tra il blu della camera, il rosso della passione e il grigio dell'interrogatorio, accompagnano inoltre gli stati d'animo sempre più incerti del personaggio, fino a che Gahyde, borioso e scaltro all'inizio, diventa un pulcino bagnato, schiacciato dal peso di una situazione impazzita a cui non può più porre rimedio.
Il suo sguardo perso nel vuoto, attonito, nudo come il corpo, testimonia e sigilla con esemplare efficacia lo smarrimento di chi ha spinto troppo oltre una temeraria sfida con il destino, cercando i gemiti dell'amore e trovando invece i sospiri della rovina.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda tecnica

Regia: Mathieu Amalric
Sceneggiatura: Mathieu Amalric, Stéphanie Cléau (dal romanzo “La camera azzurra” di Georges Simenon)
Attori: Mathieu Amalric, Léa Drucker, Stéphanie Cléau, Laurent Poitrenaux
Fotografia: Christophe Beaucarne
Musiche: Grégoire Hetzel
Montaggio: François Gédigier
Anno: 2014
Durata: 75'

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TORINO 32 - Diplomacy, di Volker Schlöndorff

22/11/2014

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Dovere e morale. Azione e riflessione. Distruzione e salvezza. Battaglia e resa. Opposti che si attraggono, sentieri che si intersecano, momenti che decidono una vita. Anzi, milioni di vite.
È una notte dell'agosto 1944, una notte che il mondo potrebbe non dimenticare mai. I nazisti stanno occupando Parigi ormai da quattro anni, ma il dominio è sul punto di concludersi definitivamente. Gli Alleati stanno per arrivare, la guerra è perduta. I tedeschi non voglio però ancora ammettere la sconfitta, pur essendone consapevoli, e progettano un piano devastante con cui disintegrare la Ville Lumière. I monumenti, le chiese e quasi tutti i ponti della città sono stati “decorati” con ordigni pronti a esplorare, per lasciar fluire le acque della Senna, sommergere Parigi e spazzare via la grandeur riducendo la città a un cumulo di morti e macerie. Il generale von Chloltitz ha ricevuto l'ordine di dare il via alle esplosioni, lasciando intatto soltanto il Pont Neuf, per concedere una via di fuga a se stesso e ai suoi uomini.
La catastrofe è imminente, manca pochissimo, ma all'improvviso nella suite dell'hotel Meurice in cui dimora il generale appare Raoul Nordling, console svedese che da tanti anni vive a Parigi, città per cui prova un completo senso di amore e rispetto. Il console ha spiato a lungo von Chloltitz, è a conoscenza del mefitico piano di distruzione ed è deciso a provare un ultimo, disperato tentativo per evitare la strage. Non potendo contare su forze militari proprie o sufficienti connivenze politiche, Nordling ha a disposizione un'unica arma: la diplomazia. Con l'uso del verbo cercherà di sfruttare ogni secondo che resta per convincere il generale a cambiare idea e bloccare le esplosioni.
Presentato al Torino Film Festival e uscito contemporaneamente nelle sale, Diplomacy rappresenta il ritorno alla regia di Volker Schlöndorff tre anni dopo La mer à l'aube. Il film è tratto da una pièce di Cyril Gely, che ha collaborato anche alla sceneggiatura, e proprio al teatro deve la sua chiara matrice stilistica. Tutto in una notte, all'interno di una stanza; l'impalcatura della pellicola si regge quasi unicamente sul confronto dialettico tra i due protagonisti, in una schermaglia che di rado lascia spazio a escursioni nel mondo esterno. Diplomacy rispetta la sua origine teatrale, non la rinnega e non se ne vergogna; trasforma il testo originario in cinema da camera, non compie particolari azzardi e non cerca soluzioni sprovvedute. Ne esce un lavoro quadrato, solido, puntuale, misurato, che si autolimita per un'evidente mancanza di quei guizzi necessari per poterlo trascinare verso vette invidiabili.
Ma forse in fondo è giusto così: qui non c'è bisogno di inseguire arzigogoli direttoriali utili per coprire eventuali falle di scrittura. Tutto il contrario: ciò che conta è narrare questa grande storia della Storia, perché essa stessa è sufficiente per riempire il film con i propri significati. Lo scopo è quindi palese, il risultato anche: Schlöndorff fa quello che basta, lasciando la scena (anzi, il palco) ai contendenti e sollazzandosi con le maiuscole prove degli attori protagonisti, due assoluti totem del cinema francese: Niels Arestrup e André Dussollier. Il primo ha ormai da alcuni anni raggiunto un livello di maturazione artistica impressionante, come dimostrano ad esempio le splendide prove in Un prophète di Audiard e nei recenti Quai d'Orsay di Tavernier e La Dune di Aviram, visto al Bergamo Film Meeting; il secondo si culla e ci culla in una pienezza recitativa che non ha più nemmeno bisogno di commenti.
Nei panni rispettivamente del generale tedesco e del console svedese, Arestrup e Dussollier divorano il film, diventano il film, permettendoci di entrare nelle ambiguità e nelle sfumature di un racconto che mescola con buon equilibrio realtà e fantasia e ci porta idealmente in quella stanza, tra quelle pareti, a combattere per il destino di Parigi. Fino all'ultimo istante, fino all'ultima sillaba, inseguendo la forza della parola e la luce della speranza.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Torino 32


Scheda tecnica

Titolo originale: Diplomatie
Anno: 2014
Regia: Volker Schlöndorff
Sceneggiatura: Cyril Gely, Volker Schlöndorff
Fotografia: Michel Amathieu
Montaggio: Virginie Bruant
Interpreti: André Dussollier, Niels Arestrup
Durata: 84'
Data di uscita: 21/11/2014

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TORINO 32 - Il programma ufficiale

12/11/2014

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Nel segno della qualità e della ricerca, sempre e comunque. Il Torino Film Festival non si smentisce, non ci abbandona, e anche quest'anno propone un programma ricchissimo di contenuti e suggestioni, in cui perdersi tra i numerosi sentieri tematici messi a disposizione di spettatori e addetti ai lavori.
Nonostante i continui tagli al budget, e la concorrenza di altri Festival (pardon, Feste) sempre più inutili, la manifestazione piemontese, diretta quest'anno finalmente in via ufficiale da Emanuela Martini, ha saputo rendersi ancora una volta indispensabile, assemblando un cartellone che offre al pubblico solo l'imbarazzo della scelta. Nove giorni di festival, dal 21 al 29 novembre, con 197 film, comprensivi di 70 anteprime italiane e 45 anteprime mondiali; undici sale dedicate, contro le tredici degli scorsi anni: si punta per quanto possibile al risparmio, dal punto di vista logistico, ma senza intaccare l'eccellente qualità del lavoro compiuto dai selezionati, come sempre abili a comporre un programma estremamente eterogeneo. 
In questo magnifico marasma indicare i cosiddetti titoli “imperdibili” diventa un'operazione ai limiti dell'impossibile, perché tanti e troppi sono i potenziali cavalli di battaglia del festival, disseminati tra la sezione Torino 32 (ovvero i film in concorso, come sempre opere prime, seconde e terze) e le tante sezioni collaterali, dalla pantagruelica Festa Mobile all'oscura After Hours, dalla raffinata e sperimentale Onde ai TFF Doc, passando per la seconda parte della retrospettiva dedicata alla New Hollywood, senza dimenticare omaggi, restauri e ulteriori mini-sezioni non prive di interesse. 
Dando dunque per scontato che le sale torinese saranno piene in ogni ordine di posto per tutte le proiezioni di titoli “forti” come Magic in the Moonlight di Woody Allen, A Second Chance di Susanne Bier, The Disappearance of Eleanor Rigby di Ned Benson (con Jessica Chastain, due film “gemelli” in cui la stessa storia è raccontata da due diverse prospettive), The Rover di David Michod (con Robert Pattinson), The Theory of Everything di James Marsh (possibile candidato all'Oscar), The Drop di Michael R. Roskam (con l'ultima interpretazione di James Galdolfini), Wild di Jean-Marc Vallée (con Resee Witherspoon) e Cold in July di Jim Mickle (tratto da un romanzo di Joe R. Lansdale), proviamo a segnalare anche film alternativi, forse non di primo impatto per il grande pubblico ma sicuramente di altissimo interesse.
Nel concorso, tra le 15 opere provenienti da tutto il mondo, ci balzano subito all'occhio l'erotismo al femminile di The Duke of Burgundy di Peter Strickland, già autore dell'ottimo Berberian Sound Studio e The Babadook, curioso horror fiabesco di matrice australiana. Sempre tra i titoli in concorso non mancheremo di visionare con curiosità lo svedese Gentlemen di Mikail Marcimain, regista del notevole Call Girl, passato in concorso lo scorso anno, e il belga Violet, indicato come un incrocio tra Van Sant e il primo Egoyan. 
Passando alla Festa Mobile, la teorica selezione diventa ancora più probante: da non perdere ad esempio La Chambre Bleue di Mathieu Amalric (da un romanzo di Simenon), la mini-serie P'tit Quinquin di Bruno Dumont, il bizzarro thriller scandinavo Turist (candidato all'Oscar per la Svezia), il bellissimo western The Homesman di Tommy Lee Jones e Diplomacy di Volker Schlöndorff, con due giganti come André Dussollier e Niels Arestrup. I cinefili potranno inoltre gioire ed esaltarsi con Tokyo Tribe, ennesima delirante follia di Sion Sono, e con il documentario Storm Children – Book 1 del sempre più amato Lav Diaz. Molti gli horror presenti, su tutti It Follows, già applaudito a Cannes, The Guest di Adam Wingard e l'inglese The Canal, oltre alla mini-retrospettiva dedicata a Jim Mickle. Tanti i film italiani disseminati in tutte le sezioni, alcuni significativi altri molto meno, e per fortuna piuttosto folta la presenza del cinema francese, con due titoli in concorso (Mange tes morts e Mercuriales) e altri fuori concorso (i già citati Amalric e Dumont, ma anche Gemma Bovery di Anne Fontaine, La Sapienza di Eugene Green, L'enlèvement de Michel Houllebecq di Nicloux e Inupiluk di Sebastien Betbeder, premiato lo scorso anno per 2 automnes 3 hivers).
Infine una citazione per la New Hollywood, con la possibilità di rivedere tra gli altri grandi classici come La ballata di Cable Hogue di Peckinpah, Il laureato di Nichols, Duel e Lo Squalo di Spielberg, La conversazione di Coppola, Il fantasma del palcoscenico di De Palma, Il grande freddo di Kasdan, e un'ultima sottolineatura per immortali capolavori che saranno presentati in versione restaurata: Via col vento, Profondo rosso e Il gabinetto del dottor Caligari.
Siamo stati esaustivi? No, sicuramente no. Abbiamo solo lanciato qualche sassolino, lasciato qualche indizio, disegnato qualche traccia: a voi scoprire tutto il resto, scegliendo il percorso che più vi aggrada. Orizzonti di Gloria sarà presente al festival con una cospicua rappresentanza di redattori e vi offrirà un'ampia copertura dell'evento. 

Alessio Gradogna

Tutto il programma dettagliato sul sito ufficiale.

Sezione di riferimento: Torino 32

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